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Comunicazione e Sociologia (a cura di Marilena Rodi) . Anno IV, n. 38, ottobre 2010

Zoom immagine Se la politica
è al servizio
della “casta”

di Guglielmo Colombero
Un saggio edito Pellegrini:
gli ultimi vent’anni di politica
che hanno trasformato l’Italia


«Il paese è ostaggio dal 1994 di due fazioni acriticamente contrapposte in nome di un bipolarismo caricaturale che impedisce qualsiasi riforma. In realtà con il referendum del 1993 che introdusse il mattarellum, in Italia non siamo diventati d’incanto una democrazia anglosassone come alcuni intellettuali a buon mercato hanno  tentato di farci credere. Ci siamo invece impaludati all’interno di uno schema primitivo che può sintetizzarsi nell’individuazione di chi ama Berlusconi, deus ex machina del nuovo corso, e chi invece lo odia». «Bella svolta», sottolinea con disincanto nell’introduzione al suo saggio Capolinea, viaggio ironico e amaro nell’Italia della seconda Repubblica (Luigi Pellegrini editore, pp. 232, € 18,00) Francesco Toscano, 31enne giornalista e avvocato originario di Gioia Tauro. L’autore (che ha già pubblicato un romanzo, Le stimmate non volute perché troppo dolorose, Tracce, 2002 e una monografia politologica, Liberalismo e Comunitarismo come strutture problematiche dialogiche dell’interculturalità, Aracne, 2009) fa partire la sua cronistoria dal 1992, l’anno fatidico di “Mani pulite”, ma sottolinea che «i processi non daranno risposte esaustive e non potevano darne. Non è impresa semplice processare la storia nelle aule dei tribunali». In effetti, in questi giorni lo scontro politico comincia ad assomigliare paurosamente alle risse fra tifoserie opposte allo stadio (del resto, la mentalità vincente del Berlusconi politico spesso coincide con quella del Berlusconi presidente di una società calcistica).

 

Il «cinghialone» intrappolato nella rete dei giudici

Dopo la caduta del Muro, il socialismo rampante di Bettino Craxi (quello, per intenderci, della «Milano da bere» e dei fischi sonori contro l’austero segretario comunista Enrico Berlinguer) inciampa nel finanziamento illecito ai partiti, scoperchiato dalla magistratura con una vera e propria offensiva non solo giudiziaria ma anche mediatica e culturale. Come aveva profetizzato il povero
Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi ultimi Scritti corsari del 28 agosto 1975 (un apologo durissimo contro la Dc allora al potere, con il quale lo scrittore friulano quasi sicuramente firmò la propria condanna a morte), per la prima volta nella storia del nostro paese una casta politica che si riteneva intoccabile si risveglia sbigottita sul banco degli imputati. E non basta a fermare il ciclone di “Mani pulite” il discorso lucidamente ricattatorio pronunciato da Craxi (che il giornalista Vittorio Feltri rappresenta come un «cinghialone» sempre più furioso braccato dai magistrati a caccia di tangenti) nell’aula di Montecitorio il 3 luglio 1992: «Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo (e cioè che tutti avevano accettato fondi illegali per finanziare i rispettivi partiti, Nda): presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Una volta messo in moto, l’ingranaggio inquisitorio travolge la Prima Repubblica, e spiana la strada alla discesa in campo di “Sua emittenza”, Silvio Berlusconi. Toscano però si pone un interrogativo inquietante: «Perché un partito come il Pci-Pds, parte come gli altri del sistema oggetto di indagini del pool, si rafforza politicamente negli anni del “terrore” mentre gli altri scompaiono?». Le sue conclusioni risultano alquanto sconsolate: Berlusconi «non solo è rimasto politicamente a galla ma è riuscito anche a convertire al desiderio d’impunità i suoi ex nemici di sinistra. La politica si è quindi saldata, da destra a sinistra, non su posizioni di trasparenza e di legalità, ma sul reciproco desiderio di affermare come sostanziale diritto l’intoccabilità della casta e non solo».

 

Arsenico e mortadella nei corridoi del potere

Commenta Toscano che, nel momento in cui Silvio Berlusconi annuncia dagli schermi televisivi la sua candidatura alla guida del governo, motivandola con il suo amore per l’Italia, «in un clima di profonda irrazionalità, mentre il Paese era vittima sia di infantili suggestioni che di odi profondi, persino una parte così improbabile, se ben recitata, poteva fare breccia nel cuore degli italiani». Ma la sua prima stagione politica dura solo sei mesi: la fase due di “Mani pulite” lo inquadra ben presto nel mirino, e grazie al clamoroso dietrofront della Lega di Umberto Bossi, ne provoca la defenestrazione politica alla vigilia del Natale 1994, somministrandogli una letale dose di arsenico mediante un avviso di garanzia recapitato in pieno G7 a Napoli, “sotto gli occhi dell’Occidente”. Gli subentra Lamberto Dini, definito da Toscano come «animato da sinceri propositi di rigore finanziario nonché guidato da criteri di ortodossia liberale», che però, una volta eletto presidente del Consiglio, «divenne più attento a non urtare la suscettibilità dei partiti che avevano maggiore interesse a tenere in vita il suo governo e ad accontentare i sindacati, che non a tradurre fedelmente in pratica i suoi buoni ma astratti propositi». Sull’avvento di Prodi (che dopo una parentesi durata mezzo secolo riporta le sinistre al governo in Italia), il giudizio di Toscano è piuttosto caustico e impietoso, specie quando raffronta il vincitore delle elezioni del 1996 (paragonato, per la sua bonomia da parroco di campagna, alla mortadella di Bologna) al suo rivale Berlusconi ripensando al controverso affare Iri-Sme: «senza voler comparare il profilo di entrambi con la lente, non sempre neutra, delle inchieste giudiziarie bensì utilizzando il criterio meno pericoloso della responsabilità politica, ci si accorge che anche il passato politico di Prodi nasconde vicende che, a voler essere buoni, potremmo definire poco edificanti». Ma, al di là di questo, l’autore riconosce che «l’ingresso dell’Italia nell’euro grazie al lavoro di risanamento dei conti pubblici di Prodi e di Ciampi è una delle poche pagine da ricordare con soddisfazione dell’ultimo periodo di storia italiana». L’effimera stagione del governo D’Alema è racchiusa da Toscano in un teorema audace e singolare, imperniato sulla Guerra del Kosovo nel 1999, dove si ipotizza: «una fine non casuale ma sostanzialmente eterodiretta del governo Prodi e della sua maggioranza che, a causa della massiccia presenza di forze ideologicamente ostili all’alleanza atlantica, avrebbero impedito o perlomeno ostacolato l’adesione del governo italiano ai propositi militari alleati».

