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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno IV, n. 35, luglio 2010

Zoom immagine Lettere dal carcere
di un attentatore
mancato: Lucetti

di Agata Garofalo
Da Galzerano editore, una raccolta
a cura della psicologa Marina Marini


Roma, 11 settembre 1926: nei pressi del piazzale di Porta Pia, Gino Lucetti scaglia una bomba a mano contro l’auto presidenziale con a bordo il capo del governo italiano, Benito Mussolini, mancando il bersaglio. L’anarchico individualista (come egli stesso si dichiara fin dai primi interrogatori) autore del gesto è un giovane carrarino, il quale subirà un duro processo e la condanna a trent’anni di carcere, che sconterà fino alla liberazione per mano degli alleati americani nel 1943. Ma la sorte gli concederà solo pochi giorni per assaporare la libertà a lungo agognata, prima di trovare la morte sotto i bombardamenti tedeschi.

Marina Marini, psicologa udinese, ha curato la raccolta – pubblicata da Galzerano editore – delle lettere scritte da Lucetti ai suoi familiari durante gli anni di prigionia (Gino Lucetti. Lettere dal carcere dell'attentatore di Mussolini (1930-1943), pp. 416, € 25.00). Esiste anche un sito internet completamente dedicato a questo libro, all’indirizzo http://www.lucettilettere.org/.

 

Motivazioni, contesto e paratesto

La decisione di trascrivere queste lettere è maturata in seguito alla partecipazione della Marini al G8 di Genova del 2001, «dove il duro scontro tra realtà e manipolazione – spiega – mi ha convinto del fatto che gli individui trovano la loro pienezza esistenziale solo quando sono messi in grado di realizzare la propria libertà ed autonomia». La sua ricerca comincia all’Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis (IISG) di Amsterdam, dove molte delle lettere in questione sono custodite. In esse la psicologa avverte la forte consapevolezza individuale e l’incredibile propensione per il libero pensiero da parte di un uomo nato nel 1900, cresciuto negli anni di affermazione del regime fascista (e di conseguente assuefazione ad esso da parte della popolazione) ed invecchiato precocemente tra le mura di un carcere.

Il suo interesse ed approccio verso la figura di Lucetti è – e ciò traspare dal libro – di carattere psicologico, piuttosto che storico-politico. È possibile, infatti, ricavarne un’interessante ricostruzione della personalità di un anarchico attivista, di un attentatore che ha fallito nel suo intento, di un carcerato che non smette mai di amare, affrontare e reinventarsi la vita giorno dopo giorno.

Il compito di inquadrare il personaggio nel contesto storico e sociale corrispondente è affidato alle varie introduzioni ed appendici al testo.

La Prefazione filo-anarchica di Claudio Venza, un brevissimo inquadramento storico e la biografia di Lucetti sono seguite da una lunga ed argomentata ricostruzione sia del suo profilo psicologico sia dell’attentato e delle sue conseguenze, coadiuvata dalla trascrizione di documenti dell’epoca quali articoli di giornale, lettere, stralci degli interrogatori e del processo. A seguire, centonove lettere che il carcerato spedì all’indirizzo dei suoi cari, inframmezzate da alcune immagini (foto, lettere e articoli dell’epoca) ed idealmente concluse con un’ultima epistola che la curatrice immagina l’anarchico avesse potuto scrivere dopo la liberazione. Concludono l’opera varie testimonianze, commenti ed un breve racconto ironico che ricordano la figura dell’anarchico e l’importanza simbolica del suo gesto.

 

Idee e sentimenti oltre la censura

«Accade all’uomo in carcere, ciò che accade all’uccellino in gabbia: sbatte, sbatte tanto le veloci aluzze che finisce di cadere addormentato. Ma sarebbe errore credere che la mia attuale relativa tranquillità sia figlia della rassegnazione, di quella rassegnazione che fa quasi felici gli schiavi e in genere tutte quelle anime ovine, per le quali ogni ardimento, ogni pensiero libero e superiore è cagione di spavento». Sono i pensieri di una mente libera. Pensieri imprigionati e censurati ma che trapelano con forza dalle pagine del libro.

Si tratta soprattutto di lettere che raccontano affetti familiari, relazioni umane, emozioni e sofferenze quotidiane. In esse il prigioniero sprona spesso i nipotini al rispetto reciproco ed all’impegno scolastico, sottolineando l’importanza dello studio e del «pensare colla propria testa», oltre ad elargire ai più grandi suggerimenti sull’educazione dei bambini, argomento sul quale possiede idee moderne e liberali. Lucetti interruppe gli studi alla fine delle scuole elementari, ma in queste missive sfoggia una sorprendente proprietà di linguaggio. In carcere, infatti, leggeva molto, ed esorta spesso i suoi familiari a fare altrettanto, attribuendo all’ignoranza molti dei mali e delle ingiustizie di questo mondo. Racconta, inoltre, di voler esaudire il desiderio di un contadino partenopeo compagno di cella che gli chiede lezioni di aritmetica e grammatica.

Il prigioniero attraversa vari momenti di sconforto, ma non si pente del suo gesto (era pronto a morire pur di ottenere il suo scopo e si meraviglia di non essere stato linciato ed ucciso subito dopo l’attentato) né perde mai la voglia di comunicare e la speranza nel futuro: «Per il momento non mi resta che lottare […] saprò trovare ore e giorni di felicità… Io non temo nulla, ma un pensiero mi tormenta dolorosamente e da un pezzo: finire un idiota alla mercé di tutti».

Le lettere non contengono alcun commento di carattere politico, in quanto chi scrive sa che qualsiasi critica, anche solo accennata, al regime, alla situazione sociale o ai trattamenti ricevuti nel carcere sarebbe stata cancellata dalla censura, come effettivamente accade in alcuni passaggi: «È questione di tempo, di poco tempo, e poi il sorriso fiorirà anche sulla bocca dei bimbi, sulla gente del popolo. (Due righe censurate)». Sono tuttavia sopravvissute alla censura alcune sparute ma significative considerazioni sulla condizione umana e sociale che si rivelano tremendamente attuali: «La nostra epoca è un’epoca di travaglio. Ciò che pesa oggi sul mondo non è solo una crisi economica, ma è soprattutto una crisi di coscienza». Ed ancora: «Non son questi i tempi di dormire. Il sonno va bene per i disperati, per gli scettici, per coloro che hanno perduto la fede nella vita, ma non per noi che sentiamo, vediamo confusamente germinare nelle pupille dell’anima nostra l’umano divenire». Attraverso questi sprazzi di lucidità critica si sprigiona e si comprende chiaramente l’incrollabile fede di Lucetti nella libertà, nella vita e soprattutto in se stesso.

«Ma poi che cosa è mai questa vita a cui teniamo, a torto, così tanto? – afferma con disilluso pragmatismo – Una illusione, una pura e semplice illusione. E che ciò sia vero lo dimostra il fatto che il nostro bene è sempre il bene di domani, ma non mai il bene di oggi».

È commovente come, rivolgendosi a sua madre, la esorta ad amare la vita senza mai dimenticare l’importanza di «portarla avanti con coraggio, di non avere paura ad ogni momento di perderla, e di far camminare a fianco di essa la morte, come dice Foscolo […] Quando ti domandano: E Gino? Tu, invece di mandare uno sciocco sospiro, rispondi: Gino è un bravo figliolo che attende a consumare i suoi anni in una maniera assai diversa dalla mia».

 

Agata Garofalo

 

(www.bottegascriptamanent.it , anno IV, n. 35, luglio 2010)

 

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