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Direttore editoriale: Natalia Bloise
Anno IV, n. 40, dicembre 2010
Gramsci e Confucio
nel pensiero politico
del partito vietnamita
retto da Ho Chi Minh
di Guglielmo Colombero
Da Città del sole un saggio rigoroso
che ripercorre le tappe di un itinerario
politico-militare destinato al successo
Scrive nella sua prefazione al libro Viet Nam: le radici della resistenza. Consenso e strategia militare del Partito Comunista Indocinese nel nord Viet Nam tra il 1941 e il 1945 (Città del sole, 2010, pp. 400, € 18,00, presentato quest’anno al XXIII Salone Internazionale del Libro di Torino) Annamaria Baldussi, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia, alla Facoltà di Scienze politiche di Cagliari (l’autore ha curato il suo volume Sud-Est asiatico: scritti italiani, scritto insieme all’autrice della postfazione Sandra Scagliotti): «Ogni rivoluzione per avere successo necessita di un gruppo dirigente organizzato capace di tenere conto degli innumerevoli elementi spontanei che influiscono su una determinata società». Enrico Lobina, dottore di ricerca in “Storia, istituzioni e relazioni internazionali dell’Asia e dell’Africa in età moderna e contemporanea”, nonché dirigente cagliaritano del Partito della rifondazione comunista e funzionario della Regione autonoma della Sardegna, ha già pubblicato la monografia La sanità in Cina (Cascc, 2009). In questa sua seconda opera, frutto di quattro anni di meticolose ricerche su fonti locali, Lobina analizza le premesse storiche della rivoluzione vietnamita partendo dall’epoca colonialista, e punta il focus sul periodo della Seconda guerra mondiale, dato che fu proprio fra il 1941 e il 1945 che in Viet Nam il Partito comunista di Ho Chi Minh pose le basi per la lotta di liberazione nazionale destinata a concludersi vittoriosamente nel 1975.
Il riso, Confucio e il colonialismo francese
Bac Bo è il termine con cui i vietnamiti definiscono la zona settentrionale del loro paese (i colonizzatori francesi la chiamavano Tonchino). «Dal punto di vista storico», scrive Lobina, «il Bac Bo è stata la culla della nazione vietnamita. È nel delta del Fiume Rosso che la popolazione kinh ha sviluppato la coltura estensiva ed intensiva del riso, che ha portato alla sovrappopolazione e ad una gestione centralizzata del potere». Intorno all’anno mille, il Viet Nam ottenne l’indipendenza dalla Cina, e nel nuovo stato «s’affermò progressivamente la forma di governo confuciana, con la conseguente estraniazione dal potere dei buddisti. I vietnamiti s’appropriarono di tale modo di governare, stabile e avanzato per il periodo, e lo innalzarono a regola. Il confucianesimo, cioè, si trasformò in mezzo attraverso il quale ottenere il controllo sociale e l’unità dello Stato, e quindi opporsi in maniera efficace all’invasore, quasi sempre i cinesi. Il confucianesimo dev’essere letto come una grande filosofia comportamentale, dalla cui eredità parte del continente asiatico non può sfuggire, così come l’Europa non può sfuggire alla sua eredità cristiana». Riso e confucianesimo, quindi, sono sempre stati i due pilastri fondamentali della società vietnamita: «L’elemento economico che raccoglieva e unificava gli abitanti era il riso […] Dal punto di vista sociale, invece, due elementi apparentemente in contraddizione erano il nocciolo dell’organizzazione sociale del villaggio: la partecipazione alla vita di villaggio e la gerarchia familiare e individuale». La colonizzazione francese, avviata nel 1858, durò quasi un secolo (fino al 1954): secondo l’autore, attraverso la colonizzazione il Secondo impero «tentò di stringere attorno a sé i lavoratori, in nome di una comune missione civilizzatrice. Con la colonizzazione anche chi non è ricco può accarezzare il sogno di fare fortuna all’estero e forse, chissà, di tornare un giorno in patria per mostrare il nuovo status. Insomma, attraverso la politica estera si cercò di saldare un blocco sociale disomogeneo». La mise en valeur della colonia, messa in cantiere agli albori del XX secolo, trascurò lo sviluppo agricolo concentrandosi prevalentemente sulle infrastrutture ferroviarie, in relazione all’esigenza del controllo militare del territorio tramite lo spostamento rapido delle truppe. Una conseguenza funesta di questa strategia coloniale da parte della Francia fu la drastica riduzione del tenore di vita alimentare della popolazione vietnamita: il consumo annuale di riso indispensabile per la sussistenza, che nel 1900 era di circa 250 kg, scese a 180 alla vigilia della Seconda guerra mondiale. E il fenomeno avvenne a fronte di un aumento delle colture, il che significa che il riso in eccedenza fu esportato, e quindi sottratto al consumo locale. Inoltre, il regime monopolista coloniale stroncava le attività artigianali legate alla distillazione dell’alcool e alla vendita del sale, mentre la produzione di oppio lievitava fino a coprire quasi metà delle entrate totali dell’Indocina. Infine, sotto il profilo più strettamente politico, l’amministrazione coloniale francese tentò inutilmente di emulare il Civil Service dell’India britannica, puntando soprattutto su un solido apparato repressivo e su una presenza militare sempre più invasiva (90.000 uomini in armi nel 1939, dei quali 15.000 francesi e 75.000 arruolati fra gli indigeni). In definitiva, osserva Lobina, nell’Indocina francese «sconfitto il mandarino, il contadino vide i propri punti di riferimento progressivamente scomparire, combattuto fra l’idea di abbandonare l’amato villaggio per un futuro incerto, e la fame che cresceva. Si creò un vuoto di potere, che non venne coperto dai francesi».