 

Un leader messianico che promette ricchezza e felicità

Toscano rievoca la campagna elettorale del 2001 con pagine salaci che costituiscono forse la parte più interessante del suo libro, sotto altri aspetti di non facile comprensione per un lettore a digiuno di politica: «Indimenticabili le gigantografie 4 x 4 che campeggiano in tutte le città d’Italia, dalle vette innevate del Trentino al sole caldo della Sicilia troneggia il volto di Silvio, sorridente e rassicurante, che promette di trasformare la derelitta e triste Italia, provata dagli anni grigi dei sinistri al potere, in una specie di grande Gerusalemme Celeste». L’analisi del personaggio Berlusconi è particolarmente felice, perché utilizza una lente d’ingrandimento neutra, e invece di demonizzare un politico che comunque ha vinto tre volte le elezioni e ne ha perse due per il rotto della cuffia o quasi, cerca di sviscerare le ragioni del consenso da lui ottenuto: «C’è qualcosa di messianico e di fideistico nella forza del suo messaggio politico che tende a tagliare con l’accetta una realtà altrimenti complessa. […] L’approccio messianico è decisivo perché necessariamente irrazionale ed emotivo. Infatti, se i cittadini si fossero limitati a valutare freddamente i risultati raggiunti nel primo quinquennio dal centrodestra al potere, con ogni probabilità avrebbero decretato un prepensionamento anticipato per Berlusconi e i suoi dalla scena politica italiana».

 

Un copione ormai logoro che si ripete

Nel 2006, i duellanti sono nuovamente Prodi e Berlusconi, come dieci anni prima. Toscano stigmatizza il programma elettorale dell’Unione di Prodi come un «pamphlet di 281 pagine capace di confondere le idee persino ai pochi temerari che ne hanno completato la lettura». Dal canto suo, Berlusconi astutamente punta a «registrare messaggi diretti, positivi, chiari e ambiziosi, così ambiziosi da risultare irrealizzabili. Ma questo conta poco, l’importante è vincere, e per vincere si deve fare così». La risicata vittoria di Prodi genera un governo che Toscano non esita a definire «ridicolo»: le premesse, infatti, non lasciano dubbi, basti pensare allo psicodramma avvenuto durante l’elezione del presidente del Senato. Il secondo esecutivo Prodi appare «elefantiaco, frutto di estenuanti mediazioni che comporteranno lo spacchettamento di molti ministeri al fine di garantire qualcosina a tutti». Quando, puntualmente, dopo due anni viene sfiduciato, osserva l’autore che «si chiude così l’avventura di un governo di cui neppure i masochisti sentiranno la mancanza». Nel 2008 si prospetta l’ennesima resurrezione politica di Berlusconi, dato che, osserva Toscano (e come dargli torto?): «Veltroni non farà molta strada. […] incoronato dalle vecchie oligarchie di partito delegittimate dagli scandali finanziari, finirà con il condurre presto il Pd in un vicolo cieco». Pur riconoscendo che sarà «grazie alla determinazione di Walter e alla sua “vocazione maggioritaria”, se nella sedicesima legislatura i vari Boselli, Diliberto, Mastella e Pecoraro Scanio non imperverseranno più nei vari talk show televisivi». Il responso delle urne è perentorio: Berlusconi riconquista il potere «grazie al contributo decisivo di una classe dirigente di centrosinistra complessivamente inadeguata e mediocre». E il povero Veltroni esce di scena l’anno dopo, in seguito alla disfatta subita alle regionali in Sardegna. Crudo e mordace l’epitaffio che gli dedica Toscano, che ci pare la chiusa ideale per questa recensione: «Accolto come un nuovo messia ed eletto da una maggioranza bulgara accorsa festante alle primarie che lo videro trionfatore, uscirà mestamente di scena in pochissimo tempo, tra i fischi e i lazzi di tanti che soltanto qualche mese prima ne elogiavano seriosi la spinta di modernità e la grande capacità di creare suggestioni. Un caso, quello della rapida ascesa e del fulmineo crollo del primo segretario del Pd, che rappresenta un perfetto paradigma dei sempre attuali vizi dell’homo italicus, solitamente incline a riverire vincitori e potenti con la stessa foga con la quale sbeffeggia e umilia chi cade in disgrazia».

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n.38, ottobre 2010)
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