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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Kindu. Soldati morti
per la pace, il degno
onore alle vittime
dimenticate in patria
di Sapienza Cama
Per Herald Editore torna alla memoria
l’atroce eccidio degli aviatori italiani
nella missione di pace in Congo
Negli ultimi decenni sempre più spesso abbiamo udito o letto delle morti in missione di pace di soldati italiani. La lista dei caduti non ha fatto altro che riempirsi di nomi e cognomi di uomini, molti ancora dei ragazzi, morti per una causa superiore alla paura della morte. La pace.
Elena Mollica con il libro Kindu una missione senza ritorno, (Herald Editore, pp. 200, € 18,00) vuole rendere onore alla memoria di tredici, tra ufficiali e sottoufficiali, italiani appartenenti alla 46ª Aerobrigata, uccisi a Kindu, in Congo, in occasione di una delle prime missioni di pace alla quale prende parte l’Italia. La scrittrice vuole riportare alla luce un frammento della memoria storica del nostro paese caduta nell’oblio generale.
L’11 novembre del 1961, la missione di pace dell’Onu in Congo, viene segnata da un’immane tragedia e di essa restano: qualche strada e qualche monumento intitolati ai nostri connazionali che lì persero la vita, un francobollo di commemorazione, nel 1986, in occasione dell’anno mondiale della pace, e il silenzio dei media e delle autorità, che non hanno provveduto per anni ad alcun risarcimento (si dovrà attendere il 1994 per conferire, se non altro, la medaglia al valore militare). Pertanto, l’accento che viene posto dalla scrittrice è non tanto sull’uccisione dei militari, quanto piuttosto, sul dramma delle loro famiglie.
Nel 2006 scattano, grazie ad un provvedimento normativo, i risarcimenti per le famiglie dei morti a Nassiriya, provvedimento i cui effetti saranno destinati ai congiunti dei caduti all’estero, ma dal 2003 in poi; in tal modo, si esclude indirettamente qualsiasi forma di rifusione alle famiglie dei militari caduti in Congo nel 1961 e, al dolore dei familiari, si aggiunge la collera. Sabrina Marcacci, figlia di Martano, uno dei tredici aviatori trucidati, si rivolge alle principali autorità attraverso lettere molto semplici e ben calibrate, ma che esprimono il dolore, la rabbia e la mortificazione per la discrepanza di trattamento tra i caduti di Nassiriya e i precedenti.
Uno dei politici che riceve la lettera della Marcacci è Marco Boato, parlamentare dei Verdi. Grazie al suo intervento, concretizzatosi in una proposta di legge, e grazie ad un “piccolo miracolo parlamentare” (il progetto normativo viene approvato all’unanimità a poche settimane dallo scioglimento del Parlamento), finalmente, a distanza di quarantacinque anni lo stato italiano rende giustizia e onore alla memoria degli aviatori morti in nome della pace, riconoscendo alle famiglie dei caduti il giusto risarcimento. Con legge n. 91 del 20 febbraio 2006 ("Norme in favore dei familiari superstiti degli aviatori italiani vittime dell’eccidio avvenuto a Kindu l’11 novembre 1961") vengono accantonati oltre quattro milioni di euro.
Un po’ di storia
Il testo della Mollica espone, seppure brevemente, l’assetto politico e sociale in cui versa il paese nel periodo della missione di pace, descrivendo le condizioni civili e militari in Congo da quando Leopoldo II vi fece il suo ingresso. Il Regno del Congo sopporta la presenza degli europei da diversi secoli (a partire dal XV secolo), influenzato in alternanza sia dal Portogallo che dall'Olanda. Negli ultimi decenni dell'Ottocento, quando molti stati europei estendevano i propri interessi sui territori africani, anche il piccolo Belgio, guidato dal suo re Leopoldo II che si avvalse dell’aiuto di avventurieri e affaristi, volse la sua attenzione al Congo.
Il sovrano insieme ad uno dei suoi agenti, Henry Morton Stanley (ritratto, http://web.tiscali.it/arte_africana/storiaimmag24.htm), fece in modo di creare il suo “stato” personale e, grazie alla Conferenza di Berlino nel 1885, la parte del Congo occupata dai belgi fu proclamata “Stato Libero del Congo” con a capo il re belga.
