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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
La guerra che distrugge
la serenità della famiglia
mentre la fuga sembra
essere l’unica soluzione
di Angela Galloro
Un racconto di ordinaria violenza negli anni della Grande guerra.
Tormentate vicende rivissute attraverso il ricordo, per Città del sole
Una tormentata vicenda familiare, vera nel senso proprio del termine: vera perché vissuta e vera perché così la si percepisce durante la lettura. È la storia narrata da Sara Favarò nel libro Le porte del sole (Città del sole, pp. 120, € 10,00). Si tratta di un romanzo strutturato sul ricordo del protagonista, durante un viaggio in treno che lo porterà lontano, alla ricerca di sicurezze, come molti dei nostri connazionali. Ma il suo viaggio è diverso da quello degli altri, così come lo sono le sue motivazioni, la sua storia. Tutti i momenti del racconto, infatti, non sono come sembrano, rivelano un risvolto della medaglia a volte piacevole e luminoso, altre torbido e malinconico.
La memoria rincorre il paese natale, mentre il convoglio sfreccia lontano, come se, per l’incertezza provocata dal lasciare il noto per l’ignoto, l’uomo si volesse aggrappare ad una casa ormai sempre più distante. Assistiamo, così, al tenero quadretto di una famiglia in viaggio verso la speranza (quello di Umberto, il protagonista, della moglie Fausta e della figlioletta Mariella), intervallato da profondi momenti di angoscia, da flashback e immagini che rievocano dolore, violenza, oscurità. L’autrice li alterna magistralmente nel romanzo, presentandoceli come l’uno il frutto dell’altro e ricoprendo tutta la storia di quella patina di speranza e di luce presente già nel titolo.
Figlio di madre ignota
Il ricordo di Umberto si apre con una tragica sentenza, un marchio di nascita, per così dire, che gli infonderà un macabro senso di solitudine: figlio di madre ignota, per evitare che la donna, vedova del suo precedente marito, perda il posto di lavoro e i sussidi statali. La storia si svolge in un paesino vicino Terni, dove Maria, una donna forte e provata dal lutto, si unisce a Domenico, a sua volta provato dalla guerra. Dalla loro relazione nascerà una numerosa prole, costretta a subire in ogni momento i soprusi di un padre padrone, che non lascerà nemmeno uno spiraglio di spensieratezza all’infanzia dei bambini e un attimo di tregua alla vita della moglie.
Domenico, infatti, uomo rigoroso e tutto d’un pezzo, non fa altro che sfogare tutte le sue frustrazioni e i suoi dolori sulla pelle e sul corpo di moglie e figli, attraverso lividi, cinghiate, frustate e pugni. In questo racconto, che Umberto rievoca nella mente, tra una sigaretta e l’altra, con lo sguardo perso fuori dal finestrino nel corridoio del treno, le sue sventure di bambino e il dolore infuocato delle ferite si sovrappongono alle vicende del padre, alla sua storia che aveva incrociato la storia dell’umanità. Attraverso questo alternarsi di piani narrativi, seguiamo il tormentoso percorso psicologico di un uomo alla ricerca di risposte.
Domenico è un ragazzino ribelle come pochi, lato del carattere paradossalmente incentivato dal rigore morale di sua madre, buona educatrice, che pensa di mandarlo in seminario, con scarsi risultati. A un certo punto, Domenico viene spedito in trincea, sulle Dolomiti, e lì conosce le atrocità della guerra. La fame, le pessime condizioni, la pressione psicologica, la violenza, le punizioni, le decimazioni e l’alcool temprano negativamente la sua persona, ma non quanto la fossa comune, alla quale viene condannato per una ferita considerata terminale. Il fetore e i lamenti infernali di quella fossa, in seguito ad un bombardamento, sarebbero rimasti per sempre impressi nella sua mente. Se riesce a salvarsi è solo grazie al più puro dei sentimenti, l’amicizia, che non basterà, però, a cancellare il dolore di un soldato.
Ogni attimo di quella guerra sembra, infatti, riecheggiare nel focolare domestico di Domenico, oramai diventato Mimmo, che racconta, con sfoggio della sua cultura da seminarista, storie di guerra ai figli che ascoltano interessati, ignari di dover combattere una loro guerra contro quella del padre, pagando dunque le spese, materiali e morali, di una vita che non hanno conosciuto, di una battaglia che non hanno voluto.
