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Anno IV, n. 35, luglio 2010
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Filosofia e religioni (a cura di Angela Potente) . Anno IV, n. 35, luglio 2010

Zoom immagine Il tramonto
della verità

di Agata Garofalo
Da Meltemi l’ultimo
saggio filosofico
di Gianni Vattimo


In un mondo ormai consapevole della caducità della condizione umana e della natura ingannevole della percezione, il concetto di verità sembra non avere più senso, sfugge alla nostra comprensione. Per poterlo definire dobbiamo adattarlo alla dimensione umana (variegata, sfuggente ed effimera), e dire addio alle certezze assolute e rivelate, alla pretesa di “avere ragione”: al pensiero forte. Partendo da queste riflessioni, il filosofo e politico italiano Gianni Vattimo afferma l’importanza del “pensiero debole”, in cui vede la chiave per la democratizzazione della società, l’emancipazione umana, la diffusione del pluralismo e della tolleranza, contro la violenza ed i dogmatismi.

Nato a Torino nel 1936, Vattimo è attualmente docente ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Torino e deputato europeo per l'Italia dei valori. L’ultima opera della sua ricca bibliografia è Addio alla verità (Meltemi editore, pp. 144, € 13.00).

 

L’inutilità del vero e le implicazioni politiche

Fin dalle prime pagine del libro il filosofo affronta questioni di politica attuale, come ad esempio la guerra in Iraq, e riflette su come i media ed i politici mentano spudoratamente nel momento in cui ci forniscono una verità che è un gioco di interpretazioni, non necessariamente false ma orientate ad una certa formazione dell’opinione pubblica. Non che vi sia una verità univoca a cui credere ed adeguarsi, ma bisogna senz’altro ripensare i presupposti e gli scopi della ricerca di una verità che è di certo soggettiva. Troppi politici si sentono detentori del vero ed in diritto/dovere di imporre agli altri la loro visione delle cose. E se nessuno si scandalizza di ciò è perché la mentalità comune è ancora profondamente legata ad una concezione del vero come descrizione obiettiva dei fatti, mentre la verità, sostiene Vattimo, è un affare di interpretazione: non corrispondenza oggettiva ma orizzonte paradigmatico di condivisione sociale.

Ma come trovare il giusto equilibrio tra il rischio di una dittatura silente e machiavellica sostenuta da un conformismo dilagante e quello, opposto, di un regime anarchico dilaniato dalla lotta tra interessi soggettivi contrastanti? Come raggiungere cioè il mito di una società aperta, democratica e libera? Già perché, semplificando all’estremo le cose, si può affermare che la scoperta che la verità è negli occhi di chi guarda potrebbe condurre su due strade opposte ed entrambe potenzialmente rischiose: quella dell’uguaglianza (che mal interpretata porta agli errori del comunismo reale) e quella dell’individualismo (che mal interpretato porta agli errori del nazi-fascismo). Entrambe queste strade, sottolinea Vattimo, non superano l’idea che la verità sia in mano a qualcuno (una classe sociale o una razza), tendono perciò all’instaurazione di un regime autoritario. «Una volta preso atto che non ci sono verità assolute ma solo interpretazioni, molti autoritarismi vengono smascherati per quello che sono, cioè pretese di imporci comportamenti che non condividiamo in nome di una qualche legge di natura, essenza dell’uomo, tradizione intoccabile, rivelazione divina, ecc».

Esistono certo delle verità innegabili, cose che sono accadute e che, pur se interpretabili, non possiamo cancellare. A questo proposito, in una delle note a fine capitolo l’autore richiama una delle assurde dichiarazioni di Silvio Berlusconi che, in un’intervista del 2003, diceva: «Mussolini non ha mai ucciso nessuno». Ciò significa negare uno di quei dati di fatto che, anche se oggetto di interpretazioni e discussioni, non si possono ignorare, sono anzi mezzi imprescindibili per la reciproca comprensione e la libertà comune.

 

Tutto è interpretazione

Già dal primo capitolo l’autore intreccia le sue teorie al pensiero, tra gli altri, di Nietzsche, Heidegger e Marx, dai quali, lungo tutto il percorso dell’opera, prenderà spunto e che sosterrà più o meno a fondo. Egli condivide ed apprezza la loro consapevolezza della necessità di superare la metafisica ed il platonismo, cioè l’accettazione a priori di verità oggettive. La metafisica è morta ma purtroppo in pochi se ne sono accorti: la nostra società continua ad inseguire un’idea metafisica del vero, come obiettiva corrispondenza ai fatti, senza capire che «la verità non si “incontra”, ma si costruisce con il consenso e il rispetto della libertà di ciascuno». «Non ci sono fatti, – diceva Nietzsche – solo interpretazioni. E anche questa è un’interpretazione».

Attraverso le pagine del libro è evidente che l’autore considera Heidegger il filosofo che più di tutti si è sforzato di superare la metafisica ed il concetto di verità come corrispondenza oggettiva a idee e fondamenti assoluti. Commentando una sua famosa conferenza dal titolo La fine della filosofia e il compito del pensiero, Vattimo si interroga sul rapporto filosofia-politica, domandandosi cosa ha ancora da dare un filosofo alla società ed alla politica se non è più l’unico ad avere accesso al mondo delle idee.

