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Comunicazione e Sociologia (a cura di Marilena Rodi) . Anno IV, n. 34, giugno 2010

Zoom immagine Le discusse vicende dell’Iri.
Da Mussolini a Prodi, tour
nella storia dell’istituzione
pubblica “salva economia”

di Sapienza Cama
L’economia prima delle privatizzazioni.
Un libro documento di Bevivino editore


Come uno spettatore che dal proprio posto in loggione vede dall’alto tutto l’avvicendarsi di scene, quadri e personaggi sul palcoscenico di un teatro, così Carlo Troilo ha studiato, osservato e raccontato, da giornalista e dirigente, un ventennio della storia italiana che ha visto la grandiosità e il declino dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale).

Troilo, capo ufficio stampa dell’istituto dal 1963 al 1979, nel libro 1963-1982 I venti anni che sconvolsero l’Iri (Bevivino editore, pp. 400, € 18,00), ne racconta, la storia evidenziando le biografie delle persone che ne hanno segnato la nascita, (Alberto Beneduce, fondatore e primo presidente dell’istituto; Raffaele Mattioli, il banchiere umanista; Donato Menichella, primo direttore generale; Guglielmo Reiss Romoli che partecipò alla realizzazione del sistema telefonico nazionale e Oscar Sinigaglia, iniziatore della siderurgia moderna in Italia). L’autore fa emergere dell’organismo le opere che hanno sollevato le sorti della nostra industria, i fatti legati alle persone che hanno originato il punto di non ritorno di un ente invidiatoci da molti paesi, e la fine della sua esistenza costellata da un groviglio di potere e malaffare indicato come una delle più grandi spoliazioni che lo stato italiano abbia mai subito.

Il testo, articolato e ricco di spunti di riflessione, mostra inizialmente una corposa presentazione delle cinque personalità che hanno costruito le fondamenta dell’istituto e viene sottolineato come la differenza di cultura, di orientamento politico e religioso non le abbia divise, ma al contrario, ben integrate.

Troilo trova doveroso esporre i curricula di questi cinque “paladini”, per offrire ai lettori gli strumenti utili per realizzare, proseguendo con la lettura del testo, delle spontanee riflessioni sulla diversità delle persone che si sono avvicendate alla presidenza e alla dirigenza dell’Iri, ente che firmò il compimento di infrastrutture, industrie e autostrade che a partire dal Secondo dopoguerra hanno favorito un miglioramento della qualità della vita degli italiani. Ma se tali furono le basi su cui si poggiò un ente di tale importanza, che cosa è mai potuto accadere tra gli anni Settanta e Ottanta per determinare il declino dell’Iri scaraventando in un remoto angolo la paternità di opere di grandi dimensioni? Dopo che la “formula Iri” (spiegata con abile sintesi a p. 101) fu apprezzata da molte nazioni e con migliaia di posti di lavoro salvati? La risposta ce la fornisce l’autore in modo chiaro e scremato da particolari simpatie nei confronti di alcune persone o partiti a scapito di altri. L’autore parla da cronista e da spettatore.

Di sicuro un forte segnale di cambiamento in negativo fu apportato dal fatto che il ricordo della guerra, sinonimo di fame, dolore e disperazione, col trascorrere degli anni si affacciava sempre meno, e le nuove leve, nate in prossimità del Secondo dopoguerra, di queste, alcune di spicco della nuova classe dirigente, hanno poco o niente pensato al bene della collettività. Il libro è talmente fitto di date, eventi, cifre, antefatti e retroscena che spinge il lettore alla riflessione su come sia difficile governare un paese, su come sia gravoso e complicato creare un raccordo tra il potere politico e le reali esigenze di mercato. 