Tramonta l’armonia confuciana, la donna si emancipa
Una svolta cruciale per il Viet Nam colonizzato fu la Prima guerra mondiale: centomila indocinesi furono trasferiti in Francia, arruolati nell’esercito o ingaggiati nelle fabbriche per colmare la carenza di manodopera dovuta alla mobilitazione generale. I lavoratori vietnamiti, conoscendosi fra di loro, si resero conto di far parte di un popolo e non solo di un villaggio: i più intellettualmente curiosi assimilarono il pensiero occidentale, compreso quello libertario del 1789, e lo trapiantarono in patria nel dopoguerra, gettando le basi per un’alternativa al confucianesimo imperante. «Il darwinismo sociale e il positivismo», spiega Lobina, «insieme ad altre ideologie, vennero popolarizzate e fatte proprie da ampi strati sociali che si andarono formando in quegli anni nelle principali città vietnamite. Si trattava principalmente di piccola e media borghesia, e, al sud, anche di proprietari terrieri. Tali gruppi sociali rifiutavano il passato e cercavano nel presente, soprattutto nella cultura internazionale, le risposte alla crisi del proprio Paese e alle loro precarie condizioni di vita». Un particolare rilievo assunse la questione femminile: il confucianesimo confinava la donna in un ruolo subordinato rispetto all’elemento maschile. «Durante il XIX secolo», osserva Lobina, «la condizione femminile subì il doppio giogo della monarchia oscurantista e del colonialismo francese». A partire dagli anni Trenta «la volontà d’emancipazione dallo sfruttamento coloniale e dalla condizione di servitù che vivevano all’interno delle mura domestiche portò molte di loro ad aderire attraverso una militanza totalizzante al movimento comunista. Il partito sostituì la famiglia, anche perché per una donna si rivelò molto più difficile che per un uomo coniugare militanza e vita privata». Ma, al di là della retorica rivoluzionaria, le «classi sociali a cui si faceva riferimento, inoltre, vivevano in una tale indigenza che era difficile pensare alla modificazione radicale dei rapporti familiari. Nel caso, per esempio, che in una famiglia lo spirito rivoluzionario fosse comune a tutti i membri, era normale che si dedicasse all’attività rivoluzionaria l’uomo e che la donna, seppur rivoluzionaria, rimanesse a casa, magari a procurare il sostentamento per il “rivoluzionario di professione”».
La calma tempestosa in Indocina in mezzo ai venti di guerra
Durante la Seconda guerra mondiale, il partito di Ho Chi Minh operò in un contesto «fluido e cangiante»: la resistenza anti-nipponica era sostenuta dagli USA e osteggiata dalla Gran Bretagna, timorosa di favorire l’ascesa dei comunisti nel Sudest asiatico. Dopo il crollo della Francia nel giugno 1940, l’esercito del Sol Levante si insediò a Saigon, costringendo le autorità coloniali francesi a una coabitazione forzata. Un accordo-capestro del 1941 obbligava l’Indocina a consegnare riso, caucciù e minerali al Giappone, in cambio di una contropartita del tutto simbolica: nel 1942 quasi tutto il riso esportato finiva nelle mani del governo di Tokyo. Il 9 marzo 1945, con un brutale colpo di forza, il Giappone si impadronì militarmente dell’Indocina, esautorando l’amministrazione francese. Fu proprio in questo periodo, fra il 1940 e il 1945, che il Partito Comunista Indocinese di Ho Chi Minh iniziò a radicarsi nel Paese. Il primo tentativo insurrezionale fu duramente represso dai francesi il 22 novembre 1940: «Un centinaio di quadri del partito furono condannati a morte, più di duemila furono le persone che pagarono con la vita il “terrore bianco”». Traendo utili insegnamenti da questa sconfitta, il partito di Ho Chi Minh operò una svolta radicale nella primavera del 1941, quando si tenne a Pac Bo il suo ottavo plenum. Nacque il Viet Minh, e la parola d’ordine divenne «accumulare forze in vista di un momento favorevole, che sarebbe stato determinato probabilmente dagli eventi internazionali. Nel frattempo si sarebbe dovuta conquistare la popolazione attraverso un’attività che collegasse propaganda, presenza fisica, presenza militare ed educazione». Benché le prigioni coloniali si riempissero di comunisti arrestati dai francesi, la propaganda rivoluzionaria fra i secondini «ebbe in alcuni casi un tale successo che le prigioni diventarono dei centri decisionali e dei centri di smistamento di materiale rivoluzionario»: un esempio lampante di quanto fosse efficace la propaganda di Ho Chi Minh. E altrettanto lungimirante si rivelò la strategia adottata nei confronti delle minoranze non vietnamite, come i cinesi e i Tay, i cui esponenti furono inseriti da Ho Chi Minh ai massimi livelli della gerarchia di partito.
