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Anno IV, n. 37, settembre 2010
Inefficienze e atti violenti
in un centro per disabili
di Paola Mazza
Un’esperienza di tirocinio universitario trascorsa
quattro anni fa presso il romano “Vaclav Vojta”
Il mondo della disabilità, dei suoi protagonisti, dei suoi spazi, delle sue caratteristiche. Un mondo che mi era sconosciuto e al quale mi sono avvicinata per la prima volta in occasione di un tirocinio universitario, nel 2006, al mio secondo anno di Scienze della formazione. Un centro specializzato nella riabilitazione di persone con disabilità fisiche e psichiche. Un luogo che, per le aspettative speranzose della neofita, sarebbe dovuto essere quasi un paradiso per le persone disabili e che invece, in alcuni aspetti, mi è sembrato uno spazio di insensibilità e violenza.
Mi riferisco al “Vaclav Vojta”, un grande centro, situato nella capitale. Numerosissime le attività specifiche rivolte ai vari tipi di utenza e una grande professionalità emergono dalla sua pagina web. Eppure alla rilettura di un diario da me al tempo redatto – ricordo e testimonianza che mi aiuta a riportare le esperienze vissute senza l’offuscamento del ricordo distante nel tempo – le cose appaiono per tanti aspetti diverse. E nonostante siano passati ormai anni, la sensazione di stretta allo stomaco rimane ancora la stessa.
Il centro non mancava di aspetti positivi: la sensibilità e la serietà di parte del personale, l’organizzazione di molte attività che permettevano lo sviluppo delle diverse abilità degli utenti. Tuttavia tali elementi brillanti venivano oscurati da una serie di altri aspetti.
La mia esperienza in particolare si è svolta in una delle numerose classi che compongono il centro diurno. Le mie osservazioni dunque si rivolgono per lo più a quanto vissuto nel gruppo chiamato “relazioni interpersonali”, anche se alcune sono generalizzabili a situazioni osservate nel centro nel suo complesso.
L’inefficienza e il frequente utilizzo di rinforzi negativi
Rilevavo innanzitutto come l’utilizzo dei mezzi e del tempo a disposizione fosse tutt’altro che ottimizzato. Erano molto frequenti e altrettanto lunghi i momenti di inattività in cui i disabili semplicemente non facevano nulla, rimanendo seduti intorno a un tavolo con lo sguardo che si perdeva nel vuoto. Quei pochi lavori che invece eseguivano erano ripetitivi e consistevano, per lo più, nell’utilizzo di fogli e colori, pur essendo gli armadietti pieni di materiali diversi. E tutto ciò non avveniva per la strada, nei luoghi comuni, negli ambiti familiari, ma proprio nel centro specializzato per il lavoro educativo e riabilitativo delle persone disabili.
Riscontravo inoltre un pesante e massiccio utilizzo dei rinforzi negativi (rimproveri verbali, offese, minacce e punizioni), e un ricorso decisamente minore a quelli positivi (lodi, premi e ricompense).
L’impressione era quella di un centro molto bello, all’apparenza. Ma dal di dentro scoprivi particolari che lo spogliavano del suo incanto mostrandone le contraddizioni.
La struttura era fornita di un gran giardino, che non veniva quasi mai utilizzato. Le stanze erano adorne di creazioni manuali e artistiche che avrebbero dovuto testimoniare gli interventi svolti sugli utenti, resi capaci di tali lavori; tuttavia notavi che la loro realizzazione non era opera degli utenti stessi, ma dei loro operatori, più attenti al risultato finale del prodotto che non al processo di realizzazione. La mensa era piena di fotografie di ragazzi seminudi che facevano fisioterapia mostrando le importanti attività del centro stesso; ma sembrava che nessuno si fosse mai chiesto se agli utenti facesse piacere essere mostrati in quelle condizioni, a volte e per alcuni, sicuramente umilianti. Gli utenti, di differenti tipi e gradi di disabilità, venivano accompagnati al bagno tutti insieme, senza distinzione tra maschi e femmine e con le porte spalancate, il che mi appariva per coloro che avevano disturbi meno gravi una situazione declassificante. I diversi operatori indossavano camici che davano una sensazione di ordine e di pulizia, ma anche di ospedale e di malato. Il personale era sempre allegro e sorridente, con gli altri suoi “simili” – me compresa – ma spesso non sapeva dimostrare gentilezza, affetto e sensibilità nei confronti degli utenti che, osservavo, venivano spesso trattati come persone “inferiori”.
Già dalla prima giornata raccontata nel mio diario emerge la sensazione di incredulità e frustrazione provata nel vedere gli utenti completamente inattivi: «Quando torniamo in aula, dopo il pranzo, i ragazzi non fanno più nulla. Gli educatori parlano per lo più fra di loro e a volte coinvolgono qualche utente nei discorsi. Due di loro si addormentano sul tavolo. Questo fino alle 15:30, l’ora di andar via».