Questo testo rappresenta, quindi, un valido contributo alla cultura degli italiani interessati e affezionati con ardore alla propria nazione, a coloro che si occupano di economia, di politica e di giornalismo. Il testo racchiude insegnamenti preziosi per non commettere alcuni errori e Troilo fornisce gli elementi per poter intuire i meccanismi distorti e poco leciti che possono innescarsi quando persone inadatte assumono ruoli strategici dell’economia (come nel caso di Camillo Crociani, nel cui curriculum, in modo evasivo e generico, riportò che proveniva dalla presidenza dell’Inapli, l’Istituto nazionale per l’addestramento ed il perfezionamento dei lavoratori dell’industria, e che ricoprì importanti incarichi in aziende private). I collegamenti, che il lettore deve virtualmente lanciare, con la politica, la storia e la cronaca sono tanti, ponti ai quali provvede con buona sintesi lo scrittore, ma ricorrere ad una certa documentazione per meglio contestualizzare gli eventi non guasta. Affinché il lettore possa aver chiaro il quadro politico e storico del periodo che Troilo considera nel suo elaborato, si rende necessario, a volte il ricorso ad approfondimenti.

Il libro è rivolto alle persone nate dopo la metà degli anni Sessanta e che non hanno avuto modo di vivere e seguire la vicenda Iri, ma anche alle persone coinvolte.

Durante il periodo in cui si sono susseguiti gli attacchi all’istituto attraverso smodate ingerenze della politica, data l’importanza rivestita dall’Iri, non sarà stato facile per tutti avere il quadro chiaro dell’amara circostanza, mentre adesso, dopo tanti anni, grazie al contributo dell’autore, si ha l’opportunità di rivedere, quasi come in rewind, tutta la storia.

 

L’economia italiana negli anni Trenta

Perché si rese necessaria la presenza di un istituto proprio come l’Iri?

Esso nacque come ente temporaneo nel 1933, per volontà di Benito Mussolini, presidente del Consiglio di allora, perché sostenesse la Banca commerciale, il Credito italiano e il Banco di Roma, sull’orlo del fallimento. La crisi economica internazionale del 1929 fece sentire i suoi effetti nel nostro paese in ritardo e con poca forza visto che la nostra economia non era sviluppata come quella di altri paesi europei, e lo stato interventista era poco incline all’integrazione nel mercato internazionale. Comunque, la produzione industriale e quella agricola iniziarono a precipitare verso la fine del 1930, le esportazioni ebbero una battuta d’arresto e la crisi bancaria corroborò sfavorevolmente questa condizione. Il sistema industriale italiano, grazie alla Prima guerra mondiale aveva ricevuto una forte accelerazione, dovuta alle commesse statali, pertanto, alla fine del conflitto si rilevò una sovrapproduzione non sostenuta da un aumento dei consumi. Le grandi banche italiane che foraggiavano le industrie, perseguendo il modello della banca mista – modello importato dalla Germania – non operavano una perfetta correlazione tra domanda e offerta di moneta a breve e tra domanda e offerta a lungo termine. Le banche finanziavano a lungo termine le industrie attingendo i capitali necessari dai depositi a risparmio, depositi che in qualsiasi momento potevano essere soggetti al ritiro. Per sopperire a questo grave squilibrio in ambito bancario, lo stato intervenne più volte accollandosi il peso finanziario delle industrie e “battendo” carta moneta (operazione quest’ultima in perfetta antitesi con la politica deflazionistica vigente in quegli anni). Un abbraccio perverso caratterizzava il contatto banca-impresa poiché un vicendevole controllo si attuava grazie all’incrocio dei pacchetti azionari e per la compresenza nei consigli di amministrazione di medesimi dirigenti.