Leopoldo II riduce in schiavitù una popolazione già stremata dalla povertà e dalle malattie: è quanto emerge dalla relazione redatta dalla commissione d’inchiesta formatasi a seguito delle dure invettive nei riguardi dell’amministrazione reale. Gli “orrori del Congo” vengono descritti con cura sottile e minuziosa anche da un grande scrittore inglese Joseph Conrad che nel 1902 attraverso Cuore di tenebra, romanzo breve, fa emergere una realtà definita assurda. Conrad nella sua opera si cela dietro Marlow, protagonista e voce narrante, perché nel 1890 fu proprio l’autore stesso a compiere un viaggio a bordo di un vaporetto lungo il fiume Congo. L’autore inglese raccontando le barbarie e le atrocità viste durante la sua visita nel paese africano, critica aspramente il colonialismo e mette in risalto come l’Occidente abbia mascherato sfruttamento e prevaricazione con il portare civiltà e cultura. Quindi, secondo Conrad, l’uomo pur essendo civilizzato e moralizzato, quando si trova in una situazione di piena libertà dove non esistono regole o norme giuridiche si trasforma in mostro. Da questo sicuramente ha tratto ispirazione Francis Ford Coppola per il film Apocalypse Now ambientato nel Vietnam ai tempi della guerra combattuta tra il 1964 e il 1975 e che vide come protagonisti gli Stati Uniti e il Vietnam diviso in Nord (comunista) e Sud (filo-americano) come la Corea.
L'obiettivo degli americani, fu dunque, quello di insinuarsi nella politica interna del Vietnam. In occasione di questa guerra dettata dall’intromissione di una cultura, quella occidentale, in un'altra, quella orientale si nota la volontà di autorità che trascina persone più civilizzate a dominare persone più deboli e senza saperne il motivo.
Leopoldo II si vede, allora, costretto a cedere il territorio congolese allo stato belga, ma questo passaggio di consegne non sortisce alcun effetto positivo sulla qualità della vita del popolo di colore: i bianchi continuano a comandare, mentre gli autoctoni non possono accedere alle cariche politiche, non possono frequentare gli stessi locali frequentati dai bianchi, e sono ghettizzati in quartieri diversi a seconda del colore della pelle. Intanto, lo sfruttamento delle ricchezze del Congo continua senza sosta insieme all’estrazione del caucciù e alla fornitura di avorio. I “cittadini”, così vengono chiamati i congolesi, che non procurano la quantità di caucciù loro assegnata subiscono rappresaglie disumane come la mutilazione della mano o del piede. Per reprimere le inevitabili ribellioni si ricorre a esecuzioni sommarie, a spedizioni punitive, a devastazioni di villaggi, alla cattura delle donne trattate come ostaggi.
Queste le condizioni della popolazione congolese per molti anni. Arriviamo al Secondo dopoguerra, quando diversi movimenti di liberazione prendono forma e il re belga, Baldovino, tenta di temperarne le pressioni elargendo riforme mai considerate fondamentali dai “padroni di casa”. Il Congo ha bisogno di riconquistare la sua identità e ci riesce il 30 giugno del 1960 quando viene proclamata la repubblica del Congo.
La popolazione locale è impreparata a gestire la libertà, non avendo mai preso parte alle carriere militari, parlamentari, governative e diplomatiche; il paese dunque, dal punto di vista delle istituzioni, è pressoché inesistente. Nel 1961 gli equilibri politici vigenti nel paese del centro Africa erano così disposti: Joseph Kasa Vabu, sostenuto dalle forze armate al comando del colonnello Joseph-Désiré Mobutu e favorevole al federalismo, diventa presidente, mentre Patrice Emery Lumumba, fautore di un governo centralizzato, diventa primo ministro con l’appoggio di una fazione dell’esercito guidata dal vice primo ministro Antoine Gizenga. A loro si contrappone Moise Ciombe, leader secessionista del Katanga, spalleggiato da mercenari bianchi per lo più di nazionalità belga.
