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n. 817 del 22/11/2007.
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Direttore editoriale: Natalia Bloise
Anno IV, n. 35, luglio 2010
Romanzo-reportage:
con il volontariato
un criminale cambia
radicalmente vita
di Angela Galloro
Da Edizioni clandestine la storia
di un uomo fra infelicità e riscatto
Il libro inizia non a caso con un solo nome, quello del protagonista, Marc Vachon.
È, dopotutto, l’unico dato che il neonato, abbandonato ai servizi sociali pochi giorni dopo la nascita, possiede. Quello di cui stiamo parlando è il racconto di un’esistenza straordinaria, un esempio di vita ambiguo all’inizio, positivo alla fine e decisamente fuori dalla normalità.
Ribelle senza frontiere è la narrazione autobiografica della vita di un uomo che a ben vedere ci risulta sdoppiarsi in due percorsi diversi, due passati divisi da una netta linea di demarcazione fra giusto e sbagliato, fra esperienze cattive e remissione.
L’autore parla in prima persona e nella sua introduzione Jean Christophe Rufin, presente anche nel racconto, ci comunica – come se fosse necessario – che tutti i contenuti del libro sono esperienze reali e vissute, addirittura semplificate in certi casi per ragioni di spazio, ma dallo stile diretto di Vachon sappiamo perfettamente che niente di quello che leggiamo è frutto di cronaca romanzata.
Scritto in francese, Ribelle senza frontiere (Edizioni clandestine, pp. 336, € 15,00) è stato tradotto in italiano da Barbara Gambaccini che ne ha lasciato inalterato il titolo, di per sé significativo.
Nessun equilibrio
La prima parte della vita di Vachon è una continua ricerca di conferme mai trovate. La sua esistenza inizia nella totale incertezza e povertà e quest’ultima costituirà il primo insegnamento per il bambino, da subito avvezzo alle situazioni peggiori. Ma nascere nel quartiere povero di una città come Montréal, apprendiamo, non è nulla a confronto con ciò che Marc dovrà sopportare: viene infatti sballottato di famiglia in famiglia, trattato molte volte come servo da presunti filantropi, costretto a subire i soprusi di fratellastri e genitori che non sarebbe possibile chiamare così. Il ragazzo conosce, fin da subito, l’ipocrisia dell’uomo, le ingiustizie, le false apparenze, la strada e le sue mille illegali risorse. Tutto ciò lo porta ad avere un atteggiamento sempre meno emotivo, dote che lo aiuterà notevolmente nelle sue esperienze umanitarie: «Vivevo giorno per giorno, senza mai riporre la speranza in qualche forza superiore. Regole per me fondamentali: esultare dei momenti felici, dimenticando velocemente quelli dolorosi, e non avere occasioni perse da poter rimpiangere»).
D’altra parte il periodo storico non contribuiva ad equilibrare la sua esistenza: erano gli anni del rock, della cultura hippie, delle esperienze sovrasensoriali di alcool e droghe e il protagonista diventa, nel giro di pochi anni, da vittima dell’infelicità familiare ad artefice di ogni tipo di reato, dallo spaccio di droga al furto, alla rapina.
Entrando nei “grossi giri” di criminalità della città che ormai conosce alla perfezione si ritrova “strafatto” per la maggior parte del tempo, incapace di ripensare anche ai bei momenti della propria infanzia, a quelli passati con famiglie perbene che gli avevano dato tanto. Un viaggio a Parigi costituirà la svolta, un nuovo inizio, che trova il protagonista incredulo e ancora turbato dal tentativo di disintossicazione da alcool e cocaina.
Dopo aver viaggiato attraverso Amsterdam, Vancouver, e di nuovo Montréal, Vachon decide di abbandonare l’illegalità, insieme alle due figlie mai conosciute, per gettarsi in un’avventura nuova, un’opportunità presentatagli per caso in un caffè della capitale francese.
Dalla strada alla guerra
L’irrequieta personalità del protagonista “cambia di segno” dal momento in cui egli decide di arruolarsi con Medici senza frontiere, come addetto alla logistica, facendo fruttare con molta caparbietà le poche nozioni di architettura ed edilizia apprese a scuola. Inizia così, dopo corsi di formazione e ricerca su malattie sconosciute, una missione in Malawi, confinante con il Mozambico, territorio di guerra e meta di un’enorme quantità di rifugiati e ammalati di colera, male incurabile in luoghi carenti di acqua e che versano in condizioni igieniche pessime.
A Marc viene affidata la costruzione di latrine e la distribuzione di acqua e medicinali, e le condizioni catastrofiche delle popolazioni vengono affrontate dal protagonista in modo pratico e utile, nonostante la scarsa preparazione e conoscenza dei luoghi. Forse è grazie alla sua vita difficile, durante la quale Vachon ha potuto contare sempre e solo sulle sue forze, che è riuscito ad apprendere e risolvere problemi concreti senza mezzi e con pochi aiuti. Ci stupisce come Marc riesca ad affrontare con la giusta dose di umanità e nello stesso tempo di imparzialità emotiva anche la morte, i cadaveri che incontra per strada, ricoperti di insetti, gli stessi ai quali deve garantire le procedure mediche “finali” .