 

La nascita dell’Iri e le sue principali attività

Nel 1931 fu creato l’Imi (Istituto mobiliare italiano), un consorzio bancario pubblico specializzato negli impieghi di capitali a lungo termine, proprio quelli necessari all’industria e alle grandi opere, e si dettarono regole più ferree alle banche. Ciò non bastò ad attenuare le forti esposizioni degli istituti di credito nel campo industriale e così nel 1933 nacque l’Iri che assorbì l’istituto in liquidazione, le partecipazioni e i debiti delle banche nelle aziende industriali: nacque lo stato imprenditore! Secondo Beneduce che, insieme a Menichella (allora presidente della Banca d’Italia), realizzò il progetto Iri, l’Italia doveva industrializzarsi e ciò poteva avvenire con una netta separazione tra banche e imprese industriali, mentre lo stato deteneva il capitale di controllo delle industrie che mantenevano la forma di sociètà per azioni. Dunque, non uno stato accentratore ma uno stato attento e pronto ad intervenire nel salvataggio e nel supporto finanziario di singole imprese.

L’Iri si presentava come una grossa entità industriale che operava in settori produttivi diversi con capitale per metà pubblico e per metà privato intervenendo con donazioni della Banca d’Italia e con i risparmi raccolti grazie all’emissione di obbligazioni a garanzia statale per veicolare ogni sforzo finanziario nella produzione industriale. Particolare interessante che caratterizza la nascita dell’Iri è la collaborazione e la stima che legarono due personaggi quali Mussolini e Beneduce; quest’ultimo fu definito dai nazionalisti una delle più grandi minacce del fascismo, mentre il Duce ne lodò l’intelligenza e le capacità, anche pubblicamente su Il popolo d’Italia. Le idee antifasciste dell’artefice dell’Iri e la sua sensatezza lo portarono a cercare una forma di collaborazione con i fascisti e non fu l’unico a voler sostenere questa possibilità. Anche Menichella, per esempio, per la sua perenne distanza dall’ideologia al potere fu considerato sempre un personaggio anomalo nel circondario dell’Iri e di Mussolini. Mattioli, banchiere e mecenate della cultura, mantenne i contatti con i dirigenti del partito comunista e insieme ad Adolfo Tino, giornalista antifascista, ebbe un posto in prima fila nella creazione di Mediobanca. Coloro che mal tolleravano la presenza di Beneduce in postazioni di rilievo dell’economia italiana dovettero poi in seguito fare i conti con la soluzione che egli apportò alla grave crisi bancaria.

In seguito l’ente diventò una superholding di diverse holding settoriali, come Stet per le telecomunicazioni, Finmare nel settore armatoriale e Finsider in quello siderurgico e nel 1937 divenne ente permanente; la possibilità data allo stato di intervenire e provvedere nell’economia italiana attraverso le partecipazioni statali era troppo attraente per Mussolini.

Le società controllate dall’Iri erano presenti in tutti i settori produttivi come siderurgia, cantieristica, industria meccanica ed elettromeccanica, gestione del servizio telefonico e della rete elettrica. Con la Seconda guerra mondiale l’industria meccanica ricevette un forte impulso a causa delle esigenze di armamenti e diversi furono gli stabilimenti localizzati nel napoletano, ma la guerra comportò la distruzione di molti dei preziosi impianti e la spaccatura dell’Iri in due tronconi, uno al nord, a Milano, sotto la sovranità della repubblica di Salò e dell’autorità militare tedesca di occupazione, e uno a Roma. Vista la matrice prettamente fascista dell’Iri, terminata la guerra fu messa in discussione la possibilità del proseguimento dell’istituto, ma sia la commissione alleata di controllo che la commissione economica dell’assemblea costituente conclusero che l’Iri era in grado di assolvere il compito di ricostruire e risanare l’economia del nostro paese.

