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Anno IV, n. 39, novembre 2010
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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno IV, n. 39, novembre 2010

Zoom immagine L’impero coloniale:
il laboratorio politico
su razza e sessualità
per l’Italia fascista

di Paola Mazza
In un libro edito da Sensibili alle foglie
le nefandezze del razzismo imperiale:
un filone tuttora ignorato e ostacolato


Al giorno d’oggi assistiamo a una chiusura sempre maggiore nelle politiche di difesa dei confini nazionali e comunitari dalle “invasioni” esterne di immigrati. Numerose sono le barriere che si costruiscono, tanto a  livello legislativo, quanto di campagna politica e mediatica, quanto di conseguente senso comune razzista dell’opinione pubblica italiana. Questo atteggiamento non rappresenta però qualcosa di nuovo, ma ha degli importanti e noti precedenti in una delle fasi più oscure della nostra storia: il Fascismo e il colonialismo mussoliniano al tempo della conquista dell’impero d’Etiopia.

Una ricostruzione attenta di quelle che furono le strategie politiche in relazione alla costruzione e alla difesa della “razza italiana”, con una particolare attenzione alla prospettiva di genere, è stata effettuata da Nicoletta Poidimani. L’autrice, nel suo Difendere la ‘razza’ (Sensibili alle foglie, pp. 208, € 16,00), porta avanti un importante lavoro di tessitura fra le varie fonti che si riferiscono al tema dell’identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, come esplicita il sottotitolo del testo stesso.

Il libro si inserisce dunque in un capitolo della storia italiana poco conosciuto ma anche poco indagato, i cui studi sono stati a volte osteggiati, facendo sì che molti crimini in esso perpetrati rimangano ai più sconosciuti o ignorati, mentre ancora diffuso permane il mito degli “italiani brava gente”.

Alcuni pochi studiosi e storici si impegnano invece allo scopo di portare alla luce e denunciare le nefandezze dell’impresa coloniale. In tale filone si inserisce la stessa autrice che focalizza il proprio sguardo anche verso il presente e quegli aspetti del “passato” che appaiono invece così attuali. «Conoscere questa parte della nostra storia è urgente soprattutto oggi, con il riattivarsi, sulla pelle di donne e uomini migranti, in nome della sicurezza, di vecchi e sperimentati dispositivi razzisti e de-umanizzanti che si formarono proprio nei cinquant’anni dell’esperienza coloniale in Africa».

Ancora oggi assistiamo a numerose discriminazioni e abusi che, radicati nel senso comune della popolazione, utilizzano «la medesima atroce logica che, nelle colonie, legittimò violenze, deportazioni, stupri, sfruttamento lavorativo e sessuale per affermare la superiorità e il prestigio della ‘razza italiana’», sfociando in un nuovo tipo di fenomeno razzista.

 

La ricerca

Il razzismo dunque appare tutt’altro che superato, come l’autrice ebbe modo di notare anche nel viaggio che diede l’inizio alle ricerche che portarono alla scrittura del libro. Un viaggio svolto nel 2001 in Eritrea, durante il quale la Poidimani verificò come il contingente italiano presente all’interno della spedizione delle Nazioni unite – inviate sul luogo a causa del conflitto con l’Etiopia – mettesse in atto nei confronti della popolazione locale gli stessi comportamenti tenuti dai colonizzatori fascisti. Allo stesso modo riscontrò un medesimo atteggiamento di superiorità da parte degli italiani che vivevano nello stato africano.

L’autrice analizza nel corso nel testo come il razzismo fascista non si riduca a quell’antisemitismo a tutti noto che si impose con la promulgazione delle leggi razziali del 1938, ma fu in realtà preceduto e preparato nei territori coloniali attraverso la campagna per la difesa della razza, contro il meticciato, costituendo il laboratorio delle politiche razziali e sessuali che furono poi attuate in Italia.

