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Anno IV, n. 38, ottobre 2010
Meridione
incurabile?
di Cecilia Rutigliano
Da il Mulino: teorie
nuove per ridefinire
l’identità del Sud
Per Franco Cassano, docente di Sociologia e Sociologia della conoscenza presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari, la “questione meridionale” è scomparsa dalle agende politiche e dal dibattito pubblico a causa di un lungo processo che ha portato considerare le aree arretrate del Sud del mondo responsabili della propria condizione. A partire da questo presupposto, una riflessione sul Mezzogiorno oggi sembrerebbe superflua perché tutti replicherebbero che «il Sud italiano è una terra perduta per la quale e nella quale sembra inutile battersi».
Ma è davvero riducibile a una condizione patologica, senza possibilità di guarigione, la visione del Sud?
È noto l’impegno ventennale del sociologo a promuovere un forte ripensamento sul Mezzogiorno e sulla sua identità culturale e a portare in primo piano un dibattito sull’autonomia del pensiero meridionale che parta da parametri nuovi e tesi a scoprire la “non perifericità” del Sud dell’Italia. Questa riflessione, anticipata nel 1996 con il famoso Il pensiero meridiano (Laterza) prosegue e si concretizza oggi in Tre modi di vedere il Sud (il Mulino, pp. 108, € 10,00), un “libricino” – come lo definisce l’autore – nel quale Cassano analizza e confronta fra loro i vari paradigmi che hanno interpretato il Meridione. Ci sono, infatti, più modi di leggere il Sud: una pluralità di approcci con cui è possibile spiegare la questione meridionale, ognuno dei quali è all’origine di teorie, ma anche di prassi politiche, differenti.
Nel suo libro, che si caratterizza per un linguaggio adeguato anche ai non addetti ai lavori, l’autore si concentra in modo particolare su tre paradigmi che – a suo dire – rappresentano le alternative teoriche più rilevanti e le passa in rassegna con una prosa scorrevole e dal carattere fortemente divulgativo.
Il paradigma della dipendenza
Il concetto di dipendenza è alla base della prospettiva che guarda al Sud come vittima del sistematico sfruttamento delle proprie risorse a favore delle aree forti. Il Mezzogiorno non è in perenne ritardo rispetto al Nord: se lo fosse, le politiche di modernizzazione e di sostegno allo sviluppo potrebbero contribuire al suo superamento. La rappresentazione (non edulcorata) della realtà, invece, è un’altra: il Sud è in posizione di subordinazione rispetto al Nord e il tempo non riuscirà a colmare quest’apparente scarto temporale.
Questo approccio, derivante dalla tradizione critica del Colonialismo e dell’Imperialismo, ha avuto – riferisce Cassano – un discreto successo nella lettura del Mezzogiorno italiano durante gli anni Sessanta e ha sicuramente dimostrato che la strada dello sviluppo non è libera ma, al contrario, è presidiata dai più forti e segnata dagli interessi di questi ultimi, privando i più deboli di ogni possibilità di migliorare la propria condizione subalterna. L’unica via percorribile per questi ultimi è quella dell’espansione nelle sole nicchie lasciate libere dai centri forti, in una sorta di complementarità marginale che costringe ad arrendersi al proprio status di periferia. Secondo il sociologo barese, però, tale orientamento, basato su un’asimmetria che nega a priori ogni anelito al mutamento, è stato messo in crisi da quei casi di successo dei paesi sottosviluppati recentemente risaliti nella gerarchia internazionale: si pensi alla Cina e all’India.
La modernizzazione
Quello della modernizzazione è l’approccio più diffuso nella lettura del Sud, interpretato come area in cui permangono tratti sociali, economici e culturali che frenano il passaggio dalla tradizione alla modernità e ritardano il progresso. La “malattia” che affligge il Sud è, quindi, il suo perenne ritardo rispetto al Nord.
La trasformazione culturale e la rimozione di certi ostacoli possono, però, garantire una crescita del Sud e un recupero del “terreno perduto” rispetto alle zone avanzate: una “terapia” possibile, quindi, nell’ottica di una concezione lineare e diffusiva dello sviluppo.
Tale prospettiva, che per certi versi si può definire ottimista, ha portato negli anni ad attuare politiche diametralmente opposte fra loro. Subito dopo il secondo conflitto mondiale, infatti, la tendenza è stata quella dell’universalismo progressista: dare impulso a politiche d’intervento straordinario da parte delle pubbliche autorità, in quanto responsabili della promozione dell’uguaglianza tra i cittadini.
Negli ultimi venti anni, invece, in una prospettiva squisitamente liberista, si è guardato con ostilità all’intervento dello stato a favore delle aree svantaggiate: gli unici responsabili dell’arretratezza sono gli stessi “arretrati”, i quali devono imitare chi è più avanti rispetto a loro, contando semplicemente sulle proprie forze piuttosto che su un impulso proveniente dall’alto. Un’ottica “protestante” di tipo weberiano, quindi, alla base della quale domina l’idea di un Sud che non cresce perché non lo merita.
Il Sud nel Mediterraneo: l’autonomia
La rappresentazione del Sud come condizione patologica è – seguendo l’approccio dell’autonomia – una costruzione culturale elaborata dai soggetti più forti, che hanno eclissato, dietro le rigide categorie del ritardo e dell’arretratezza, l’idea del Sud come forma di vita dotata di una sua specificità e dignità e che hanno continuamente guardato al Mezzogiorno come la faccia opposta della medaglia della modernità.
La corrente autonomista, sebbene non immune da limiti e critiche, ha il pregio di «non riconoscere al Nord il brevetto universale per la produzione di forme di vita perfette». Vale a dire che il Meridione «non ha solo da imparare, ma anche qualcosa da insegnare», in quanto non si trova fuori, ma all’interno del meccanismo dello sviluppo e della modernità e declina questi ultimi secondo le proprie caratteristiche specifiche e secondo le proprie peculiari differenze rispetto al Nord. Differenze che da un lato non devono essere cancellate o abolite ma, al contrario, valorizzate al fine di costruire una soggettività nuova e alternativa; dall’altro non devono correre il rischio di tramutarsi in “nicchie” prive di aspirazioni di tipo universalistico e soffocate nella trappola del localismo, portatore di divisione e conflitto.
Autonomia, quindi, significa «apprendimento e immaginazione, confronto con tutte le esperienze che tentano di battere strade non disegnate dalle mappe esistenti e che proprio per questo hanno bisogno di collegarsi e di conoscersi». Significa mobilitazione delle risorse migliori, trasformazione della dimensione “locale” in una possibilità virtuosa e dinamica.
Secondo Cassano, fautore di questo paradigma nonché protagonista della sua costruzione e definizione, la via dell’autonomia consiste nella costruzione di un nuovo centro, di una nuova area geopolitica e geoeconomica. Dal momento che non siamo più in uno stato nazionale ma in quella costruzione assai complessa che è l’Unione Europea, il Sud può assumere una nuova centralità. Più che di “questione meridionale” è ormai opportuno – e anche necessario – parlare di “questione mediterranea”. Ricollocare il Meridione in una dimensione nuova, cioè, è una possibilità che deve spingere le classi dirigenti a impegnarsi in progettualità innovative, di respiro europeo e non localistico, con l’obiettivo di superare il federalismo fine a se stesso e vivere in uno spazio “sconosciuto”: il Mediterraneo.
Cecilia Rutigliano
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 38, ottobre 2010)
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