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Direttore editoriale: Mario Saccomanno
A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Vite in bilico
tra solitudine
e alienazione
di Cecilia Rutigliano
Da Città del sole edizioni
storie di ordinaria routine,
viaggio nel cuore umano
Osservare la realtà con la lente di ingrandimento, per metterne in evidenza le storture e gli aspetti più brutali. Fabrizio Arnò sembra un moderno Dante a cui tocca la discesa nelle profondità degli inferi di quell’umanità a cui è stato sottratto ogni senso di compassione e di pietà. Ma l’autore non ha bisogno di affrontare un viaggio nell’aldilà, né gode della presenza di un Virgilio che faccia da filtro tra ciò che “vede” e ciò che descrive. Il risultato? Schiettezza e violenza a tratti disarmanti nel suo libro Il crepuscolo degli dei edito da Città del sole edizioni (pp. 264, € 14,00). Lo scrittore vincitore di diversi premi letterari (l'Anassilaos, il Fata Morgana e il Reghium Julii - Città dello stretto) per le sue liriche – Itinerari sotterranei e Cenere dopo cenere, editi da Città del sole – fa una vera e propria scommessa narrativa, misurandosi con un genere che rappresenta una strada poco battuta nel panorama editoriale e letterario contemporaneo: il racconto.
Il ritratto di un tramonto annunciato
Con Arnò la narrazione breve si rivela lo strumento più adatto ad un’analisi discontinua e parziale dell’esistere, il filtro che coglie le contraddizioni della storia e le evoluzioni della società. Già nel titolo, che rievoca la quarta opera della tetralogia wagneriana, l’autore anticipa e riassume l’assunto aprioristico su cui si basano i suoi ventinove racconti: gli uomini sono al loro crepuscolo e nulla riuscirà a flettere altrimenti questo crudele destino. Il crepuscolo degli dei, infatti, è una storia – o meglio, un insieme di storie – che narra come gli umani agiscono da soli quando nessun dio, valore, punto di riferimento sono pronti ad intervenire. Il filo conduttore che lega tra loro queste narrazioni è il senso di sradicamento, di alienazione, di annientamento e di emarginazione che accomuna i diversi protagonisti: dalla coppia rampante della società perbenista che domina il primo racconto – Interno di coppia – all’uomo pronto a togliersi la vita per salvare quella di una persona cara – in Stanza 156 – ai fidanzatini tossicodipendenti di Underground a cui la notizia della vittoria della lotteria milionaria si limita a regalare poco più di un istante di fatuo desiderio di cambiamento. Personaggi patogeni, dunque, che tentano di esorcizzare lo squallore e l’insignificanza delle proprie vite rifugiandosi in un labirinto contorto di falsi valori.
Una raccolta di racconti da Beat generation
Queste narrazioni – in cui “umano” è spesso sinonimo di “vuoto”, o meglio, di “svuotato” – affondano le proprie radici nella lezione della Beat generation.
Beat come beatitudine, quella ipocrita del misticismo indotto dalle droghe, dagli incontri carnali, dalla sessualità distorta; beat come sconfitta, causata dalle costrizioni della società e delle sue sovrastrutture; beat come ribellione, frenetica e masochista, agli schemi imposti. Beat come Charles Bukowski, William Burroughs, Allen Ginsberg e Jack Kerouac, che Arnò risuscita, nel senso letterale del termine, nel racconto eponimo che compare tra le prime pagine del suo libro e che vede per protagonisti i padri fondatori di quel variegato movimento culturale sviluppatosi in America – spesso sfondo di queste intense storie – nel Secondo dopoguerra.
Da loro il nostro scrittore impara anche a purificarsi dalle regole della prosa tradizionale, dando vita a narrazioni spontanee, caratterizzate da una parola violenta e feroce, tanto quanto la realtà del mondo che ritrae. Un linguaggio dissacrante e anticonvenzionale, quindi, in cui convivono il comico e il tragico in un gioco in cui il comico è tale proprio perché è tragico. Nel susseguirsi dei racconti – a volte fulminei (come L'ovvio e Il desueto), altre più distesi (come La vita è una cosa meravigliosa) – quella che emerge è una realtà in cui trovano posto stupri, incesti, edipismi irrisolti, suicidi e ipocrisie tanto più atroci quanto più si insinuano nella “normalità” della vita quotidiana.
È proprio questa la forza de Il crepuscolo degli dei: la capacità di catapultare il lettore in una dimensione non lontana dalla propria, facendo germogliare il dubbio che quello che si percepisce ogni giorno nelle attività più consuete e abitudinarie non sia nient’altro che una maschera, uno specchio che, mentre riflette l’accettabile, nasconde alle spalle verità agghiaccianti.
In questo Arnò si avvicina molto alla generazione di quegli scrittori italiani contemporanei – Niccolò Ammaniti, Aldo Nove o Simona Vinci – che tendono a ritrarre personaggi “disturbati” come se fossero le singole celle di una prigione che ospita anime dannate, provando a percepirne e descriverne le ossessioni: residuo ultimo della vitalità che le caratterizza.
Cecilia Rutigliano
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 34, giugno 2010)