Sparita ogni illusione sull’esistenza di idee originarie, fondamenti essenziali e rivelatori, muore la metafisica e con essa la filosofia, e si aprono le porte per una «democrazia del pensiero». Il congedo dalla verità è, quindi, il benvenuto ad una democrazia reale, poiché non può essere uno solo, o un soggetto collettivo, il detentore della verità, ma tutta la collettività. Essa è infatti il risultato di un conflitto di svariate prospettive e punti di vista: l’interpretazione. Con questo termine Vattimo si riferisce a quell’insieme di presupposti attraverso i quali percepiamo l’esperienza e ci approcciamo ad essa: metodi, criteri, modelli quali il linguaggio, le misure, gli strumenti. Senza questi non ci capiremmo. «L’interpretazione è l’idea che la conoscenza non sia rispecchiamento del puro dato, ma approccio interessato al mondo con schemi che sono anch’essi storicamente mutevoli», ma che esistono! Non si deve cioè pensare che tutto sia lecito ed ognuno abbia la propria verità, ci sono delle regole da condividere, un orizzonte paradigmatico dal quale partire, delle tradizioni, delle convenzioni.

 

Alla ricerca di un Dio “debole”

Nel secondo capitolo l’autore si sposta in territorio religioso: interrogandosi sul futuro della religione Vattimo afferma che «solo un Dio relativista ci può salvare». Relativista nel senso di opposto a fondamentalista: un Dio che tiene conto delle diversità e dei cambiamenti storici ed immanenti, della necessità di staccarsi da una ridicola ed ossessiva imposizione di un’interpretazione univoca delle Sacre Scritture a cui, pretende la chiesa, dovrebbero adeguarsi la politica e la morale.

Non c’è una verità oggettiva, il mondo è nelle varie versioni e punti di vista di ognuno dei suoi abitanti, o meglio, delle sue comunità, società, culture. C’è quindi bisogno di un modo di pensare soggettivo e relativista, libero da dogmi ed aperto al dialogo: un pensiero debole. Solo la consapevolezza che nessuno possiede la verità (un pensiero forte) ma che tutti insieme dobbiamo comunque cercarla e costruirla attraverso il dialogo può favorire lo sviluppo della nostra società. Il capitolo si conclude con l’affermazione che anche il cristianesimo può contribuire a ciò riscoprendo la propria essenza di religione della carità, non del dogma.

Sia la politica che la religione insomma, devono rendersi conto che ostinandosi ad autoproclamarsi detentori della verità assoluta e suprema finiranno per soccombere, in un mondo in cui la scienza ci ha abituati a verità verificabili e cangianti, un mondo che «può fare a meno della metafisica e del Dio metafisico, in un’epoca nichilista».

 

L’etica della finitezza e la rivoluzione impossibile

Nel terzo capitolo, infine, Vattimo discute le implicazioni che il tramonto della verità ha in campo etico e provvede a suggerire delle strade percorribili per lo sviluppo della società attuale, ribadendo l’importanza di avere «un atteggiamento critico nei confronti di tutto ciò che pretende di presentarsi come principio ultimo e universale». Egli propende per “un’etica della finitezza”, cioè consapevole della finitezza che caratterizza ogni essere vivente e votata al rispetto reciproco, per la delegittimazione di ogni pretesa di prevaricazione violenta sul prossimo.

«Dobbiamo respingere la tentazione di sentirci dalla parte della Verità – come accade sempre più spesso agli esponenti dei terrorismi che ci assediano, dal Bush “esportatore” della democrazia con le bombe, a Bin Laden (o chi per lui) che vuole imporre la shariah a tutto il mondo». Dobbiamo piuttosto favorire il dialogo, attraverso il pensiero debole, e capire che «ciò che conta non è più la speranza di trovare una verità alla fine della discussione, piuttosto il fatto stesso che la discussione sia possibile e che “continui”». Se dialogassimo al solo scopo di concordare una verità unica si sfocerebbe inevitabilmente nel conflitto.

Quest’ultimo invece è necessario prima del dialogo, per stabilire le sue condizioni: la fondazione dei presupposti per la comunicazione richiede necessariamente, teorizza Vattimo, un’iniziativa di emancipazione “rivoluzionaria”. Per sperare di poter creare un nuovo stato di cose non possiamo illuderci di accontentarci delle condizioni dialogiche esistenti, conformandoci all’ordine precostituito. È proprio questa la difficoltà del nostro tempo: immaginare un mondo diverso, un modo nuovo di relazionarci. La società è ormai incastrata in una determinata struttura – in cui ognuno ha il suo ruolo e ci si sente in fondo comodo e protetto – ed anche le nostre forme di ribellione rientrano in questa struttura controllata e prevedibile. Già Heidegger sosteneva che una rivoluzione-catastrofe non è possibile, l’unica alternativa pensabile è una “distorsione” della società dal suo interno.

Il discorso di Vattimo non si conclude in maniera negativa e nichilista, bensì con un auspicio sincero e delle soluzioni concrete. L’ultimo paragrafo infatti è dedicato all’attualità del pensiero di Hegel, visto in una prospettiva nuova, alla luce cioè dell’importanza di una filosofia che sia progettuale e pragmatica, volta alla costruzione non della verità ma piuttosto di una società priva «di ogni forma di alienazione», in cui regni la solidarietà intesa come caritas.

 

Agata Garofalo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 35, luglio 2010)

Redazione:
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