Di fronte ad una tale conflittualità il governo congolese formula una ufficiale richiesta di aiuto all’Onu denunciando la precisa intenzione del governo belga di riprendersi il Congo in aperta violazione del trattato che prevede l’intervento del corpo militare straniero solo a seguito di una esplicita richiesta da parte della popolazione congolese. L’Onu risponde con l’Onuc (Operation des nations unies au Congo), prevedendo il ritiro delle truppe belghe dal territorio congolese e l’assistenza militare fino al raggiungimento di un’adeguata preparazione. Il 20 luglio giunge nel paese africano il primo contingente della forza di pace, ma il primo ministro teme che i caschi blu possano cooperare con i belgi, affinché questi ultimi si riapproprino del potere, e chiede aiuto agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica. Dagli americani il rifiuto è netto, mentre i sovietici concordano il loro appoggio a Lumumba mettendo nel contempo in cattiva luce la figura di Dag Hammarskjold, allora segretario dell’Onu, ritenendolo contrario all’indipendenza del Congo. Tre forze, dunque, che si dirigono ammagliandosi verso la stessa meta e cioè il controllo delle ricchezze; il caos dilaga quando il nazionalista Lumumba viene assassinato su istigazione di Ciombe appoggiato da Kasa Vubu e Mobutu (quest’ultimo, mediante un colpo di stato nel 1965, spodesta Kasa Vubu e instaura una dittatura destinata a durare 32 anni, dal 1965 al 1997). Divampata ormai la guerra civile, tutti i governi preparano i piani di evacuazione per i propri connazionali. Gli italiani presenti sono cinquemila e per loro vengono mandati due aeroplani C-119, chiamati i “vagoni volanti”, per il rimpatrio; terminata questa operazione, viene fatta esplicita richiesta al nostro paese di inviare contingenti destinati ad offrire protezione alla popolazione congolese. Mentre quattro nostri C-119 raggiungono il Congo, la situazione precipita: la libertà di stampa e di informazione vengono negate, i rapporti tra Lumumba e Kasa Vubu diventano sempre più tesi fino al punto che il presidente della repubblica destituisce, il 5 settembre del 1960, il primo ministro. Dopo qualche giorno, precisamente il 14 dello stesso mese, Joseph-Désiré Mobutu, capo di stato maggiore dell’esercito, figura pericolosa e ambigua, artefice fondamentale nell’ostilità tra Lumumba e Kasa Vubu, una volta esonerato dal suo incarico, pensa bene di intervenire con la forza attuando un colpo di stato.
Lo scenario è dominato dalle ambizioni personali dei vari contendenti in lotta, e il futuro del paese resta incerto e in preda a sanguinose convulsioni.
Il numero delle vittime cresce a dismisura e la missione di pace, che prevede il ricorso alle armi da parte dei caschi blu solo per autodifesa, attraverso l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, decide l’uso della forza anche per il mantenimento della legge, dell’ordine e delle diverse risoluzioni emanate per risolvere le ostilità. In questo clima di terrore Moise Ciombe perdura nel suo progetto secessionistico del Katanga.
La sentenza finale
Nella seconda parte del libro l’autrice presenta i tredici militari, dando un volto e un nome ad ognuno di quei valorosi uomini che avevano quasi tutti intrapreso la carriera militare nonostante la contrarietà delle rispettive famiglie, allarmate dai rischi che essa implicava.
Qualche giorno prima dell’eccidio si era sparsa la voce tra i congolesi che paracadutisti mercenari di Ciombe erano stati lanciati nella zona. La popolazione, gettata nel panico dall’apparizione degli aerei, si dirige prima verso l’aeroporto e, subito dopo, verso una villetta dove i piloti italiani disarmati si trovano per il pranzo.
In quella abitazione, a partire dalle prime ore pomeridiane dell’11 novembre del 1961, inizia il martirio dei nostri uomini, bersagli facili inspiegabilmente disarmati e del tutto impreparati a fronteggiare la feroce aggressione. I nostri militari sono ingiustamente accusati di aiutare i secessionisti fornendo loro le armi e di essere atterrati solo perché tratti in inganno dai responsabili della torre di controllo.
Il primo giornalista italiano a recarsi sul posto, Alberto Ronchey, può appurare, qualche giorno dopo, che la torre di controllo non funziona oramai da mesi.
Nel febbraio del 1962 si scoprono i resti dei corpi dei tredici sfortunati aviatori in due fosse lunghe e strette. I familiari degli aviatori avevano appreso la notizia dell’eccidio via radio.
