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Anno IV, n. 39, novembre 2010

una bugia, per cupidigia e potere
di Angela Potente
Da Rubbettino un viaggio letterario e antropologico nella storia
di ogni conflitto: cantato nei poemi epici, raccontato dai media
La storia dell’umanità, ci insegna
E se vogliamo seguire l’immaginazione di Stanley Kubrick e del suo 2001: Odissea nello spazio, questi ci mostra, in una delle scene più evocative del film, come la prima scintilla di intelligenza sorta nel cervello della scimmia non ancora uomo, abbia trovato concretizzazione nell’assassinio di un proprio simile.
Pare dunque che grazie a tale capacità chiamata “ragione”, ciò che ci distingue dagli animali in estrema sintesi, l’essere umano sia riuscito a dare sostanza ad ogni più bieca forma di sopraffazione.
I conflitti, le guerre, anche le più piccole aggressioni trovano sempre una giustificazione, una menzogna cui aggrapparsi.
E un cammino alla scoperta, o piuttosto riscoperta, delle menzogne sottese ad ogni guerra e conflitto ce lo offre il godibilissimo libro di Ennio Remondino, Niente di vero sul fronte occidentale (Rubbettino, pp. 178, € 12,00), un compendio di storia dell’umanità, raccontata con acume e arguzia.
Come scrive nel suo Prologo l’autore «[…] ciò che vi propongo con questo libro è una sorta di viaggio. Ripercorrere assieme alcune delle strade più incerte della Storia, a caccia di bugie. La guerra come fonte di menzogna, sempre, e i suoi cantori e cronisti a coprirne gli imbarazzi».
La regola del sospetto
Il sospetto che dietro ogni guerra vi sia sempre un motivo diverso rispetto a quello che viene offerto all’opinione pubblica è ampiamente giustificato se guardiamo al passato.
La realtà però ci rivela quanto ormai siamo così assuefatti ed abituati all’idea di guerra che riusciamo sempre a farcene una ragione. Come scrive l’autore, nella Storia con la esse maiuscola riconosciamo che le guerre abbiano avuto termine con il concludersi della Seconda guerra mondiale, pertanto quelli che sono seguiti dopo vengono definiti conflitti, come se quest’ultimo termine delineasse un tipo di aggressione più soft: «Conflitto è un sinonimo che evoca invece un ammazzarsi quasi con buona educazione» scrive Remondino e a leggere i giornali o a sentire i diversi tg dobbiamo riconoscere che è così.
Anche e soprattutto perché per la società occidentale si tratta di guerre lontane, filtrate dagli schermi della tv o dalle pagine dei quotidiani: che un curdo di età media abbia dovuto assistere e subire nella sua vita, dal Dopoguerra in poi, ad almeno sei o sette guerre è un dato talmente lontano da noi che ci passiamo sopra tra un Grande Fratello ed un’Isola dei Famosi.
Che in Africa vi siano guerre quotidiane ce ne siamo fatti una ragione perché dove c’è fame c’è guerra. E finisce lì il nostro sdegno. Che queste guerre siano prodotte dalla fame di diamanti delle multinazionali occidentali, o dalla superfame di petrolio non è rilevante per il giudizio comune.
Perché le menzogne fanno comodo a tutti: ai vertici politici ma anche all’opinione pubblica che può continuare a gestire il suo senso di colpa trovando giustificazioni ed alibi.
La bugia, secondo la condivisibile opinione dell’autore, non è un semplice accessorio della guerra quanto una parte fondante e costitutiva, che ne modula le manifestazioni e le sembianze.
Nel corso del libro dunque, seguendo il filo rosso del binomio guerra-menzogna, ripercorriamo insieme all’autore alcune delle tappe storiche più significative per l’umanità: punti cardine che hanno segnato svolte fondamentali e in molte circostanze di radicale cambiamento per il cammino dell’Uomo.
Ma non solo, scorre tra le pagine anche una mirata critica al ruolo fondamentale che ricoprono i mezzi di informazione: filtro attraverso cui l’opinione pubblica forma le proprie idee in merito agli eventi.
Ulisse? Un eroe sporco e cattivo
Uno tra i primi reporter «da redazione», come viene argutamente definito nel libro, fu senza dubbio Omero, è a lui che infatti dobbiamo il racconto delle nobili gesta di Odisseo. Un reporter che aggiustò il racconto evidenziando l’eroicità delle gesta di Ulisse, mentre a ben guardare le epiche avventure narrate altro non sono che la messa in opera di un sistema violento e imperniato sull’offensiva, sulla conquista e sulla guerra. Scrive infatti Remondino: «Ulisse, a ragionarla con i criteri di oggi, è un disadattato sociale, reduce da una sporca guerra […]. I suoi cantori lo collocano in una dimensione surreale, proprio perché un simile personaggio non sarebbe stato in grado di vivere nella normalità. […]».
Un eroe dunque che di eroico ha solo l’immagine ricostruita ad arte dal nostro Omero, per l’opinione pubblica del tempo, per giustificare quando non mistificare vere azioni di guerra, oltrepassando quel labile confine esistente tra cronaca e racconto, come anche oggi accade: ogni guerra e ogni guerriero ha il proprio cantore e in relazione a quale parte di barricata appartiene riusciamo a giudicarla buona o cattiva, come se le guerre potessero avere una connotazione morale di bontà o utilità, mentre invece ci sarebbe solo da chiedersi: chi ci guadagna?
