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Filosofia e religioni (a cura di Angela Potente) . Anno IV, n. 35, luglio 2010

Zoom immagine Umanità frantumata.
In una prospettiva
disincantata e nuova

di Anna Guglielmi
Dall’editore Lindau, un saggio filosofico
per definire il concetto di “umano” oggi


Humanitas.

Cosa c’è di umano nella realizzazione pratica ed effettiva di un concetto così basilare e immediato? È proprio da qui che bisognerebbe partire e cominciare a riflettere, da quel “basilare e immediato”, chiedendoci: è effettivamente così? Davvero tutti gli esseri (sedicenti) umani, coloro che dovrebbero dare forma e vita all’umanità, hanno un’idea definita di essa; sentono nel loro intimo, in modo addirittura “naturale”, il bisogno, il diritto e il dovere di appartenervi?

E se così, probabilmente, non è stato in passato – nel passato più remoto, nel mondo primitivo e ancora poco razionale e sensibile – oggi, almeno oggi, è così?

Osservazioni e pensieri che tornano alla mente, ancor più rafforzati e persistenti, dopo la lettura de L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo (Lindau, pp. 160, € 14,00) di Alain Finkielkraut – filosofo, giornalista e opinionista, nonché docente di Cultura generale e Storia delle idee presso il Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’École polytechnique.

E, ancora, con l’assurda diffusa presunzione di essere in grado di definire ciò che “umano non è”, ciò che è disumano, è contro natura – soltanto perché diverso, o perché così profondamente radicato in noi tanto da preferire lasciar stare, fingere che non ci sia, perché ingestibile, o perché magari procura paura – con questa presunzione, appunto, conosciamo e riconosciamo poi effettivamente ciò che “umano è”?

Ma, a parte questo, può avere senso, valore, può portare a una condizione migliorativa, a un processo costruttivo, discutere tra umani di umanità?

Ecco, allora, un saggio intenso e partecipato che analizza le numerose tragedie dell’uomo contro l’uomo che hanno irrimediabilmente segnato il secolo scorso e continuano indifferentemente a incidere sul tempo a venire e sulle nuove vite, ignare figlie e portatrici di dolore e morte.

 

Addio all’apparente innocenza

Il XX secolo, con la sua impregnante scia di devastazione e distruzione – materializzatasi nello sterminio di milioni di esseri umani sotto il Terzo Reich, come pure in Cambogia (sotto il regime dei Khmer Rossi), in Cina, nel Darfur, in Ruanda e in Unione Sovietica – ha lasciato al nuovo millennio un’eredità tragica. «Il nostro secolo è, per eccellenza, quello della sofferenza inutile e questa reclama non di essere motivata da una dialettica, ma di essere alleviata, quando è possibile, da un intervento immediato e privo di qualsiasi a priori».

Dopo che tutto ciò è accaduto – sottolinea Finkielkraut – «l’idea di umanità non può più essere pensata innocentemente», ma deve necessariamente essere concepita in maniera differente, radicalmente mutata. Secondo l’autore è proprio questo il compito del nostro tempo, di quel nuovo millennio che ha dovuto ereditare l’orrore: il dovere, oggi, è quello di ripensare il concetto di umanità in un modo diverso, assolutamente disincantato. Nel farlo, però, non dobbiamo «fraintendere il significato profondo: né una generica compassione, né un astratto umanitarismo possono infatti riscattare davvero i mali sofferti dagli uomini e dall’idea di umanità».

Finkielkraut ripercorre con puntuale riflessione il trasformarsi di questa concezione dalle origini fino ai giorni nostri. È ad essa inoltre, che si collegano fortemente e in maniera inevitabile le nozioni di ragione, partecipazione agli eventi (che sia essa diretta o sfuggente, consapevole o velata), di coscienza e responsabilità.

Nei campi di concentramento vi è “soltanto” un accumulo di corpi, di occhi senza luce… unicamente corpi, materia quasi immateriale, non più uomini, entità fisica priva di identità: «Le fabbriche della morte sono laboratori dell’umanità senza uomini».

 

Dare senso all’orrore

Noi, umanità del nuovo millennio – eredi, figli e portatori del passato – siamo chiamati a rispondere al male, alla tragedia, per poter dare almeno “a posteriori” un senso a tutto ciò che è accaduto, perché tutto ciò non debba riaccadere.

A riguardo l’autore precisa che non è possibile capire nulla del male commesso nel XX secolo non solo se si giudica «scandaloso ogni paragone tra l’hitlerismo e il comunismo staliniano», ma anche se – all’opposto – «questa parentela totalitaria, anziché suscitare scandalo, è presa per oro colato». Bisogna, quindi, avere coscienza, consapevolezza, utilizzare “finalmente” la ragione; rendendola umana e sensibile, assolutamente aperta e fertile.

L’umanità deve percepirsi come unità, un continuum spazio-temporale, che deve trarre forza da se stessa e per se stessa; partendo dalla lucida constatazione che «l’uomo nell’uomo […] non si riconosce per le sue proprietà, le sue facoltà, o le sue prerogative, ma per i tormenti che l’opprimono».

La tecnica informatica, l’apertura virtuale al mondo senza limiti, Internet rendono «l’uomo finalmente umano, poiché finalmente universale». Oggi l’individuo esiste a prescindere dal luogo, dalla sua collocazione fisica. L’uomo è presente, è essenza reale in quanto appartenente all’umanità.

Nonostante tutto ciò, se – come sostiene Hannah Arendt – l’uomo moderno continuerà a essere dominato dal «risentimento», da quella disposizione affettiva, cioè, che lo spinge a «non scorgere alcun senso nel mondo quale gli si offre», fino a portarlo a proclamare che «tutto è permesso», allora l’orrore del XX secolo sarà trascorso invano.

 

Anna Guglielmi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 35, luglio 2010)

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