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Direttore editoriale: Natalia Bloise
Anno IV, n. 34, giugno 2010
Impegno dei singoli,
scelte responsabili:
l’ampia questione
sul tema dei rifiuti
di Eliana Grande
Città del sole propone una riflessione
sul problema dell’impatto ambientale
«La storia ha inizio qualche tempo prima del fatidico novembre del ’97, quando per obblighi di legge chiesi di svolgere il servizio civile in sostituzione del più diffuso servizio di leva nella città dove son venuto al mondo». Con queste parole Salvatore Procopio introduce alla lettura de Il mio rifiuto (Città del sole, pp. 104, € 10,00).
L’autore, nato a Catanzaro, laureato in Fisica sanitaria e attualmente operante presso l’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Calabria, è attivo da anni nell’ambito della ricerca scientifica riguardo alle tematiche ambientali, attraverso collaborazioni con importanti centri del settore e numerose pubblicazioni.
Fin dal primo approccio, il titolo e la scelta del registro rivelano l’intento di tutto il libro: parlare al lettore in maniera semplice e chiara, senza fronzoli o artifici di alcun tipo. Per far questo, Procopio accetta di partire dalla propria esperienza, raccontando la sua testimonianza e il suo impegno di singolo per arrivare direttamente alla coscienza individuale di ciascuno. E senza girarci troppo intorno va a toccare subito il centro del problema, che potrebbe essere emblematicamente individuato in questa espressione: «L’uomo e il suo rifiuto: una relazione complessa».
Responsabilità e impegno
Vogliamo dare al titolo di questo libro una duplice interpretazione. Da una parte, infatti, “il mio rifiuto” potrebbe essere, concretamente, la consapevolezza dell’impatto che io, semplicemente come singolo individuo, produco sull’ambiente circostante, attraverso i miei consumi e le azioni quotidiane. In questo caso la definizione avrebbe un carattere oggettivo e pratico, finalizzato a favorire un’assunzione di responsabilità nei confronti del mondo circostante, nel quale sono immerso, e delle altre persone con cui lo condivido. Dall’altra parte, metaforicamente e più in astratto, “il mio rifiuto” può diventare il mio “no”, la mia manifestazione di dissenso nei confronti di una mentalità limitata e miope. In base a tale ottica le risorse naturali non sono altro che un possesso da sfruttare senza alcun ritegno etico nei confronti del prossimo né la minima dose di lungimiranza necessaria per comprendere quanto tale atteggiamento sia autodistruttivo e controproducente. Tutti, infatti, siamo coinvolti in un legame di interdipendenza con il nostro pianeta, fonte di sostentamento per il corpo, attraverso il cibo, l’acqua, l’aria, e – perché no? – anche per l’anima, almeno per quanti credono nella sua esistenza e, spesso, trovano motivo di riflessione profonda, gioia e serenità nella semplice contemplazione della natura. Rifiutandomi, dunque, di continuare ad alimentare un simile modo di pensare e vivere, alla prima presa di coscienza sulla mia personale responsabilità ne faccio seguire una seconda, ovvero quella della necessità del mio impegno concreto e fattivo in una direzione alternativa.
Entrambe le interpretazioni che abbiamo voluto fornire, oltre a non escludersi a vicenda ma, anzi, rappresentando l’una il completamento dell’altra, sono accomunate da uno stesso elemento: la consapevolezza della chiamata in causa di ciascuno, nessuno escluso, a fare la propria parte per affrontare la cosiddetta “questione ambientale”.
Smaltire non basta, bisogna ridurre
Ma ecco che dal pungolo dell’autocritica e dal peso della responsabilità arriva ben presto quella che viene ormai considerata da più parti la panacea allo spinoso problema dei rifiuti: la raccolta differenziata. E a breve distanza segue l’altro rimedio universale: il famoso riciclaggio. Come se il punto centrale, risolutivo della questione fosse lo smaltimento. Con lucida ironia Procopio definisce “rifiutomania” il curioso assillo che sembra tormentare molti amministratori locali riguardo alle modalità di tale smaltimento, mostrando come «L’unica risposta terapeutica praticata per contenere l’espandersi di questa patologia è stata e continua ad essere l’accanimento differenziato, trascurando ogni altra cosa».
L’invito alla riflessione, dunque, non è sulla validità e l’importanza della separazione dei rifiuti e il riciclo degli stessi, cose ormai assodate che l’autore non solo non discute ma anzi promuove, bensì sull’opportunità di «sensibilizzare e informare l’opinione pubblica» a monte, su quale sia la radice del problema, ricordando in primo luogo dati di fatto troppo spesso sottovalutati e trascurati a dispetto della loro cristallina ovvietà, come ad esempio che: «Il miglior smaltimento rimane la mancata produzione» e che «la forma migliore per gestire i rifiuti è quella di non produrli».
Una società dell’“usa e getta” come la nostra non può non comportare come inevitabile conseguenza una quantità indiscriminata di materiale superfluo che, dopo una brevissima vita, si trasforma in rifiuto da togliere necessariamente di mezzo. Separare, smistare, riciclare tale massa è importante ma non basta, la responsabilità da assumerci dovrebbe coprire un raggio più ampio: «Bisogna comprare meno rifiuti praticando acquisti consapevoli, volti alla riduzione degli imballaggi, soprattutto quelli inutili, in attesa di norme che ne consentano l’eliminazione». E dopo aver gettato i propri rifiuti è necessario «preoccuparsi del destino ultimo di tutte le frazioni da noi separate e delle condizioni di sicurezza degli operatori anche senza essere degli ispettori. La pratica della raccolta differenziata senza queste credenziali prioritarie ci rende tutti farisei al cospetto della natura».
L’indifferenza e l’«arte del non sapere»
Le logiche dell’accumulo e dell’accaparramento, la politica dello sfruttamento a oltranza non solo delle risorse naturali ma anche degli esseri umani, tanto avversata nelle parole ma altrettanto pervicacemente praticata nei fatti, non hanno portato buoni frutti. Anzi, ormai possiamo affermare con cognizione di causa che tali frutti ci stanno intossicando, sotto tutti i punti di vista.
E sebbene, come scrive Procopio, «l’arte del non sapere si pratica a partire da una rigorosa selezione di quello che non conviene sapere», ormai è diventato ben difficile nascondersi dietro a un dito: gli alibi dell’ignoranza e dell’esagerato allarmismo non reggono più.
Alla fine del 2009 i leader di tutto il mondo si sono riuniti a Copenhagen per confrontarsi sulla questione dei cambiamenti climatici.
Il 1° gennaio 2010, in occasione della Giornata mondiale della pace, Benedetto XVI ha invitato a riflettere sulla relazione e sull’interdipendenza fra rispetto del prossimo e rispetto dell’ambiente, sottolineando l’auspicabilità di una sempre maggiore e più diffusa “coscienza ecologica”.
E, soprattutto, ormai non si contano più le vittime delle catastrofi naturali che continuano ad abbattersi sul pianeta in conseguenza – anche – del progressivo danneggiamento e dell’abuso dell’ecosistema ad opera dell’uomo.
Difficile giustificare ancora l’indifferenza. Forse, a questo punto, non è nemmeno una questione etica o morale: continuare a mantenere occhi e orecchie chiusi di fronte a tutto questo svilisce l’intelligenza umana e il più elementare istinto di autoconservazione.
Eliana Grande
(www.bottegascriptamanent.it , anno IV, n. 34, giugno 2010)
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