Le violenze fisiche e verbali
Ma non era solo l’inefficienza a turbarmi. C’era dell’altro. Ed erano gli atti di violenza, fisica o verbale, che venivano rivolti quotidianamente ai diversi utenti. Sempre il primo giorno scrivevo: «C’è una ragazza che risponde sempre in modo sgarbato e parla male di tutti. Qualche giorno fa ha esagerato, mi dicono, per cui ora sta chiusa in una stanza adiacente a quella dove stiamo noi. Le due stanze comunicano con una finestrella da dove l’educatrice la può guardare, ma da dove lei non può né vedere né sentire gli altri e dove trascorre il tempo facendo… niente! Questo va avanti da una settimana…».
E il mio diario risulta pieno di annotazioni del genere. Riporto alcuni tra gli episodi più significativi.
«Quando andiamo a pranzo la ragazza fa i capricci: non vuole mangiare. Ha una ferita ad un braccio dovuta ad un’allergia. Le prude e si sente infastidita. L’educatrice si arrabbia molto e arriva a tirarle uno schiaffone in faccia».
Una ragazza aveva difficoltà a ingoiare i cibi rossi. Doveva imparare a mangiarli, dicevano gli operatori. Le era stata portata un’arancia, rossa. Nel mio ruolo di tirocinante esortavo la ragazza a mettere in bocca gli spicchi, masticare, ingoiare. Ma, arrivato l’assistente «inizia a metterle le mani in faccia, a stringerle il viso, a dirle in continuazione “mastica”, “ingoia”, ad aprirle con forza la bocca, a spingerle dentro il frutto». La ragazza era visibilmente innervosita ed emetteva dei piagnucolii di supplica, mentre tutto questo a me appariva come una piccola e ingiustificata tortura.
E nel diario riportavo ancora: «A mensa il ragazzo, di punto in bianco, scappa via dalla sala. Lo rincorro e per fortuna lo ritrovo subito. L’educatrice si arrabbia molto con lui. Mi spiega che un tempo il ragazzo scappava in continuazione ma che erano riusciti a non farglielo fare più. Gli tira degli schiaffoni sul sedere e lo fa stare in piedi con la faccia rivolta verso il muro per un buon quarto d’ora»;
«Tornati in classe, il fisioterapista decide di anticipare la sua ora di terapia. “Prende” l’utente (sulla sedia a rotelle) senza rivolgergli una parola. Forse avrebbe potuto spiegarglielo, dato che il ragazzo ha tutte le competenze per capirlo, invece di portarlo via come se fosse un oggetto»;
«L’educatrice inizia a darle spintoni e a sbatterle in modo violento e rumoroso i gomiti sul tavolo. La ragazza per opposizione si butta per terra. L’educatrice chiede aiuto all’assistente e insieme cercano di sollevarla ricorrendo a schiaffi, tirate di capelli, strette alla gola. La ragazza piange, si porta le mani alla gola come se le avessero fatto male, trema. L’educatrice dice che finge e la prende in giro. Che la ragazza stesse facendo finta o meno, rimango pietrificata dalla scena osservata»;
«La ragazza mette a posto in modo errato giubbotto e cappello. Ha tutte le capacità per eseguire l’azione nel modo corretto e dunque il suo sbaglio indica una svogliatezza, una mancanza di attenzione. L’educatrice butta per terra i suoi vestiti gridandole di rimetterli immediatamente a posto nel modo corretto»;
«Il ragazzo continua a ripetere una frase ridacchiando fra sé e sé; si tratta chiaramente di un dispetto. L’educatrice decide, per punizione, di metterlo seduto con la faccia rivolta verso il muro per un po’. Non appena lui si gira, per ulteriore castigo, fa mangiare all’assistente una mela del ragazzo, davanti ai suoi occhi e con tanto di commenti: “com’è buona… ”».
“L’Impicciona”
Un particolare accanimento era poi riservato a una ragazza che chiamavano “l’Impicciona”. Aveva un carattere molto difficile, era sgarbata, rispondeva male, si intrometteva in maniera invadente nei discorsi altrui, non aveva voglia di fare quasi nulla, non portava a termine i vari lavori iniziati. Anche fisicamente aveva un aspetto poco gradevole. Era spastica, brutta in viso. Parlava attraverso suoni gutturali che potevano risultare fastidiosi. Mandava un cattivo odore di saliva. Tutte queste caratteristiche facevano sì che la ragazza venisse spesso allontanata e trattata male dal personale del centro, determinando un circolo vizioso di ripicche tra gli operatori e la ragazza stessa. «Oggi assisto ad una delle scene che più mi lasciano amareggiata. L’assistente al piano dà un calcio completamente gratuito – anche se non con forza – alla ragazza, poi guarda gli altri operatori che gli stanno intorno e se la ride di gusto. La ragazza si stringe nelle spalle e rimane così per un po’ ma… è abituata a questo genere di gesti».
