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Direttore editoriale: Natalia Bloise
Anno IV, n. 35, luglio 2010
Un excursus storico
sulla pena di morte
ancora in atto in vari
sistemi penitenziari
di Rosina Madotta
Per Edizioni associate un saggio duro
ma colmo di speranze sulla possibilità
di abolire la pena capitale nel mondo
Il terzo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, sancita dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 1948, afferma: «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona». Ma tale articolo è puntualmente violato. Nel terzo millennio, nella stessa epoca del grande progresso tecnologico, informatico, scientifico e in ogni campo del sapere, uomini e donne vengono privati del bene della vita dai sistemi giudiziari nei quali vige ancora la pena capitale. Questa resta, tuttora, una pratica legale in molti paesi nel mondo che infrangono a tutti gli effetti il diritto alla vita. Sorge spontaneo domandarsi: ma se esiste, allora, il diritto di vivere, esiste anche il diritto di uccidere? È giusto punire con la morte chi commette degli errori più o meno rimediabili? E ancora, è vero che la pena di morte costituisce un deterrente? Fino a che punto è lecito per una società civile punire con la pena capitale? Quando la giustizia diventa ingiustizia? Cerca di rispondere a questi e ad altri scottanti interrogativi Giovanni Adducci, nel suo libro, Io ti dichiaro morto! La pena di morte nel mondo e nel tempo (Edizioni associate, pp. 264, € 18,00).
La pena di morte nella storia
L’autore delinea un quadro preciso e globale della situazione sulla delicata quanto dibattuta questione: inizia dagli aspetti storici – con una carrellata sulla pena di morte nelle diverse epoche storiche – e tecnici – spiegando in modo quasi scientifico le diverse modalità usate per uccidere il condannato – senza tralasciare l’aspetto puramente religioso.
Già la civiltà dei Babilonesi utilizzava ampiamente la massima pena per alcuni tipi di reati tanto che la sua applicazione è stata regolamentata all’interno del Codice di Hammurabi, primo esempio di leggi scritte della storia. Nella Grecia antica la concezione della giustizia era intesa inizialmente come la possibilità, da parte dei figli delle vittime, di ottenere una vendetta; in seguito questa idea è stata abbandonata. Ad Atene le esecuzioni avvenivano costringendo il condannato a bere un miscuglio a base di cicuta, erba contenente una sostanza che blocca i centri respiratori fino a provocare la morte per asfissia: il filosofo greco Socrate è stata la vittima più illustre di questa pratica.
Nell’Impero Romano le sentenze si eseguivano in vari modi, in relazione al tipo di crimine commesso dal condannato. Una delle pratiche più crudeli era la crocifissione riservata agli schiavi e a coloro che non erano cittadini di Roma.
Nel Medioevo le condanne capitali potevano essere inflitte sia dai magistrati cittadini che dai feudatari, e si utilizzavano diverse procedure: la forca, la decapitazione con la spada, l’impalamento, la ruota, la garrota, la Vergine di Norimberga, la bollitura, l’annegamento, il rogo. Definizioni tremende per strumenti di morte e di tortura, molti dei quali provocavano la fine – tra atroci sofferenze che duravano a volte più giorni – del condannato, il quale doveva subire la condanna tra l’umiliazione della folla in una sorta di spettacolo pubblico in cui la popolazione partecipava esultante. «Semplici parole – come si può leggere nell’introduzione al saggio – che esprimono tuttora l’orrore del mondo, per aver tolto di mezzo, in nome di una Giustizia tutt’altro che cieca, un’umanità estremamente varia: ladri, truffatori, assassini, patrioti, gentiluomini, prostitute, preti spretati, massaie, giunti al loro ultimo supplizio per espiare le proprie insane passioni».
Nel corso della storia, fino all’epoca moderna, nuovi strumenti e tecniche furono introdotti – con lo scopo di alleviare o cancellare del tutto le sofferenze e l’agonia del condannato prima della morte e renderla meno brutale – come la ghigliottina, il plotone d’esecuzione, l’elettroesecuzione, la camera a gas, l’iniezione letale. L’autore dedica a queste pratiche di morte numerose pagine dando spazio a descrizioni spesso crude, dure e drammatiche, ma nello stesso tempo grida il suo appello per l’abolizione della pena capitale.
Toccante a tale proposito è la testimonianza che l’autore riporta dell’esecutore più famoso d’America, Robert Greene Elliott; questi, tramite la pubblicazione della sua autobiografia, ha raccontato gli ultimi istanti di vita, all’interno del braccio della morte, di molti condannati restituendo loro umanità e dignità.
Verso l’abolizione?
Con la nascita nel secolo scorso della criminologia si è compreso che dietro ogni crimine non c’è la coscienza e la razionalità della persona, piuttosto una serie di cause scatenanti. I maggiori sostenitori della pena capitale ne giustificano l’esistenza con la convinzione che abbia una funzione deterrente: la minaccia che genera nell’individuo nell’istante in cui sta compiendo un crimine dovrebbe distoglierlo e farlo rinsavire. Ma alcuni studi hanno dimostrato che tale scopo non è stato raggiunto poiché non si uccide meno – e il tasso di criminalità non è più basso – laddove esistono patiboli.
La necessità di mettere il condannato in condizioni di non fare più del male non è giustificata, soprattutto se si considera la possibilità d’errore nei processi, nella raccolta delle prove, nella veridicità delle testimonianze. Secondo uno studio effettuato si è scoperto che nel secolo scorso negli Usa ben 350 condannati sono stati riconosciuti in seguito innocenti, ma tra questi 25 erano già stati giustiziati e molti altri hanno scontato diversi anni di prigione. Troppo spesso le condanne sono state inflitte in maniera discriminatoria e razzista, colpendo maggiormente minoranze razziali, persone poco abbienti senza possibilità di difesa, dopo processi superficiali e sbrigativi. Il fine rieducativo della condanna a morte non ha fondamento poiché è molto difficile che un impiccato si rieduchi!
Sostiene Adducci: «gli abolizionisti affermano giustamente che nessun uomo può arrogarsi il diritto di togliere la vita ad un suo simile, indipendentemente dai reati commessi da quest’ultimo» e ancora: «l’uomo non ha il diritto di distruggere il bene più prezioso del creato, un bene che non potrà più essere restituito a coloro cui è stato privato. Un errore, gravissimo quanto si vuole, di una frazione di secondo, può essere pagato reclamando la vita di colui che lo commette? Se poi aggiungiamo la possibilità concreta di emettere un verdetto errato, allora la tragedia si unisce alla vendetta».
Attualmente la metà dei Paesi del mondo ha soppresso la pena di morte del tutto, per i crimini ordinari di fatto, oppure ha attuato una moratoria. Ancora 66 paesi la mantengono ma in molti di questi le esecuzioni sono in graduale riduzione.
La pena capitale può essere considerata l’immagine allo specchio della società, incivile, vendicativa, conservatrice, e il saggio riesce perfettamente a rappresentare questa realtà con obiettività e umanità. Giovanni Adducci conclude con una grido di speranza, con l’auspicio che la pena capitale verrà abolita in tutto il mondo e non si ucciderà più in nome di uno stato e conclude: «Riprendendo una frase di Victor Hugo “Quando, coloro che leggono la Bibbia, comprenderanno che Caino ebbe salva la vita?”».
Rosina Madotta
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 35, luglio 2010)
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