 

I successi dell’Istituto per la ricostruzione industriale

Il periodo di massima espansione dell’istituto viene approfondito nel secondo capitolo e si tratta dell’intervallo che va dal 1948 al 1963. Decollato l’Iri, nessun aspetto sociale ed economico fu tralasciato dalla sua operatività, grazie alla squadra di tecnici presente al suo interno. È questo anche il periodo della nascita del Ministero delle Partecipazioni statali e del distacco di Confindustria dalle aziende pubbliche. Nel mirino dell’istituto rientrano anche la formazione professionale e l’integrazione Nord-Sud, e la dimostrazione fu che l’Autostrada del sole venne costruita in tempi record. Sinigaglia, padre della siderurgia italiana, realizzò un sistema innovativo riguardante l’allocazione degli impianti siderurgici sulle zone costiere in modo da facilitare l’approvvigionamento delle materie prime e il trasporto dei prodotti finiti. Gli anni Cinquanta sono caratterizzati dall’istituzione dell’Eni (Ente nazionale idrocarburi), anch’esso ente pubblico di gestione come l’Iri.

La formula Iri era guardata con ammirazione dai governi laburisti inglesi in quanto non attuava semplicemente la nazionalizzazione di imprese, ma compiva una cooperazione tra capitale pubblico e privato, dunque, un esempio positivo di intervento dello stato nell’economia. I due fattori di successo dell’Iri furono da un lato, la raccolta del risparmio privato attraverso l’emissione di obbligazione consentendo piccoli apporti da parte del Tesoro e dall’altro, lo sviluppo del management grazie alla scuola di formazione.

 

Le difficoltà degli anni Sessanta e Settanta

Gli anni Sessanta vedono incalzare il potere della Democrazia cristiana, le nomine anomale all’interno dell’ente e, inevitabilmente l’inizio di una lesione che ingigantendosi negli anni arrecherà la fine dell’ente. Da questo momento in poi ci si confronterà con le entità sindacali, con l’assenza di una regolamentazione del diritto allo sciopero e con le nomine ai vertici dell’Iri ad opera di politici ambiziosi che metteranno nell’ombra i tecnici perché ritenuti ostacoli scomodi al raggiungimento di fini propri, con salvataggi forzati e joint venture a perdere che appesantiranno il bilancio dell’istituto (sarà richiesto l’intervento di quest’ultimo anche nel settore privato salvando imprese sull’orlo del fallimento e senza la prospettiva di un possibile recupero).

Gli anni Settanta vengono segnati dallo shock petrolifero, dagli scandali che coinvolsero lo Ior (conosciuto come Banca vaticana), la lockheed corporation, Sindona e Calvi, e all’interno dell’Iri viene a mancare l’interscambiabilità dei ruoli che sin dalla nascita dell’istituto aveva rappresentato un dogma: «esempio di prevaricazione della politica sulle ragioni dei tecnici, e a un tempo della scarsa volontà di resistenza di quest’ultimi», come l’autore stesso scrive riferendosi anche ai “colpevoli” della crisi. L’esempio, la mancata chiusura dei cantieri San Marco a Trieste e Muggiano a La spezia: l’impedimento arriva dal governo che, con specifiche direttive, vieta di procedere a licenziamenti collettivi.

Giuseppe Petrilli, presidente dell’istituto dal 1960 al 1979 ed esponente della Dc, sottolineò attraverso le sue decisioni che tra i compiti che l’Iri era chiamato ad assolvere rientrava anche la funzione sociale di accollo di diseconomie provocate da investimenti antieconomici (oneri impropri). Lo stato riservava all’Iri i fondi di dotazione che provvedeva a distribuire alle caposettore (finanziarie a guida di un intero settore produttivo), ma sia per la poca consistenza dei fondi che per il ritardo nell’erogazione, l’Iri era costretta a rivolgersi alle banche per poter intervenire nei salvataggi. Così crebbe l’esposizione dell’istituto nei riguardi delle banche, esposizione che cresceva vertiginosamente vista la sicurezza e la garanzia di chi chiedeva denaro: cioè gli istituti creditizi prestavano facilmente ingenti somme di denaro all’Iri aumentando i debiti e, per il capitale da restituire e, per gli interessi che col tempo maturavano. Si pensi che Finsider solo per il 4% era finanziata da mezzi propri. Nel 1976 occorsero tredici dimissioni tra direttori e condirettori per mettere in risalto le promozioni di personaggi ambigui, ma solo la stampa premiò il coraggio e l’onestà dei dimissionari. Alcune autorità scomode, tra queste lo stesso Troilo, vennero trasferite presso altri uffici, pur sempre dell’Iri, ma lontani dalla sede centrale.