La tassa da pagare per quell’avventura è l’alcool, di cui ogni sera Mimmo si riempie in una bettola vicino casa. Anche il bere è una specie di marchio impresso dai giorni in trincea e si impadronisce di lui trasformandolo in un mostro, nascosto dietro la maschera del buon costume e delle buone maniere, dietro quella rigida e spartana educazione che ogni genitore vuole impartire ai propri figli. Spesso sotto gli occhi sconvolti e impotenti di tutti.
Sarà la forte personalità di Maria, la quale completa il suo percorso per diventare una determinata antagonista del marito, in seguito all’ennesimo sopruso nei confronti dei ragazzi, a ribaltare l’intera situazione. La sua innata femminilità, così come quella della madre di Mimmo, guariranno le ferite familiari, ricomponendo un’apparente felicità. Le donne diventano pertanto, improvvisamente, protagoniste attive della storia, capaci di ristabilire l’ordine e la giustizia e di redimere Mimmo, che, fino alla morte, cercherà il modo di riscattarsi dalla sua colpa, amando la moglie in fin di vita, come mai aveva fatto, e ricoprendo d’affetto i nipoti.
Una fuga forzata
Nell’animo di Umberto, durante il viaggio verso la lontana Australia, scorrono, dunque, come un fiume in piena, tutte le contraddizioni, le violenze, le colpe e le ragioni che avevano caratterizzato la vita del padre. Ma, da come viene portata avanti la storia, sembra si tratti dei contrasti e delle incongruenze della vita di ogni figlio, di ogni padre, insomma, di ogni uomo. Il racconto è pervaso da colori scuri, da belle e articolate metafore, ma soprattutto da una simbolica sete: sete di Mimmo e di Umberto, sete di conoscere, di sapere, sete di giustizia, sete per combattere l’arsura della trincea e il deserto del sentimento di padre (come è stato messo in luce da Mario Bertin durante la presentazione del romanzo alla Fiera della piccola editoria, tenutasi a Roma nel mese di dicembre).
Il viaggio di Umberto, così, è una ricerca del senso, del perché della violenza, del dolore, della guerra, della morte degli innocenti. È come se esistesse davvero un peccato originale che gli uomini devono scontare, in questo caso una colpa ancestrale, non cristiana (Mimmo usando violenza rinnega, infatti, ciò che gli era stato inculcato in seminario), quasi edipica, una condizione in cui i figli sono obbligati a pagare le colpe dei padri senza capirne il senso. Umberto sa che il comportamento del padre era frutto di ciò che gli era successo, ma ha ben presente anche il dolore delle frustate. Sa che a modo suo il padre lo aveva amato, ma non ricorda che gliel’avesse mai detto o dimostrato con gesti, e tutto questo, lungi dall’educarlo a ciò che è giusto e ciò che non lo è, ha annebbiato nelle sue idee i confini tra bianco e nero, quelli tra il torto e la ragione, quelli tra la vittima e il carnefice.
La soluzione di Umberto a tutto quel dolore sembra essere la fuga, anch’essa, però, tormentata dall’ennesimo senso di colpa, pesante come un macigno: quello di aver lasciato Mimmo da solo, in balìa dei suoi ricordi consapevoli di ira e di violenza.
Le porte del sole, infine, si schiudono ai protagonisti di un racconto in cui ognuno è vittima, prima di se stesso, poi di ciò che la storia fa di sé. Ed è quello che denuncia l’autrice nella magnifica poesia che conclude il libro, quello che sembra dire nel recitare personalmente la poesia durante la presentazione. Il romanzo, così, risulta da una parte perfettamente ambientato in un momento particolare della nostra storia, dall’altra simultaneamente atemporale, perché dispiega i dubbi di tutti gli uomini di ogni epoca.
«Umberto aveva sempre invidiato coloro che dicono di saper distinguere il bianco dal nero. I buoni dai cattivi. Il colpevole dall’innocente. La vittima dal carnefice. Il sole dalla luna. La luce dalle tenebre. L’alba dal tramonto. Lui no! Non c’era riuscito mai».
Angela Galloro
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 36, agosto 2010)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi