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Home Page (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno IV, n. 36, agosto 2010

Zoom immagine La stampa fascista
e i meccanismi
per il consenso

di Guglielmo Colombero
La Biblink analizza i periodici italiani
che videro la luce fra il 1919 e il 1943


Patrocinato dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, il volume Periodici italiani 1919-1943 (Biblink, Biblioteca di Storia moderna e contemporanea, collana Novecento periodico 3, 2009, pp. 312, € 32,00), è un catalogo inclusivo di 900 titoli di periodici italiani che «documentano ad ampio raggio la vita italiana sotto il fascismo, gli aspetti più vari del regime, da quelli di carattere generale a quelli più specificatamente e settorialmente connotati, sia sul piano politico, sia su quello sociale, economico e culturale», come precisa lo storico Bruno Tobia (autore di Salve o popolo d’eroi… la monumentalità fascista nelle  fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, 2002 e di Scrivere contro. Ortodossi ed eretici nella stampa antifascista dell’esilio 1926-1934, Bulzoni, 1993) nell’introduzione. «Non è necessario ricordare la grande sensibilità giornalistica del fascismo, scomodare il “fiuto” di Mussolini grande comunicatore per convincersi della centralità immediatamente assegnata alla stampa da un fascismo non ancora mutato in regime, subito preoccupato però di assicurarsi il controllo dell’opinione pubblica», osserva Tobia. Si tratta di un sistema «ben oliato», che «funzionerà senza intoppi per tutta la durata della dittatura. Sarà persino un po’ sornionamente consentita, in un gioco delle parti reciprocamente accettato, la stentata sopravvivenza di una voce non perfettamente allineata, quale Il Lavoro di Genova; oppure qua e là saranno tollerati atteggiamenti “frondisti”, purché circoscritti entro limiti ben precisi, mentre le indicazioni politiche dettate dal Ministero (le celebri “veline”) saranno una guida sicura per l’insieme dei quotidiani e dei periodici; direttive forse a volte di difficile interpretazione, in qualche caso contraddittorie, ma tutto sommato efficaci nell’uniformare contenuti e toni del lavoro giornalistico». I materiali provengono da un nucleo iniziale, costituito dalla collezione che Giancarlo Pennati (grande mutilato di guerra e vicedirettore della Scuola di Mistica fascista di Milano “Sandro Italico Mussolini”) aveva messo a disposizione della Mostra della Rivoluzione fascista alla Galleria nazionale d’arte moderna a Valle Giulia a Roma nel 1942, consistente in 359 testate in tutto, e si sono via via arricchiti, grazie al paziente lavoro di recupero della Biblioteca di Storia moderna e contemporanea, fino a sfiorare il migliaio di testate. I curatori, i bibliotecari Paola Gioia e Francesco Gandolfi, si sono avvalsi della collaborazione di Gisella Bochicchio (che ha recentemente curato assieme a Rosanna De Longis, sempre per conto della Biblink, La stampa periodica femminile in Italia repertorio 1861-2009) per la bibliografia tematica.

 

Una ricca iconografia che svela i mille volti del Fascismo mediatico

Il volume è corredato da una suggestiva antologia visiva: a pagina 37 troviamo la copertina di Bianco e Nero, Almanacco del Guerin meschino per il 1936, anno della guerra d’Etiopia. Non a caso sono raffigurati due personaggi in marcia: il Guerin in divisa da esploratore e, dietro di lui, una sinuosa negretta seminuda (gambe lunghe, gonnellino, labbroni a ventosa) che lo ripara con l’ombrello, per la serie sì buana. Tratto raffinato ed elegante, da fumetto colto, e un pizzico di pruriginoso colonialismo sessuale nell’esibizione dei seni nudi e puntuti della schiava di colore. Altra immagine di pregio assoluto a pagina 40: una réclame dei profumi Bertelli, tratta dall’Almanacco Italiano del 1920 (edito da Bemporad a Firenze). Un vero gioiello d’impronta pittorica, che abbina suggestioni orientali alla mitologia greca: una geisha fasciata da un kimono cangiante regge due statuette, e ai suoi piedi giace la testa mozzata della Medusa, con i serpenti della sua chioma che ancora svettano verso l’alto. A pagina 85, in una copertina del 1933 di Casa e Lavoro, due silhouette femminili composte di triangoli neri e grigi, di asettica purezza geometrica, suggeriscono l’immagine della signora altoborghese snella, elegante e sofisticata. Una virulenta simbologia di regime traspare dal frontespizio di Gioventù fascista del 1932: una locomotiva lucida e nera, lanciata in corsa, vibrante di dinamismo metallico alla Boccioni e inconfondibilmente futurista, rappresenta il fascismo proiettato appunto verso il futuro, con il fascio littorio al centro del veicolo e il motto “Credere Obbedire Combattere” firmato da Mussolini sulla sinistra. A pagina 123-124 il mensile L’Italia che lavora usa icone di innegabile vigore plastico e di forte efficacia comunicativa: attinge sia alla romanità antica (un profilo sdegnosamente guerriero di Minerva, con tanto di elmo decorato e boccoli che scendono sulle spalle) che all’attualità sociale (le tre figure simboliche del superamento della lotta di classe: il dirigente in smoking da una parte e l’operaio in tuta dall’altra, e in mezzo la camicia nera che funge da collante, ma anche da ammortizzatore e da spartiacque; le ciminiere stilizzate della fabbrica con accanto la mano che impugna il martello, quasi a voler demistificare l’emblema del nemico comunista, appropriandosene; la mano che stringe il calamo davanti al libro aperto per simboleggiare il lavoro intellettuale e il manovale nudo accucciato davanti al volto dell’Italia incoronata dal littorio a rappresentare la ricostruzione del paese). Un austero proletario dai lineamenti marcati avanza con un ibrido fra vanga e fucile poggiato sulla spalla (è contadino ma anche combattente) nella copertina de La Stirpe, rivista delle Corporazioni fasciste, del 1937 (e siamo già nella fase celebrativa dell’Impero coloniale appena conquistato). Infine, qualche esempio di satira politica: inquietante una vignetta da Il travaso delle idee, del 1925, con Mussolini riflesso in tre specchi (avendo riunito nella propria persona, oltre alla presidenza del Consiglio, anche i ministeri di Esteri, Guerra e Marina) che si scopre d’accordo con se stesso e quindi scioglie la seduta del gabinetto ministeriale.

 

I periodici educativi per le donne nell’era fascista

Scorrendo con attenzione questo catalogo, si trova di tutto e di più. Proviamo a procedere per filoni tematici, partendo dalle riviste cosiddette femminili. Certo, perché nel Ventennio, essendo la donna considerata un essere inferiore, occorreva creare un ghetto culturale in cui confinarla: periodici esclusivamente riservati a loro, per educarle alla sottomissione, alla mansuetudine e, soprattutto, alla sudditanza nei confronti del supermaschio italico, che, come scriveva Gadda in Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, si sublimava nel priapismo guerrafondaio del «Maledicto Merdonio dictatore impestatissimo», feticcio spermatico e fallocrate che ingravidava le femmine di futura carne da cannone. Per cui, ecco Annabella, rivista di vita femminile (sopravvissuta ai bombardamenti alleati, esistente ancora…); Cordelia (si scomoda addirittura Shakespeare!), rivista quindicinale per le signorine; Fiamma viva, rivista della gioventù femminile, fondata dall’attivista cattolica Armida Barelli (poco simpatica a Mussolini perché propugnava la parità dei sessi sul posto di lavoro); La Donna, rivista mensile di arte e di moda (si usa la d maiuscola… un ossequio inaspettato); e infine Preziosa, rivista quindicinale di economia domestica per le signore (la dirige nel Ventennio Ada Boni, esperta di arte culinaria). Insomma, il Duce pontifica che l’unico percorso consentito alla donna sia quello che dalla cucina porta alla camera da letto: per cui i periodici femminili devono fungere da anestetico, da pillolone.

 

Squadrismo verbale, furori antisemiti e propaganda imperiale

I periodici per così dire “militanti” del regime contengono uno slancio aggressivo già nel loro nome: L’Ardito, diretto da Piero Bolzon (uno dei fondatori dei Fasci di combattimento, che però, dopo l’8 settembre, rifiuterà di aderire alla Rsi); L’Assalto, settimanale del Fascio bolognese (ne fu direttore Giorgio Pini, che in seguito, caporedattore dal 1936 al 1943 del Popolo d’Italia, ne triplicò le vendite); Il Balilla, supplemento del Popolo d’Italia; La Brigata, rivista universitaria; Il Carroccio (il primo embrione del leghismo?) rivista di cultura, propaganda e difesa italiana in America; L’Elmetto, giornale delle armate italiane nei Balcani (dove le camice nere davano una mano agli ustascia, i fascisti cattolici croati di Ante Pavelic, a riempire interi vassoi con gli occhi strappati ai prigionieri ebrei, serbi e sloveni… quasi un milione di vittime in tre anni e mezzo); La Fiaccola, settimanale per le forze armate d’Albania (nel Kosovo, annesso dagli italiani nel 1941, operavano le famigerate milizie dei Vulnetari, fascisti albanesi che sistematicamente si dedicavano allo sterminio della minoranza serba); Gioventù fascista, il quindicinale del Pnf per alcuni anni diretto dal “cretino obbediente” Achille Starace; Gioventù in armi, quindicinale della gioventù italiana del littorio, il cui direttore Eros Belloni si affermerà nel Dopoguerra come raffinato fumettista; Libro e moschetto, settimanale degli universitari e delle università (anche qui compare come direttore Achille Starace); Il selvaggio, “battagliero fascista”, a cui, fra gli altri, collaborarono Malaparte e Soffici, e che ebbe come direttore Mino Maccari; La Svastica, settimanale di politica, d’arte, di scienza, stampato in Germania ma tradotto e diffuso anche in Italia per compiacere il Führer. Gli echi più sinistri nei nomi delle testate provengono da quelle di impronta antisemita: La Difesa della razza, quindicinale di scienza, documentazione, polemica. Lo dirige Telesio Interlandi, bieca figura di ideologo dell’antisemitismo italiano (autore del pamphlet razzista Contra Judaeos, in cui testualmente si legge: «È allora che si apprende come l’ebraismo non intenda disarmare di fronte ai nuovi regimi nazionali sorti in Europa, come anzi voglia organizzarsi per una guerra senza quartiere, in ogni parte del mondo, sotto i colori della democrazia, per ingannare ancora quei pochi idioti che nella democrazia credono»), al quale era molto legato Giorgio Alimirante (nel Dopoguerra il segretario del Msi sconfessò questi suoi ingombranti trascorsi antisemiti, affermando di aver persino aiutato una famiglia di ebrei a sfuggire alla deportazione). Dopo la Liberazione, Interlandi fu processato ma assolto con una sentenza che definire scandalosa è un eufemismo. Razza e civiltà, invece, mensile del Consiglio Superiore e della Direzione generale per la demografia e la razza, era diretto da Antonio Le Pera, uno dei firmatari del Manifesto per la difesa della razza (il motto della rivista era: «Esistono grandi razze e piccole razze»). Quanto all’apologia dell’Impero, si pubblicano periodici roboanti come L’Augustea, rivista imperiale del nostro tempo: il direttore è un fascista della prima ora, Ottavio Dinale, ex sindacalista rivoluzionario, passato disinvoltamente dall’anarchismo di Sorel all’imperialismo di Mussolini.

Ultimi sussulti satirici e qualche spiraglio culturale del regime

Qualche briciola di dissenso è reperibile, faticosamente e con la lente d’ingrandimento di chi sa leggere i messaggi criptati fra le righe, nei periodici di satira politica ai quali il regime consente una magra e stentata sopravvivenza: L’Attaccabottoni, “scocciatore settimanale” e Il Becco giallo, “dinamico di opinione pubblica”, entrambi definitivamente soppressi nel 1926; Comica, “macedonia settimanale dell’umorismo di tutto il mondo”, diretta da Armando Curcio, che resiste fino al 1932; Il Gatto nero, settimanale politico d’opposizione… all’opposizione, soppresso dopo il delitto Matteotti; Guerin meschino, che, debitamente irreggimentato, tira avanti fino al 1943, ospitando squisitezze grafiche come le strisce dell’americano Soglow (La sentinella Jack) e le donnine della disegnatrice Barbara Mameli; Il Travaso delle idee, “organo ufficiale delle persone intelligenti”, anch’esso opportunamente addomesticato, e che risorge nella rifiorita libertà di stampa del Dopoguerra. Fra le riviste “colte” del Ventennio, spicca Civiltà fascista, mensile di cui per un anno fu direttore il futuro esponente liberale e ministro della Pubblica Istruzione degli anni ’70 Salvatore Valitutti. Anche Civiltà moderna, bimestrale della Vallecchi, annovera fra i direttori una figura illustre come quella del pedagogista Ernesto Codignola, laico e pragmatico. Curzio Malaparte, fine analista politico e intellettuale irrequieto e poco malleabile (allineato più per convenienza che per convinzione: come i francesi che durante la Restaurazione erano poco monarchici ma molto realisti), dirige il settimanale La Conquista dello Stato, in cui elabora le riflessioni da cui scaturirà, nel 1931, quel geniale trattato sull’eversione strisciante che è Technique du coup d’état, pubblicato in Francia e risultato indigesto ai regimi totalitari, in quanto svelava con impassibile rigore scientifico gli squallidi meccanismi sottilmente perversi che avevano gettato l’Italia nelle braccia del Duce (la Storia si ripete: leggete Malaparte e poi esaminate attentamente la cronologia italiana dal 1981, anno in cui vennero alla luce gli elenchi della loggia massonica P2, al 1994, anno delle elezioni politiche vinte per la prima volta da Silvio Berlusconi e dalla Lega Nord. Temo che scoprirete non poche, inquietanti analogie). Dotto e talvolta persino profetico il pensiero politico di Giuseppe Bottai, che affiora dalle colonne di Critica fascista, quindicinale da lui fondato (appena ventottenne) nel 1923: vi sostiene che il corporativismo è una svolta epocale, in quanto rappresenta il superamento dei Diritti dell’Uomo affermati dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese. Concludiamo con un’amara riflessione: se vivesse ancora, Bottai sicuramente constaterebbe un avverarsi delle sue teorie nel binomio precariato/mobbing che in Italia sta erodendo e svuotando dall’interno lo Statuto dei Lavoratori.

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 36, agosto 2010)

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