Ampio spazio l’autore dedica alle occasioni mancate, cioè ad investimenti non attuati a causa della poca lungimiranza di persone che all’epoca erano ai vertici dell’Iri; si tratta della televisione a colori, dell’elettronica e del nucleare. Scrive l’autore: «Ugo La Malfa considera la tv a colori un lusso superfluo e arriva a minacciare la crisi del governo Colombo se si decidesse di introdurla». Donat Cattin, dichiaratamente favorevole e con dati alla mano, mostra la domanda di televisori in Italia, la possibilità di dare linfa all’industria e all’economia, ma nessuno gli dà credito. Il voler restare a tutti i costi fuori da opportunità di competitività ha lasciato il nostro paese in una posizione di acquirente e mai di produttore.

Altra tappa importante della storia dell’Iri, descritta da Troilo nell’ultima parte del libro, è il documento dei funzionari che raccolse l’attenzione generale e ribadì il ruolo dell’Iri, criticò operazioni ed insediamenti di persone poco esperte, proposte e nuove iniziative per un recupero di quelle che erano le mansioni di partenza dell’ente: accrescere l’utilità e diminuire i costi delle aziende. I vertici non dicevano no alle richieste assurde dello stato, perché? Perché le alte cariche erano nominate dal potere politico. Quel documento rappresentava un urlo di protesta e di disperazione da parte di funzionari e dirigenti che, assunti intorno alla metà degli anni Cinquanta, lavoravano con la convinzione di portare a termine una vera e propria missione. La Dc ricevette forti accuse perché ritenuta responsabile della degenerazione del sistema Iri, proprio perché forti furono le ingerenze da parte del partito attraverso nomine di personaggi non idonei a ricoprire i ruoli chiamati a rivestire ma dopo anni di discussioni, dibattiti e interrogazioni, dalla primavera del 1978 (morte di Aldo Moro) il problema dell’istituto e della possibile riforma delle partecipazioni statali persero di consistenza: iniziò a prendere forma l’idea delle privatizzazioni.

 

Dalla privatizzazione alla chiusura

Agli inizi degli anni Ottanta i conti dell’Iri erano in rosso e rumoreggiava l’alternativa delle privatizzazioni come una possibile cura. Troilo qui si ferma, trattare le privatizzazioni sarebbe stato un lavoro corposo e di spessore che non è pronto a compiere, vista l’enorme mole di documenti da dover prendere in visione. Al termine del suo trattato smette i panni del cronista, osservatore attento, e scrive con un pizzico di nostalgia, perché a causa della forza di alcuni uomini e della debolezza di altri un istituto solido e valido cessa di esistere travolto da scandali e deficit di bilancio. Certo è che, alla luce della legge antitrust e della normativa Cee in merito alla vigilanza, sarebbero state necessarie molte riforme.