L’autore ci pone davanti agli occhi immagini crude, e nello scorrere delle pagine possiamo percepire il cambiamento nella sua stessa personalità, la capacità di mettere le sue conoscenze e la sua scaltrezza da ex criminale al servizio dell’umanitarismo; un atteggiamento solidale, e non, come avviene spesso nell’ambito delle singole individualità facenti capo alle varie Ong, la tendenza egoistica di chi vuole aiutare se stesso, trovare un senso alla propria esistenza “sfruttando”, per così dire, l’esperienza umanitaria.
Il racconto di Vachon si fa testimonianza della storia recente del mondo: Baghdad e la guerra del Golfo, i crimini commessi da Saddam Hussein, la Jugoslavia di Milosevic, Mozambico, Sudan, Angola, Afghanistan. Tutti luoghi che il protagonista – lavorando per varie associazioni umanitarie e di frequente per l’Onu – racconta in ogni loro aspetto: geografico, sociale, paesaggistico, politico. Come specificato durante gli interventi della presentazione del libro all’Ambasciata del Canada presso la Repubblica italiana, Vachon dice le cose come stanno: il suo racconto è esplicito e “giornalistico”, e l’autore non manca di parlare di quello che non va nel sistema del soccorso e di dare giudizi espliciti sui retroscena politici delle crisi umanitarie.
Luoghi dimenticati e distribuzione delle risorse
Il libro di Vachon dovrebbe apparire al mondo occidentale come una vera e propria denuncia: quello che leggiamo fa parte di realtà che molto spesso, se non supportate da personalità politiche di spicco, non hanno avuto posto sui nostri giornali o media. Il mondo delle organizzazioni non governative, sembra dirci Vachon, è molto più complesso di quanto si creda, e non solo sul versante logistico (gli viene chiesto di costruire campi profughi in pochi giorni), ma su quello prettamente organizzativo. Il narratore se la prende con l’eccessiva burocratizzazione di tutte le associazioni umanitarie che spesso rischia di mandare a monte iniziative a causa di intoppi nella distribuzione del personale e delle risorse, forse anche per via della gerarchia che dirige. Marc è uno che agisce, in tutte le situazioni, e in virtù di questa sua propensione tende a detestare situazioni di rappresentanza, occasioni in cui si parla tantissimo ma si risolve poco.
Stando a contatto con la morte e la malattia, rischiando la vita più volte durante le varie guerre, assedi e bombardamenti, riesce a vedere con occhio davvero umano quello che noi vediamo soltanto attraverso lo sguardo meccanico di una telecamera, o la voce di un cronista.
Il suo racconto invece contiene parole come “disperazione”, “stress post-traumatico”, contiene sogni e ferite che lo perseguitano durante i vari spostamenti. Soprattutto Vachon dà un volto alla gente che incontra, vivendo delle sensazioni che questi volti esprimono, in un susseguirsi di senso di colpa, di impotenza, di inadeguatezza e di un immancabile coraggio, che permette di mantenere i nervi saldi e fingere una vita normale attraverso un sorriso, anche all’inferno. Da buon osservatore riconosce empaticamente i pensieri dei colleghi, e si rende conto di quanto difficile sia trovare un accordo tra persone che provengono da culture e luoghi diversi, seppur unite nel comune scopo umanitario, e da buon organizzatore distingue le assurde richieste atte solo allo spreco delle scarse risorse disponibili, da ciò che è davvero necessario, nel più breve tempo possibile.
Il protagonista deve prendere decisioni (anche su questioni di vita o di morte) in modo immediato, a volte “sovversive” se necessario, cioè non rispettose degli ordini superiori, e che possono risultare dolorose per il volontario, inumane per le popolazioni e deve saper essere imparziale e salvare le vite di assassini e vittime durante i genocidi con la stessa fermezza d’animo. In una spirale di violenze che sembra non finire mai, dal momento che la politica di certi paesi finge di non vedere le animalesche circostanze della guerra, né porre loro fine.
Se l’Occidente rimane sconvolto dai fatti dell’11 settembre è perché nessuno è abbastanza consapevole dei crimini perpetrati dai nostri stessi governi nei posti del mondo non raggiunti dalla televisione. Vachon vuole renderci coscienti di come quelle tragedie siano anche nostre, da silenziosi spettatori a volte, da carnefici inconsapevoli altre, o da vittime di sistemi politici e soprattutto economici inadeguati allo sviluppo di tutta l’umanità e alla conservazione della specie.
È per questo che le Ong non dovrebbero mai e per nessun motivo essere sfruttate dai mezzi di informazione, né a loro volta dovrebbero strumentalizzare questi ultimi. Quello che l’autore ci dice nel libro è che l’autonomia di tali iniziative umanitarie può garantire migliore utilizzo delle risorse e maggiore aiuto.
Nel romanzo Marc racconta la sua vita, i suoi turbamenti, le sue mancanze, i rimorsi, le persone che ha incontrato e quelle che ha lasciato andare, presentandosi al lettore come una persona in costante movimento, in continua ricerca.
E lasciandogli un forte messaggio di speranza.
Angela Galloro
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 35, luglio 2010)
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