Un grande ruolo in questo processo di costruzione della coscienza collettiva razzista italiana fu svolto dalla rivista, pubblicata negli anni che vanno dal 1938 al 1943, La difesa della razza, importantissimo strumento di diffusione delle idee del razzismo fascista.

Razzismo fascista, il cui termine non aveva la valenza negativa che caratterizza il suo utilizzo attuale, in un momento come quello odierno in cui difficilmente viene ammesso in quanto tale, ma più spesso si presenta nascosto e mascherato sotto altre forme di intolleranza, rendendosi così talvolta più sottile e insidioso. L’Italia fascista invece, come noto, si richiamava a una concezione esplicita e positiva del razzismo, valore importantissimo e concetto giuridico su cui si fondava lo stato razzista italiano.

 

Il laboratorio africano

L’impero coloniale fu visto come la soluzione della questione emigratoria che portava al “dissanguamento” della razza italiana, che vedeva gli italiani disperdersi per il mondo invece di contribuire alla grandezza della nazione. Al tempo stesso la coscienza razziale dava un comune senso di appartenenza alle popolazioni di tutta Italia, risolvendo quel razzismo (questa volta utilizzando il termine nel significato corrente) che caratterizzava la percezione dei settentrionali nel confronti della popolazione del Sud.

Ai fini della creazione di un’identità che non fosse solo nazionale, bensì anche imperiale, fondamentale fu il concetto della superiorità razziale degli italiani. Si trattava di una superiorità dimostrata scientificamente, che orientasse il comportamento dei coloni a evitare una promiscuità con la popolazione colonizzata, fino ad arrivare a quel regime di apartheid che caratterizzò anche le colonie italiane.

Tali concetti inoltre dovevano essere diffusi capillarmente nell’opinione pubblica, dunque attraverso una letteratura scientifica per il pubblico più colto, ma anche attraverso una loro “volgarizzazione” per la popolazione meno istruita o analfabeta. Per questo motivo fu grande l’utilizzo di immagini e fotografie che tendevano a rimarcare la differenza e l’inferiorità della razza nera rispetto a quella italiana.

Particolare importanza in tale quadro aveva la questione del meticciato, pericolo per la conservazione della purezza della razza, nefasta e orrorosa unione di una popolazione superiore con una inferiore che avrebbe portato a una degenerazione della razza italiana. «Per estirpare definitivamente  il “problema del meticciato” bisognava risalirne alla radice: le relazioni tra uomini italiani e donne africane». Da qui ebbero origine le rigide politiche sessuali e di separazione (anche urbana) fra le razze abitanti le colonie al fine di impedire, seppur con risultati fallimentari, le unioni tra coloni e colonizzati e la diffusione delle nascite di meticci.

Osteggiando il meticciato dunque si venne determinando una particolare visione della donna locale che perdette quell’erotizzazione della popolazione femminile conquistata, caratteristica delle imprese coloniali e che aveva connotato anche le fasi precedenti del colonialismo italiano, come dimostra lo stesso testo del canto “Faccetta nera”. Le donne africane, situate ai più bassi gradini dell’essere umano in quanto donne e in quanto nere, si trasformarono nella propaganda e nell’immaginario fascista da sensuali e disponibili seduttrici – concezione che molto spesso aveva giustificato gli abusi dei colonizzatori fino allo stupro – a sporche, riluttanti e portatrici di infezioni.

Questi e altri i temi trattati dalla Poidimani, nel cui testo emerge come il razzismo fascista, basato su credenze pseudoscientifiche, che cercava di legittimarsi attraverso le conoscenze della medicina, della biologia, dell’antropologia, sembra oggi aver lasciato il posto a una sua nuova forma – caratterizzata spesso dall’enfasi su altre caratteristiche, su diversità non genetiche, quanto piuttosto culturali, sociali, economiche e sulla gerarchizzazione di tali differenze – ma comunque purtroppo un razzismo presente e persistente.

 

Paola Mazza

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 39, novembre 2010)

 

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