Ho Chi Minh, infaticabile pedagogo e tessitore
Va sottolineato che il Viet Minh non fu una creazione di Ho Chi Minh, ma il perfezionamento di una struttura che esisteva già da qualche anno. Il primo embrione del Cqq, l’armata di liberazione nazionale indocinese, prese forma nell’inverno del 1941, e i primi scioperi (nel settore cotoniero) furono proclamati durante l’estate. Tre anni dopo, nel 1944, la popolazione vietnamita era stremata dal caro vita e dalla pressione fiscale. La carestia dei primi mesi del 1945 fu «catastrofica. Le scene che visse la popolazione, più nelle aree rurali che nelle città, furono apocalittiche»: il bilancio delle vittime è tuttora incerto, ma furono sicuramente non meno di un milione.
Lobina tratteggia con estremo rigore storicistico il profilo del leader della Resistenza indocinese: lui e il suo gruppo dirigente «nella preparazione della rivoluzione, utilizzarono largamente le locuzioni thoi co (momento opportuno) e co hoi (occasione favorevole). In questo modo si voleva imporre la posizione per cui la rivoluzione va attentamente preparata. L’insurrezione generale, inoltre, oltre che da condizioni interne sarebbe dipesa da condizioni esterne delle quali bisognava tenere conto». Lobina, con il suo approccio scientifico alla materia, mette in luce un aspetto fondamentale della guerra del Viet Nam spesso trascurato dalla storiografia ufficiale: sia nel 1954 (approfittando della debolezza endemica della IV Repubblica francese) che nel 1975 (volgendo a proprio favore la crisi interna degli USA, scossi dallo scandalo Watergate), i dirigenti comunisti vietnamiti (Ho Chi Minh prima, i suoi successori dopo) seppero trarre il massimo vantaggio dalle “circostanze esterne”, ottenendo la vittoria senza aggravare ulteriormente il già altissimo tributo di sangue pagato (mezzo milione di morti nella guerra contro i francesi dal 1946 al 1954, quattro milioni di morti nella guerra contro gli USA dal 1964 al 1975, contando anche cambogiani e laotiani).
Tornando alla figura di Ho Chi Minh, Lobina sottolinea che il leader del Viet Minh «aveva vissuto e praticato la terza internazionale di Mosca, aveva conosciuto la Cina e la lotta dei comunisti prima e dopo la lunga marcia e conosceva, per averle vissute direttamente, le vicissitudini del movimento comunista e anticolonialista vietnamita». Da questa sua multiforme formazione politica discende la lucidità sempre dimostrata negli enunciati basilari: «se vogliamo combattere i francesi e i giapponesi, ci devono essere dei combattenti armati. Ma chi si offrirà volontario per trasportare i fucili? Se vogliamo vincere, dobbiamo avere masse politicamente coscienti, e che poi possono essere organizzate in unità armate».
Conclude Sandra Scagliotti nella sua postfazione: «L’autore, focalizzando la sua analisi sul periodo in cui il fronte Viet Nam venne a enuclearsi, coagulando consenso popolare per poi cogliere il thoi co – il momento favorevole che permise di sferrare l’attacco decisivo contro le forze coloniali e proclamare l’indipendenza – ci guida alla conoscenza della modernità – e della post-modernità – di un paese che, a lato di un ininterrotto dibattito interno sul tema della moralità e legittimità politica, è giunto a compiere scelte decisive, puntando oggi sull’accelerazione economica e, nel contempo, sulla questione sociale».
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 40, dicembre 2010)
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