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Anno IV, n. 37, settembre 2010
Quando la tv
condiziona
anche i sogni
di Francesca Rinaldi
Un dvd e un libro Fandango
denunciano i miraggi indotti
dalle televisioni commerciali
È proprio come un disvelamento, come vedere per la prima volta quello che hai sempre avuto davanti agli occhi o anche, come dice Daniele Vicari, «[…] è il corrispettivo cinematografico della Lettera rubata di Edgar Allan Poe». Quello che per noi italiani, nati e cresciuti con la televisione cosiddetta “commerciale”, è ovvio considerare parte di noi, della nostra cultura, rimane invece un enigma, un caso da studiare per coloro che guardano la nostra televisione da un altro punto di vista culturale.
E già, perché, per citare Martin Heidegger, l’“ovvio” proprio perché è ciò che si incontra per strada, ciò che ci viene incontro, è difficile da spiegare. L’Italia di oggi è questo coacervo di ovvietà difficili per noi da riconoscere, da sezionare e dunque da analizzare, ma ci ha provato Erik Gandini con il documentario Videocracy. Basta apparire che Fandango ha distribuito in Italia e che è nelle librerie insieme al libro Videocracy. Come tutto è cominciato (Fandango libri, dvd e libro, € 17,90).
Il film è un documentario presentato per la prima volta in Italia alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel settembre 2009, non in concorso, ma nella sezione “Settimana internazionale della critica”.
Il libro, a cura di Andrea Salerno, raccoglie gli interventi di alcuni significativi scrittori, giornalisti e sceneggiatori del panorama culturale italiano, nell’ordine: Antonio Scurati, Daniele Vicari, Francesco Piccolo, Curzio Maltese, Andrea Purgatori, Chiara Valerio, Mario Desiati, Susanna Nicchiarelli, Giovanni Ferrara e Erik Gandini. Ciascuno di loro ha dato il suo contributo spiegando innanzitutto l’impressione e, talvolta, il sentimento provato vedendo Videocracy. Basta apparire.
Come tutto è cominciato
Il film-documentario racconta la realtà italiana riflessa dalla televisione, ma come in un gioco di specchi, non si capisce più qual è l’immagine reale. Il bisogno di leggerezza subito intercettato dalle nascenti emittenti private nei primi anni Ottanta diventa ostentazione di corpi di donne sempre più giovani e nude negli anni Novanta e fino ad oggi. L’affermazione delle televisioni berlusconiane ha imposto una nuova estetica, un “fascismo estetico”, dove il fascismo sta nell’imporre un unico modello, nel fornire un unico codificatore rigido che dà alle persone normali come unica soluzione per uscire dalle “proprie catene” l’apparire, il corpo. E allora ci si chiede se dare allo spettatore soltanto carne e spettacoli scadenti sia un sistema per fare audience, perché è questo che in fondo vuole o se, come dice Lorella Zanardo sul blog Il corpo delle donne, questo «[…] spettacolo televisivo che ci ha proposto Berlusconi, da trent’anni a questa parte, il sogno in cui ci ha risucchiati, non era una strategia di marketing. Era quello che piace veramente a lui. Era il suo sogno».
Assistere alle feste di Lele Mora (agente di personaggi dello spettacolo), vedere la sua piscina, la sua villa, la sua stanza da letto bianca, ci proietta in un universo veramente surreale che fa sì che in noi non si produca alcuna indignazione quando, sempre Mora, parla alle telecamere della sua ammirazione per il Fascismo, mostrando un video sul suo telefonino montato con la musica di Faccetta nera. Gli impiegati, gli operai che lavorano tutto l’anno per poi fare una vacanza estiva in Costa smeralda, in Sardegna, soltanto per fotografare, o passeggiare accanto a “veline”, “letterine” del momento, che escono da qualche villa o dal famigerato “Billionaire”, questo sì, produce più indignazione, perché ci fa capire come la televisione in Italia abbia prodotto una macelleria di corpi e sorrisi in esposizione senza nient’altro come sostegno. Viene in mente anche a noi, come a Ferrara, la famosa massima di Theodor W. Adorno: «Auschwitz comincia quando qualcuno guarda il mattatoio e pensa: sono solo animali», quando nel documentario vengono mostrati alcuni provini e soprattutto alcune esibizioni in un centro commerciale di provincia di ragazze speranzose di essere scelte per avere una possibilità di muoversi ammiccando in una qualsiasi trasmissione televisiva. Anche il cinismo e l’arroganza di Fabrizio Corona (titolare di un’agenzia fotografica) non fanno più impressione nel film di Gandini, tanto siamo anestetizzati dal sentimento di mestizia che pervade la realtà italiana così come ci è stata finalmente svelata da un occhio esterno, da un blow-up “antonioniano” che ci ha fatto capire come il nostro immaginario ci venga in realtà imposto.
La televisione in Italia come principale fonte d’informazione
Gandini è nato e cresciuto a Bergamo, ma da molto tempo è residente e lavora in Svezia. Il suo punto di vista sia da documentarista che da “straniero” ha fatto sì che questo suo lavoro sull’Italia sia sufficientemente distaccato da risultare spietato. Il film non solo è stato scarsamente distribuito, ma ha avuto molti veti posti addirittura contro la messa in onda del trailer sia sui canali Mediaset che Rai.
Leggere il libro Videocracy e vedere il film, però, proprio grazie al disvelamento che citavamo all’inizio, fa bene. Crea in noi non un filtro ma una chiave di lettura per camminare nelle strade dei nostri quartieri e capire molte cose delle persone che incrociamo. Capire il perché alcune ventenni e massaie cinquantenni si muovano in un determinato modo. La risposta sta davvero, come si vede in un passaggio del film, riportato anche nel libro, nel fatto che l’Italia in alcune classifiche internazionali è «al 67° posto nel mondo per pari opportunità, al 73° per la libertà di stampa. E l’80 per cento degli italiani utilizza la tv come principale fonte d’informazione». E anche come principale fonte di creazione del proprio immaginario e dei propri sogni, chiosiamo noi. Peccato che siano ricalcati su immaginario e sogni di qualcun altro.
Francesca Rinaldi
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Giovanna Russo