Nel 1982 la presidenza dell’Iri passò a Romano Prodi, un economista alla guida della superholding che segnò la cessione di molte aziende del gruppo tra cui l’Alfa Romeo, la diminuzione di dipendenti, lo scambio tra alcune aziende tra Stet e Finmeccanica e la tentata vendita di Sme al gruppo Cir di Carlo De Benedetti. Il risultato fu che Prodi portò nel 1987 il bilancio dell’istituto in utile anche se Enrico Cuccia non fu della stesso parere: «nel 1988 ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti». Intanto, il processo di unificazione europea e il passaggio alla moneta unica avevano posto l’Italia nel mirino della Commissione europea che contestava la garanzia dello stato sui debiti delle aziende siderurgiche e l’assenza di gare d’appalto per i lavori pubblici da affidare alle aziende facenti parte del gruppo stesso. Nel luglio del 1992 Iri, Efim ed Eni vengono convertiti in società per azioni, mentre un anno dopo Karel Van Miert, commissario europeo alla concorrenza, contesta l’erogazione di fondi pubblici finalizzati alla copertura dei debiti dell’Efim. Per venire incontro alle esigenze del nostro paese, Van Miert stipula con il ministro del Tesoro di allora, Beniamino Andreatta, un accordo in base al quale lo stato italiano pagava i debiti dell’Efim, ma nello stesso tempo si doveva dare ampio spazio alle privatizzazioni (Corriere della sera del 28 luglio 1993 così titola: «Bruxelles sì agli aiuti se partono le dismissioni»). Nell’estate del 1993 viene approvato dal governo il decreto di privatizzazione per Agip, Comit, Credit, Enel, Ina e Stet. In seguito il Ministero del Tesoro nel 1997, raggiunti i livelli di indebitamento fissati dall’accordo Andreatta-Van Miert, incarica il consiglio di amministrazione dell’Iri di provvedere alle ultime privatizzazioni e di chiudere l’istituto entro tre anni.

Resta da dire, riportando le parole di Enrico Manca pronunciate durante l’incontro dibattito organizzato in occasione della presentazione del libro a Radio radicale, il 21 ottobre 2008, che in Italia sarebbe da riproporre una forma rinnovata di intervento pubblico ma a due condizioni: la prima, che non dovrebbe scadere nello statalismo penalizzando il mercato oltre che a regolarlo e la seconda, data dalla necessità, che i progetti travalichino i confini del nostro paese. A poca distanza dalla fine dei lavori di privatizzazione si torna a tratti a parlare di ruolo dello stato nell’economia, infatti, in concomitanza all’uscita del libro, Sarkozy annuncia la formazione di un fondo sovrano da far intervenire in aiuto di aziende strategiche in difficoltà e, sia in Germania che in Olanda, vengono nazionalizzate due banche. Ovviamente, oggi i tempi e le condizioni sono ben diversi da quelli che caratterizzarono gli inizi dell’operatività dell’Iri, i mercati non sono più locali, l’Italia non è povera di infrastrutture e la politica non è più destinataria della fiducia del popolo, oggi i veri protagonisti dell’economia sono la globalizzazione dei mercati e l’innovazione degli strumenti finanziari. Dopo aver conosciuto la totalità dell’ingerenza dello stato nell’economia e il suo opposto, le privatizzazioni, inevitabilmente la strada da imboccare sarà quella della compresenza pubblico-privato destinando allo stato l’attività di dettare delle regole e di farle rispettare.

Troilo manifesta una particolare fierezza, spessore e onestà intellettuale nel trattare e raccontare da giornalista e osservatore fatti e vicende che in qualche modo lo hanno visto coinvolto. Nel 2005 dell’autore è stato pubblicato La guerra di Troilo (Rubbettino): il 27 novembre 1947 il prefetto di Milano, Ettore Troilo, padre di Carlo e comandante partigiano (Brigata Maiella, amico e collaboratore di Giacomo Matteotti) fu rimosso dal suo incarico dal ministro dell’Interno Mario Scelba e sostituito con un funzionario di carriera statale e retaggio del regime fascista. Il potere centrista, instauratosi nel dopoguerra, guardava con diffidenza una figura, quale quella di Ettore Troilo, che incarnava lo spettro del comunismo. La sinistra insorse e il giorno dopo migliaia di partigiani occuparono per protesta la Prefettura. Il ministro all’insediamento rispose con lo stato di assedio. Anche con questo libro Troilo ricostruisce con grande professionalità giornalistica i retroscena di una vicenda che, seppure per un giorno ed una notte, hanno tenuto l’Italia intera in un grave stato di tensione. 

 

Sapienza Cama

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 34, giugno 2010)
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