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Anno IV, n. 39, novembre 2010
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Problemi e riflessioni (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno IV, n. 39, novembre 2010

Zoom immagine Storia di lotta, coraggio,
amicizia e lealtà sociale

di Paola Mazza
Da Mondadori la vicenda di Falcone e Borsellino
raccontata dall’amico e collega Giuseppe Ayala


Scorrevole, avvincente e commovente come un romanzo, ma un romanzo non è, bensì la storia dell’eroica lotta condotta nei confronti della mafia, dell’indimenticabile ironia fra i tre amici siciliani, della loro prorompente voglia di vivere. Una storia arricchita dalle attualissime riflessioni dell’autore su “Cosa nostra” e sulla situazione vissuta dalla  Sicilia. Chi ha paura muore ogni giorno (Mondadori, pp. 212, € 17,50) è una storia vera, «la storia di una grande amicizia nata per caso e vissuta tra successi e drammi», un’amicizia resa solida dalla condivisione di grandi ideali tra l’autore, Giuseppe Ayala, e i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ayala, che lavorava in stretta collaborazione coi due giudici, percepì di essere ingiustamente vivo mentre i suoi compagni erano stati ammazzati. Decise, così, di affidare ad un libro i suoi racconti sul grande e appassionato impegno portato avanti al fianco dei colleghi.

  

Un impegno costante, un’amicizia intensa

È a ventotto anni che Ayala maturò la scelta di fare il magistrato, sostenuto da una gran voglia di schierarsi: «la parte giusta mi sembrò quella della Sicilia che combatte la mafia, non quella che la tollera». Ed è proprio questo desiderio che fece sì che l’incontro casuale con Falcone e Borsellino diventasse un sodalizio umano e professionale.

Falcone era da poco arrivato all’Ufficio di istruzione di Palermo tuttavia riscosse subito la fiducia di Rocco Chinnici – in seguito ucciso in una strage di mano mafiosa – che gli affidò l’importante istruttoria del processo Spatola. Stava per nascere il “metodo Falcone”. La mafia appariva al magistrato come un mondo enorme, inesplorato. Fino ad allora, infatti, erano stati studiati singoli avvenimenti, ma mancava una visione complessiva del fenomeno. Le indagini di Falcone non si fermarono a Palermo, in Sicilia, in Italia. Soleva ripetere: «la nostra filosofia di giudici palermitani deve essere questa: se l’eroina finisce negli Usa, ed è ampiamente confermato che questo accade, e se l’eroina viene pagata in dollari, a noi non resta che cercare dove finiscono quei dollari». Anche le banche, quindi, vennero coinvolte nel dare informazioni sui vari movimenti di valuta, una vera rivoluzione.

Il nostro autore conobbe per caso Falcone in un bar. A quei tempi conosceva ben poco di mafia ma si accorse subito che il magistrato non era affatto geloso del proprio sapere e, anzi, davanti ad una sua richiesta di capirne di più, si mise a sua disposizione invitandolo nel proprio ufficio. Iniziò un rapporto caratterizzato da un profondo e immediato feeling che li portò a frequentarsi assiduamente anche nel tempo libero.

Il testo non si ferma al racconto degli avvenimenti ma riporta particolari della vita privata e dell’amicizia dei suoi protagonisti, i sentimenti e le emozioni da cui vennero scossi. Come il dilemma di Ayala quando Francesca Morvillo, l’allora compagna di Falcone, gli consigliò – in seguito all’attentato e alla morte del generale Dalla Chiesa – di allontanarsi dalla pericolosa attività di lotta alle organizzazioni mafiose e la sua tormentata decisione di andare avanti.

Pochi giorni dopo venne convocato, insieme ad altre tre persone, per seguire il caso Dalla Chiesa, costituendo l’embrione del pool antimafia. Da allora fu sempre accanto a Falcone e Borsellino, rappresentando la pubblica accusa nel primo maxiprocesso, interrogando i primi pentiti tra cui lo storico boss mafioso Tommaso Buscetta.

Insieme ottennero le grandi condanne che passeranno alla storia, insieme nei viaggi per le rogatorie, insieme nelle vacanze, insieme anche nella grande solitudine quando, dopo i primi grandi successi nella lotta a “Cosa nostra”, si aspettavano una concreta risposta da Roma e invece corrotti ambienti politici vicino all’organizzazione mafiosa, l’operato del Consiglio superiore della Magistratura, le invidie di altri magistrati, le calunnie e le accuse di protagonismo iniziarono ad isolarli e danneggiarli.

Così l’autore sintetizza lo stato d’animo e il rapporto che esisteva tra i tre: «Il dolore e la paura avevano partorito un sodalizio che non era solo professionale e ideale. Era umano e personale. E definitivo». Un dolore generato dalla continua perdita di amici e colleghi, una paura causata dalla consapevolezza di andare ogni giorno incontro alla morte. Erano tuttavia resi coraggiosi da una convinzione: come disse Borsellino, «chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta».

 

Dal declino agli attentati

A poco a poco iniziò il declino del pool antimafia. Il suo capo, Nino Caponnetto, tornò a Firenze. Vista la sua competenza in campo di mafia e i risultati ottenuti, il suo naturale sostituto sarebbe dovuto essere Falcone ma, nel gennaio del 1988, a lui viene preferito l’altro candidato, il giudice Meli, più anziano di sedici anni. Sulla lotta alla mafia, sottolinea Ayala, prevalse la logica della gerontocrazia e dei privilegi di corporazione.

Nell’estate dello stesso anno un altro duro colpo: il governo nominò Domenico Sica, magistrato abile e di grande esperienza, ma che in conferenza stampa affermò con onestà: «La mafia? Sono qui per capire cos’è. Nei primi tempi ascolterò molto». Non con la stessa onestà, racconta l’autore, il ministro dell’Interno aveva proceduto a tale nomina. «Il governo aveva così servito al meglio le istituzioni? Una di sicuro. E sappiamo pure quale, anche se non appare nell’elenco ufficiale». L’amarezza fu grande tanto da far sostenere a Caponnetto e Borsellino che la morte di Falcone sia iniziata proprio in seguito a questa delusione.

Falcone non demorse e continuò la sua attività. Il 19 giugno 1989 la mafia decise che era arrivato il momento di fermarlo definitivamente. L’attentato fallì solo per un fortuito cambiamento di programma. Alcuni sostennero che fosse stato simulato dallo stesso Falcone. Scoraggiato e più che spaventato, in quanto consapevole di non aver vita lunga, sentiva che oltre alla mafia c’era dell’altro: «ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia». L’attentato fallito riuscirà in pieno il 23 maggio del 1992.

Poco meno di due mesi dopo, il 19 luglio, la stessa sorte toccherà all’amico Paolo. Dirà la sorella: «Paolo cominciò a morire quando morì Giovanni, come due canarini che difficilmente sopravvivono a lungo l’uno alla morte dell’altro».

Un racconto ricco di emotività. Il grande merito di questo testo, infatti, non sta soltanto nell’aver riportato le vicende di Falcone e Borsellino, ma è rappresentato anche dal fatto che la sua narrazione non può lasciare indifferenti, provocando, invece, forti suggestioni, rabbia e commozione, emozionando dinnanzi alla forza e coerenza dei suoi protagonisti.

 

Paola Mazza

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 39, novembre 2010)

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