«L’educatrice mi racconta di come la ragazza sia attenta alla propria sessualità. Ad esempio in estate si abbassa la bretellina della maglietta o del reggiseno, si guarda compiaciuta il seno, o si alza la minigonna. Tuttavia non riesco a capire il tono di disprezzo cha accompagna tali affermazioni dell’educatrice». E qualche giorno dopo: «La ragazza tocca il pene all’assistente. L’educatrice inizia ad urlare, ad insultarla, a dirle che è una schifosa, una sporcacciona, una “zoccolona” e che non si rende conto che fisicamente può suscitare solo ribrezzo. Mi chiedo a quale teoria pedagogica si faccia riferimento decidendo di reprimere i desideri sessuali con tali insulti, colpevolizzazioni e umiliazioni».
«La ragazza spesso parla da sola. Gli operatori dicono che questo è un comportamento che è necessario correggere. Operare però attraverso pesanti rimproveri e umiliazioni (per il fatto che solo i cretini, i matti, gli scemi parlino da soli), con toni sgarbati e infastiditi, non mi sembra il modo più adeguato».
Il grande affetto e le positività
Tuttavia una situazione di grande e sincero affetto emergeva con frequenza dall’azione degli stessi operatori, a volte camuffando pericolosamente la gravità degli avvenimenti che si susseguivano. Strideva la coesistenza di tale affetto materno e la violenza contagiosa con la quale ci si rivolgeva agli utenti. Sembrava che fosse estremamente diffusa una situazione di burnout (sindrome che colpisce le figure professionali che ricoprono ruoli di carattere sociale – insegnanti, psicologi, educatori… – determinando un calo fisico e psicologico dovuto a situazioni di stress, eccessivo coinvolgimento emotivo, frustrazione) contro la quale non si prendeva alcuna misura.
Vi era poi una forte condivisione, da parte di tali operatori, di illuminati discorsi in linea teorica, ma il comportamento pratico era contrastante.
Altre figure professionali che avevo modo di incontrare nel centro, invece, si dimostravano molto umane e attive e contraddistinte da una grande sensibilità. Si comportavano con gentilezza, con toni garbati, dimostrandomi che era possibile un altro modo di agire, che i rinforzi positivi, le sollecitazioni e gli apprezzamenti potevano e dovevano funzionare; che i tempi erano forse più lenti, ma i risultati migliori; che, sebbene a volte i rimproveri e i toni duri fossero necessari, un semplice “bravo” poteva dare tanto agli utenti quanto agli operatori grandi soddisfazioni, generare sorrisi e indurre miglioramenti nei comportamenti; che potevo giungere alla conclusione che non serviva a nulla che un utente sapesse mangiare, camminare, stare seduto in maniera composta, poter fare a meno del pannolino…, se per arrivarvi avrebbe dovuto subire sofferenze e umiliazioni; che era possibile la creazione di un clima allegro, propositivo, stimolante per l’utente, in cui l’obiettivo principale fosse il benessere dell’utente stesso e solo quello secondario – utile per arrivare al primo – lo sviluppo delle potenzialità e capacità personali.
Dopo quattro anni…
È passato del tempo. Nella mia condizione di tirocinante e universitaria, spinta dall’indifferenza delle persone che mi stavano intorno (professori universitari, altri tirocinanti, responsabile e operatori del centro), mi chiedevo come fosse possibile che solo io vedessi la grave problematicità della situazione che mi stava intorno. Fu scritto nella relazione che la struttura redasse sulla mia esperienza di tirocinio che mi aveva contraddistinto «una sensibilità che la porta a spendersi in maniera eccessiva nell’individuare i bisogni dell’utente secondo un suo punto di vista, non tenendo presente quelle che sono le necessità del contesto».
Profondamente scossa dalla situazione vissuta e con un grande desiderio di porre la parola “fine” e di allontanarmi da essa, non sono riuscita ad oppormi con forza a ciò che vedevo e non condividevo, rimanendo silenziosa spettatrice di avvenimenti che consideravo ingiusti.
Spero che nel frattempo, dopo quattro anni, le cose siano potute cambiare. Oggi, non mi rimane che esortare le persone che si trovino dinanzi a situazioni del genere – responsabili, operatori che a titolo diverso lavorano nel campo, famiglie degli utenti, spesso inconsapevoli di quanto accada ai propri cari – a stare più attenti alle pratiche che vengono messe in atto, agli interventi “educativi” e “riabilitativi” portati avanti, che sicuramente le persone esperte conosceranno e sapranno valutare molto meglio di me, con pochissima esperienza nel settore della disabilità.
Tuttavia credo che non vi sia bisogno di specialisti per rendersi conto, in relazione a quanto testimoniato dalla mia esperienza, che spesso non mi sia trovata dinanzi alle più innovative pratiche della Pedagogia speciale, ma a situazioni più simili a – sicuramente involontari e inconsci, eppure terribilmente gravi – atti di inefficienza, insensibilità e violenza.
Paola Mazza
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 37, settembre 2010)
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