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Anno IV, n. 39, novembre 2010
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Filosofia e religioni (a cura di Maria Grazia Franzè) . Anno IV, n. 39, novembre 2010

Zoom immagine Un giudice
eroe per caso

di Andrea Vulpitta
Un noir da Einaudi
ambientato tra
rifiuti e ‘ndrangheta


Mimmo Gangemi è originario di Santa Cristina d’Aspromonte ed è, nonostante la giovane età – è nato nel 1950 – un ingegnere in pensione, cosa che gli permette di dedicarsi, con ottimi risultati, alla sua passione: la scrittura. Abbiamo avuto il piacere di assistere ad una recente presentazione della sua ultima fatica presso una gremita libreria Mondadori di Cosenza, dove l’autore non si è sottratto alle domande del pubblico e ha anche accettato, di buon grado, alcune critiche che gli ospiti gli hanno mosso. Anche se non ci troviamo di fronte alla scoperta di uno scrittore emergente (l’autore ha infatti una produzione letteraria da almeno 15 anni), la notorietà raggiunta dall'autore con il suo ultimo romanzo Il giudice meschino (Einaudi, pp.360, € 19,00) lo rende un fenomeno letterario, alimentato dal suo recente ruolo di editorialista di alcuni importanti quotidiani nazionali. I dolorosi fatti di Rosarno hanno, infatti, dato spazio a Gangemi, che ne ha fornito la sua personale lettura in alcuni editoriali che hanno suscitato un vivace dibattito. Chiariamo subito che, sebbene, per stessa ammissione dell’autore, l’infanzia trascorsa a respirare ‘ndrangheta, a vivere a pochi passi dai mafiosi, conoscerne azioni, espressioni e movenze, lo abbia ovviamente influenzato, il libro che abbiamo letto è un interessante romanzo, genere noir, ambientato in Calabria, sotto alcuni aspetti premonitore, perché ruota intorno alla terribile problematica dell’interramento e dell’affondamento dei rifiuti in Calabria e si basa, come dice il titolo, sulla figura di un giudice, donnaiolo e scansafatiche, che tenta di fare giustizia in memoria del collega, Giorgio Maremmi, barbaramente ucciso.

 

Dalla minaccia all’agguato

Certamente riti, segnali e ambiente in cui si muove il giudice meschino sono palesemente descritti dall’alto di una grande conoscenza ed esperienza, ma la figura del protagonista, il giudice Alberto Lenzi, potrebbe essere tranquillamente calata in una diversa realtà, anzi, il suo status di padre separato, con difficoltà a costruire un rapporto con il figlio, un bambino che frequenta la scuola elementare, lo rende, nonostante la modernità dei tempi, un personaggio molto poco ancorato alla tradizione calabrese. Completa il quadro dei tre amici Lucio Cianci Faraone, di nobile famiglia con laurea in Legge, ma nella vita solo scansafatiche.

Il libro nasce dalla ricostruzione di una minaccia fatta al giudice Maremmi da un personaggio di bassa levatura criminale in occasione di un processo. Seguono alcuni giorni trascorsi tra paura e sfottò da parte degli amici, terminati con l’agguato, avvenuto subito dopo essersi chiuso alle spalle il portone della casa dove alloggiava. Nella pur difficile realtà calabrese, l’omicidio sconvolge sia la procura sia il giudice Lenzi, che sente sulla sua persona tutto il peso della responsabilità di rendere giustizia all’amico. Il romanzo entra così nel vivo con l’uccisione dei due fratelli, uno detenuto in carcere e l’altro giustiziato nelle macine di un frantoio, che avevano minacciato pubblicamente il giudice Maremmi, e delinea, in classico stile giallo, ma con la straordinaria conoscenza dei rituali della ‘ndrangheta, fatti, contraddizioni e false piste: innanzitutto l’uccisione di un giudice – se si esclude la figura di Antonio Scopelliti (vedi bottegascriptamanent.it n. 14, ottobre 2008: La ‘ndrangheta non uccide i servitori dello stato) –, e poi le parole dette e non dette del vecchio capo mafia in carcere.

 

I rifiuti tossici triste episodio premonitore della realtà

Scopre, il giudice Lenzi, che il collega si era imbattuto in una triste storia di interramento di rifiuti, alla quale erano seguite uccisioni, strane scomparse, intimidazioni varie che arrivavano fino in Lombardia, a indicare che il livello era ancora più complesso di un semplice affaire di ‘ndrangheta. Non manca la figura della talpa: troppe coincidenze erano un chiaro segnale che qualcuno facesse il doppio gioco. Nasce così l’idea di attirare in un tranello l’infedele, che si materializza in casa di Lenzi e finisce in rianimazione. Il libro si chiude con la rivalutazione della figura del giudice meschino che, colpito nell’orgoglio e nei suoi affetti, mostra come si può diventare eroe anche avendo pessime credenziali e senza volerlo, dando anche, forse involontariamente, un volto umano e di grande professionalità alla magistratura nel suo complesso. Il tutto senza nascondere come da lui serenamente sostenuto, un certo pessimismo nell’evoluzione e nel miglioramento della vita e della condizione umana dei calabresi di Calabria.

 

Andrea Vulpitta

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 39, novembre 2010)

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