Il genocidio giustificato
Un breve accenno, condito da un grande tuffo in avanti nella Storia e tra le pagine del libro di Remondino, merita uno dei periodi storici meglio mistificati per l’opinione pubblica: le cosiddette “guerre indiane”.
Alla fine arrivavano sempre i nostri: strombazzando e con i cavalli schiumanti giungevano a liberare gli indifesi coloni vittime delle brutali aggressioni dei selvaggi rossi. Questa visione storica ci venne propinata, da cinema e libri, fino ad oltre la metà degli anni Sessanta, c’è voluto il ’68 con tutta la sua carica travolgente a invertire gli elementi del binomio fino ad allora assunto dalla Storia: uomo bianco, indifeso e civilizzatore, uomo rosso, selvaggio e crudele.
Pochi sapevano, o riconoscevano, che l’epopea americana nasceva dal programmato genocidio di un’intera popolazione che da millenni occupava quei suoli e quelle praterie.
L’opera di civilizzazione comprendeva infatti non solo che si facessero sloggiare i nativi americani dalle ricche terre che abitavano ma dall’intera faccia della terra.
Remondino cita a tal proposito un carteggio tra il generale William T. Sherman e il segretario della guerra Edwin M. Stanton da cui si evincono chiaramente le intenzioni dei civilizzatori bianchi: «Meglio buttarli fuori al più presto, e non fa molta differenza se ciò avverrà mediante l’imbroglio dei commissari per gli affari indiani o uccidendoli». E così fu fatto, anche se la Storia ha faticato ad ammetterlo.
Propaganda e dittature
Anche la vecchia Europa ha offerto alla Storia il suo genocidio programmato e, ancora oggi, illustri cervelli si interrogano su come ciò sia stato possibile. Senza voler assolutamente entrare nel merito prettamente storico dell’avvento del Fascismo e del Nazismo, vorremmo in questa sede sottolineare quanto è ben spiegato da Remondino: l’importanza fondamentale della propaganda nelle divulgazione anche delle idee più abiette. Ma in special modo su quanto proprio alla propaganda, allora come oggi purtroppo, sia dovuto il consenso del popolo.
L’impianto propagandistico fascista poggiava sulla mente di Benito Mussolini e sulla sua figura, e non dimentichiamo che il Dux era prima di tutto un giornalista, ben consapevole dell’importanza delle «tecniche di divulgazione» come scrive l’autore. Proclami semplici che entravano istantaneamente nell’inconscio collettivo meglio di qualunque moderno messaggio subliminale, il tutto volto a mascherare, deformare la verità.
Ma un vero teorico dell’arte della menzogna fu il fedelissimo di Adolf Hitler, Herr doktor, Joseph Goebbels il cui ministero portava un nome che era tutto dire: Ministero per la propaganda e l’illuminazione del popolo. Scrive l’autore: «Joseph Goebbels è quello che oggi, tempi di televisione e marketing, sarebbe definito un creativo. È lui, […], a elaborare il principio secondo cui “qualsiasi bugia, se ripetuta frequentemente, si trasformerà gradualmente in verità”». Possiamo sinceramente affermare, visto quanto accade nel mondo oggi, che proprio nessuno abbia imparato questa lezione?
Le guerre mediatiche dei nostri giorni
Il viaggio sulle tracce delle menzogne disseminate tra le pagine della storia non può dunque non concludersi rivolgendo l’attenzione ai nostri telegiornali e ai nostri quotidiani, impegnati a dare un’idea della guerra “pulita”.
Le guerre non vengono più definite tali ma asetticamente vengono chiamate operazioni di pace, perché si invade bellamente un altro paese con carri armati e missili per portarvi innanzitutto la pace.
In tal modo viene decorata e dipinta l’importazione della democrazia: la menzogna che diventa verità perché è decisivo convincerci che la pace passa attraverso le armi, attraverso le bombe intelligenti che riescono a centrare una colonna di civili in fuga dal proprio paese martoriato, e attraverso le mine che sembrano giocattoli per attirare meglio i bambini: sacrifici dovuti e calcolati ma inevitabili in un vero processo di democratizzazione.
L’unica verità che andrebbe riconosciuta è che le guerre sono guerre in qualunque modo queste ci vengano prospettate: «Il potere, nelle diverse forme della Storia, ama decidere come raccontarsi: cambiano solo l’aggressività del controllo e la dignità dei narratori», scrive Remondino, ed è così infatti, l’indignazione che proviamo nel leggere di mine antiuomo è passeggera e sostituita in un batter d’occhio dalla consolazione che i bombardamenti siano necessari per estirpare il male e far trionfare il bene. Senza soffermarci a riflettere a chi appartenga questo bene: «Chi paga sempre e comunque è la popolazione, coinvolta e colpita senza facoltà di scelta».
La verità di una guerra è una sola ed è che purtroppo “solo i morti conoscono la fine della guerra”.
Angela Potente
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 39, novembre 2010)
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