Dall’11 di novembre 1961, giorno del massacro, solo il 17 i giornali ne danno notizia.
Tanti sono gli elementi che hanno fatto scaturire quell’atroce vicenda. L’odio dei congolesi per l’uomo bianco e i gravi disordini all’interno del paese africano, l’impreparazione dei nostri uomini a fronteggiare problematiche complesse, l’assenza o quasi dei media e assenza o quasi di chiarezza sull’organizzazione della missione (a pag. 52 della lettera inviata alla sua famiglia, Onorio De Luca manifesta le sue perplessità sul come l’Onu stesse gestendo la presenza dei militari stranieri in Congo).
L’eccidio
La studiosa conclude la descrizione dei gravi fatti riguardanti l’eccidio, con l’indicazione dei colpevoli nelle persone del tenente Michel Orera, del colonnello Mpakasa, del maggiore Malungi e dei militari Vincent Hakizimana e Ferdinand Osomba e con la precisazione che in seguito non è mai stato celebrato un processo.
Restano domande prive di risposta ancora a distanza di anni. La furia omicida dei congolesi che non si placa quando sono consapevoli di avere di fronte italiani e non belgi, l’inerzia dei malesi anch’essi presenti nella villetta che non difendono i nostri militari, la possibilità che i nostri C-119 potessero trasportare armi e non medicinali (circostanza quest’ultima emersa nel 1990 grazie alla testimonianza di un mercenario), l’assenza di scorta ai nostri militari quando, come si evince dalla lettera sempre di Onorio De Luca, non si potevano lasciare le abitazioni senza una protezione armata adeguata.
Un altro autore, Ippolito Edmondo Ferrario nel libro Mercenari. Gli Italiani in Congo 1960, (Mursia Editore) narra con crudezza e duro realismo, passo dopo passo, tutto quello che accadde in quel giorno letale. Nel libro di Ferrario, la vicenda di Kindu, rappresenta il pretesto per svelare e far emergere la storia di altri italiani caduti in Congo, che (con un malinteso senso patriottico) decisero di raggiungere quella terra inospitale per "vendicare" i militari massacrati nel novembre del 1961. Lo scrittore milanese fa riaffiorare un’altra pagina triste della storia d’Italia, quella dei mercenari, per lo più ex militari della Folgore, del battaglione San Marco e dei Lagunari che decidono di arruolarsi nell’Anc (Armata nazionale congolese) di Mobutu, per combattere contro i ribelli comunisti. Il veneziano Italo Zambon fu il primo italiano a partire per Leopoldville, guidato insieme ai suoi compagni dal famigerato colonnello Bob Denard e dal maggiore Jean Schramme; particolarità assoluta: nessuno di loro sfoggia il tricolore. Ma il loro progetto fallì.
Dalla Seconda guerra mondiale molti sono stati i militari italiani caduti nelle varie missioni di pace alle quali il nostro paese, per spirito di cooperazione e per il mantenimento di equilibri diplomatici, ha partecipato. I militari che spontaneamente decidono di raggiungere terre difficili le cui popolazioni sono in contrasto e, quindi, straziate da stenti e soprusi, partono per le missioni di pace che altro non sono che guerra vera e propria.
Lo studio di Elena Mollica rientra nel progetto che la Herald Editore sta realizzando e che è rappresentato dalla collana “Per non dimenticare” che la casa editrice sostiene con lo scopo di riportare alla memoria eventi storici lungamente taciuti o vicende private di persone che in qualche modo hanno sfiorato la storia del nostro paese. Si tratta di verità importanti che arricchiscono le conoscenze di chi si è sempre interessato ai fatti e agli avvenimenti che circostanziano la storia ufficiale del nostro paese, quella presente nei libri scolastici. Altra particolarità rilevante del trattato della Mollica è la realizzazione dello stesso grazie all’apporto di detenuti ed ex-detenuti inseriti in associazioni e cooperative: in tal modo si è data concretezza all’articolo 27 della Costituzione che tratta la rieducazione del condannato al fine di agevolare il suo reinserimento nella vita sociale attraverso la formazione, affinché, tornato in libertà, non commetta nuovi reati.
Sapienza Cama
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 36, agosto 2010)