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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
In nome della “sicurezza”
abusi eclatanti ed ordinari
di Paola Mazza
Da Castelvecchi un fumetto sull’assurdo decesso
di Stefano Cucchi, vittima della violenza di stato
Morire per mano di coloro che dovrebbero essere i garanti della sicurezza. Essere umiliati, insultati, pestati, ammazzati. Dalle forze dell’ordine. Sembra un ossimoro, eppure temere la sicurezza non appare qualcosa di così raro e le violenze e i soprusi non sono così infrequenti.
A volte arrivano a casi di eclatante e ripugnante abuso, a volte arrivano alla morte delle vittime. In qualche caso le famiglie, gli amici, i movimenti di denuncia che si creano riescono a portare alla luce l’avvenuto, a far aprire inchieste, gridando ed esigendo verità e giustizia.
La maggior parte delle volte, però, non veniamo neppure a conoscenza degli avvenimenti. Di omicidi che vengono fatti passare per morti naturali, di pestaggi che si trasformano in atti di autolesionismo, di assassini in divisa che si convertono nei nostri protettori.
E ancor meno sappiamo di tutti quei soprusi quotidiani, pestaggi, umiliazioni che avvengono nelle caserme, nelle carceri, nei Cie. Ordinari abusi di potere perpetrati dalle forze dell’ordine, in un contesto istituzionale che spesso giustifica, legittima, protegge e nasconde tali consuete barbarie.
«Non mi uccise la morte», cantava De André, Non mi uccise la morte, ripetono Luca Moretti e Toni Bruno, intitolando con tali parole – apparse su un manifesto che si vide sui muri di diverse città italiane – il proprio fumetto (Castelvecchi, pp. 112, € 12,00). Fumetto che racconta di una delle ultime note vittime dell’ordine pubblico. La triste storia di Stefano Cucchi, affidata alle tavole di un graphic novel che si inserisce in un lavoro di informazione, denuncia, richiesta di verità per l’assurda morte del ragazzo romano.
Dall’arresto alla morte
Non lo uccise la morte. Stefano fu fermato dalla polizia il 15 ottobre del 2009, nel Parco degli Acquedotti a Roma, dove era in compagnia del suo cane e di un altro ragazzo. Venne trovato in possesso di alcuni grammi di hashish, dunque portato in caserma, arrestato e ricoverato, il tutto in una serie di spostamenti che si concluderanno qualche giorno dopo, il 22 ottobre, con il suo decesso. «Sopraggiunta morte naturale», viene dichiarato.
Al momento del suo arresto Stefano, però, godeva di buona salute. Nel carcere di Regina Coeli, invece, il ragazzo rifiutò le cure mediche e si negò al cibo. Le sue condizioni peggiorarono giorno dopo giorno. A ciò si aggiungevano strani e vaghi segni di violenza, lesioni, fratture, gonfiori che i medici riscontravano sul suo corpo. Si parlò di «accidentale caduta dalle scale».
Venne ricoverato presso la sezione penitenziaria dell’ospedale Sandro Pertini. I genitori non poterono vederlo né ebbero sue notizie per giorni a causa dell’assenza di un’autorizzazione, mentre le condizioni di Stefano andavano peggiorando. Furono avvertiti della sua morte dai carabinieri che si recarono a casa per notificare alla famiglia l’espletazione dell’autopsia. Il corpo che i genitori si trovarono davanti era irriconoscibile. La sua dolorosa immagine, grazie alla forza proprio dei genitori e della sorella Ilaria che ne consegnarono le fotografie alla stampa, iniziò a circolare, mostrando un corpo orribilmente segnato.
Si aprì un’interrogazione parlamentare, si creò un movimento di opinione che invocava giustizia. Sconcertanti alcune dichiarazioni che vennero dal governo. Il ministro Alfano ritornò sull’inverosimile versione della caduta dalle scale, mentre il sottosegretario Giovanardi affermò: «Stefano Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropositivo».
Nel frattempo dalle perizie emergevano imbrattamenti nelle cartelle cliniche e inadempienze dei medici che non erano ricorsi al trattamento sanitario obbligatorio. Giunse la voce di un detenuto gambiano che affermò di essere stato testimone di violenze perpetrate su Cucchi.
Sotto accusa furono posti tre guardie carcerarie, sei medici, tre infermieri e un funzionario del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria).
I drammatici avvenimenti, la perquisizione, l’arresto, il processo, i pestaggi, il ricovero e infine la morte vengono raccontati dai due autori attraverso disegni che illustrano la storia degli ultimi giorni di Stefano, dal suo ingresso in caserma. «Una storia che riguarda tutti», e che trova un filo che unisce gli episodi di violenza istituzionale, dal caso Pinelli a quello Aldrovandi.
Tavole che illustrano l’arroganza delle forze dell’ordine; la vulnerabilità di barboni, stranieri, dello stesso Stefano, vittima di tali violenze; la paura, la disperazione e la rabbia dei genitori.
Alcune fotografie sono poi riportate all’interno del fumetto: le immagini riguardanti momenti della vita familiare di Stefano, in compagnia del padre, della madre, della sorella, scattate prima dell’arresto, quelle agghiaccianti del suo corpo dopo l’autopsia, quelle commoventi che ritraggono le manifestazioni e le testimonianze di solidarietà in memoria di Stefano.
Consuete eccezioni
Il libro si chiude con un saggio di Cristiano Armati. Egli si chiede, dinanzi alle immagini del corpo dilaniato di Stefano, «se questo è un uomo». L’autore rievoca brevemente altri casi di efferata violenza istituzionale come quello di Federico Aldrovandi, Riccardo Rasman, Aldo Bianzino, Giuseppe Torrisi, Gabriele Sandri, Manuel Eliantonio mentre «la teoria della “mela marcia” prende il sopravvento e i vari pregiudicati in divisa diventano delle semplici, dolorose, ma inevitabili, eccezioni in un corpo comunque presentato come sano».
Denunciando gli abusi delle forze dell’ordine, dei quali sono spesso vittime giovani colpevoli di avere con sé pochi grammi di hashish, costretti a perquisizioni anali o vaginali e a percosse, l’autore afferma: «Ebbene, se la legge è davvero uguale per tutti, è ora che chi indossa la divisa salga sul banco degli imputati per assumersi, insieme alle responsabilità penali dei singoli, anche la responsabilità di mettere in discussione il sistema dell’Ordine Pubblico, affrontando un discorso che riguarda – indistintamente – gli agenti penitenziari, i carabinieri e la polizia».
Storie purtroppo ordinarie, che talvolta arrivano alle nostre orecchie ma che per lo più rimangono a noi sconosciute. Storie frequenti che lasciano inorriditi e spaventati. Esemplare è la frase, di Giuseppe Luzi, comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Castrogno, resa pubblica pochi giorni dopo la morte di Cucchi e riportata in apertura del libro di Moretti e Bruno: «Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto».
Paola Mazza
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 40, dicembre 2010)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi