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Comunicazione e Sociologia (a cura di Marilena Rodi) . Anno IV, n. 34, giugno 2010

Zoom immagine Sud del globo:
tra malgoverno
e feroci guerre

di Alessia Rocco
Infinito edizioni: un reportage
storico-politico sul malessere
dei paesi poveri della Terra


Esiste un “Meridione del mondo”, in cui la vita è una scommessa e la dignità delle persone può essere definita un lusso troppo spesso umiliato o addirittura negato.

Il saggio di Luca Leone Uomini e belve. Storie dal Sud del mondo (Prefazione di Enzo Nucci, Infinito edizioni, pp. 176, € 13,00) è un reportage su alcuni di quegli  innumerevoli “sud del mondo” in cui la vita è una scommessa e la dignità delle persone può essere definita un lusso troppo spesso umiliato o addirittura negato. Il testo è suddiviso in tre sezioni, si parte dall’Europa, poi Africa e America, e per ciascuno dei tre continenti, l’autore offre testimonianze rese da coloro che hanno vissuto sulla propria pelle la sofferenza, il martirio, l’atrocità della guerra o della povertà.

 

Europa

È l’Europa, con la gravissima situazione dei Balcani, a dare l’incipit, a questo saggio politico-sociale che tratteggia, con lucidità ed un senso di assoluto sdegno, la bestialità che l’uomo riversa sui propri simili. Si parte con la guerra cecena, che ha conosciuto due fasi diverse dello stesso conflitto, la prima svoltasi dal 1994 al 1997, la seconda dal 1999 al 2006; un conflitto, quello ceceno, nato dapprima per l’acquisizione dell’indipendenza dalla Russia, ma che palesa ragioni ben più prosaiche, ovviamente economiche, visto l’enorme bacino petrolifero sul quale la Cecenia galleggia e data l’importanza strategica della regione per ciò che concerne il pompaggio ed il passaggio di oleodotti e gasdotti che devono raggiungere l’Europa occidentale. Del conflitto ceceno, le cancellerie d’Europa non si sono curate affatto, nonostante Mosca abbia trasformato la regione in un mattatoio a cielo aperto e rifiutato qualunque possibilità di negoziato. Un’area, quella caucasica, interessata da una enorme tensione che, se non domata, non porterà ad alcuna risoluzione della crisi in Cecenia, come spiega Eliza Mussaeva, che dal 2000 al 2004 è stata alla guida della sezione cecena dell’Associazione “Memorial”, la più importante fondazione russa per i diritti umani.

Nel libro di Leone, pagina dopo pagina, si comprende chiaramente come a pagare il prezzo più alto durante le guerre, siano le donne. Come Tsiuri Kitoshvili, dissidente georgiana, in fuga dalla spaventosa realtà della sua terra, che nel 1991 subisce un colpo di stato militare contro il presidente Zviad Gamsakhurdia, fautore dell’indipendenza della Georgia dalla Russia. A quest’ultimo subentra Eduard Ševardnadze, ed il paese viene dilaniato dai sostenitori dell’una e dell’altra parte politica. Tsiuri, che convive con una malattia invalidante, è costretta a fuggire. Attraverso enormi difficoltà e dopo mille peripezie approda in Italia, a Nettuno, cittadina balneare alle porte di Roma, dove però è costretta a fare i conti con altre belve, quelle italiane, che le affittano una topaia ammuffita, dove non si darebbe ricovero nemmeno ad un animale. Afferma a tal proposito: «Non serve andare ad ammazzare persone in Africa per essere delle belve. Il cuore di un popolo lo si vede anche da una topaia di Nettuno, affittata ad una donna malata. È un cuore piccolo e cattivo, nero da sembrare pece… è un cuore da belve».

E come poter dimenticare, in questo viaggio della memoria, le donne di Srebrenica, che, durante il genocidio perpetrato dalle truppe serbo-bosniache nei confronti dei bosniaci, hanno perso tutto ciò che di più caro avevano al mondo, figli, mariti, padri e madri e spesso non hanno potuto nemmeno seppellirne i corpi. Quelle madri hanno dovuto vivere lo scempio del sopravvivere ai propri figli. Quelle stesse donne hanno subito violenze psicologiche e fisiche di ogni tipo. Sono state vittime di sevizie, stupri. Comune denominatore di tutte queste storie è il dolore, lancinante, eterno, di chi ha camminato al fianco della morte ed è scampato ad essa solo per caso.

 

Africa

Burkina Faso, Eritrea, Etiopia, Liberia, Sierra Leone, Togo: l’Africa è un continente dilaniato, ferito a morte.

La Sierra Leone è un paese distrutto dalla guerra civile, alimentata dalle potenze occidentali, attirate dalle miniere di diamanti e dai giacimenti di rutilio cui la Sierra Leone è colma. Come sempre, le opportunità economiche e politiche sottendono all’interessamento delle nazioni più ricche nei confronti di luoghi del mondo più poveri, che la natura ha però dotato di straordinarie ricchezze minerarie.

Così come è accaduto nel conflitto tra Etiopia ed Eritrea, paesi che, vissuti in pace fino al 1993, hanno poi dato inizio, nel 1998, ad un conflitto fratricida costato la vita a centinaia di migliaia di persone. Una guerra, quella tra Etiopia ed Eritrea, nata per la città di Badme, un pezzo di sabbia al confine, come la definisce l’autore, la punta più settentrionale dell’area di delimitazione che divide i due stati. A causare il conflitto, secondo i due governi, sarebbero state le divergenze circa la demarcazione della linea di frontiera. Ma anche questa guerra, come sempre accade, è stata foraggiata dagli stati occidentali che nutrono grossi interessi nel Corno d’Africa, come ad esempio il controllo dei porti che si affacciano sul Mar Rosso, la costante pressione politico-militare sull’Etiopia e non ultimi i proventi della vendita delle armi. E tra questi paesi “finanziatori” c’è anche l’Italia che secondo don Valentino Savoldi, docente universitario e profondo conoscitore dei problemi del Corno d’Africa, «a causa del suo passato coloniale dovrebbe impegnarsi di più per la pace, e invece...».

Elementi fondamentali per il futuro dell’intero continente, sono le donne, che da sempre hanno ricoperto un ruolo di rilievo nella vita sociale ma che oggi, sempre più schiacciate dalla mancanza di scolarizzazione e assistenza sanitaria, vivono, in determinate aree del continente, una condizione di totale sottomissione al potere familiare e, soprattutto, maschile. Nel Burkina Faso, ad esempio, molte donne sono vittime, fin dalla più tenera età, di orribili mutilazioni genitali tra le quali l’infibulazione, che, a dispetto di ciò che si crede, non è retaggio di tipo religioso bensì culturale: il maschio è considerato l’unico detentore del piacere sessuale e la donna, a causa della mutilazione, desiste dal tradire il compagno. Le mutilazioni genitali, spesso effettuate in assoluta mancanza di misure igieniche, sono portatrici di gravissime infezioni e di morte. Purtroppo queste donne non sono messe in condizione di potersi liberare dal giogo dell’oppressione poiché non padroneggiano gli strumenti culturali per emanciparsi. Allora molte di esse si prostituiscono nella speranza, vana, di poter conquistare almeno una certa indipendenza economica dalla famiglia di origine. L’aiuto del mondo alle donne africane potrebbe concretizzarsi in una progettualità che favorisca, come afferma l’autore, «la loro presa di coscienza, senza volerne stravolgere le radici culturali ma gettando semi che possano portare a una conseguente crescita civile e sociale di un intero genere, attualmente lasciato a guardare un continente che va alla sfascio».

 

America

L’autore, all’inizio del capitolo dedicato all’America, chiede al lettore se egli non sia sorpreso che si cominci a parlare di belve nel continente americano, partendo dal Canada, considerato un paese civile. Eppure le belve possono annidarsi anche in uno stato evoluto, dove, a dispetto di tanto progresso, vengono costantemente annientati i diritti civili dei nativi. Questi ultimi sono gli Innu, originari del Labrador-Quebec, comunità anticamente nomadi, costrette invece dal governo canadese a vivere, stanziali, nelle riserve. Il fatto che gli Innu si recassero nei boschi per cacciare, come da tradizione tramandata dagli avi, entrava in conflitto con le attività di sfruttamento minerario e di sviluppo industriale del governo e delle tante compagnie private. Ecco perché il potere politico li ha costretti a mutare consuetudini millenarie. Oltre a questo, gli Innu non possono svolgere, nelle zone loro riservate, le tradizionali attività di caccia, a causa delle esercitazioni aeree a bassa quota effettuate dalla Nato in quei territori. Gli aerei volano bassi e fanno scappare gli animali, unico sostentamento di questa antica popolazione, stravolgendo completamente la vita quotidiana degli indigeni. Afferma l’autore: «Tutti i giorni vediamo i nostri ultimi, gli ultimi del mondo opulento che naviga con grandi barche dorate su mare di escrementi, trascinarsi e morire nelle nostre strade, sulle panchine delle fermate della metropolitana o dell’autobus, per terra su giacigli di fortuna. A volte invece, sono nascosti e bisogna andarli a cercare. Questo è uno di questi casi». Questo è il caso degli Innu.

Leone conclude il suo saggio analizzando la situazione di Cuba, dell’Ecuador e della Bolivia.

La prima affronta, dal 1962, un embargo durissimo deciso dagli Stati Uniti, che ha prostrato il paese e che ha favorito l’immigrazione clandestina dei cubani in territorio statunitense. Infatti, gli Stati Uniti non concedono ai cubani i visti per entrare nella loro nazione, tuttavia nel momento in cui questi ultimi arrivano sulle coste nordamericane, non vengono respinti, come accade per esempio ai messicani, ma viene riconosciuto loro il diritto legale a restare. L’immigrazione irregolare è quindi incentivata, anche se, per emigrare, molti cubani rischiano la vita in mare. Nonostante la difficile situazione interna, Cuba possiede ottime strutture ospedaliere e personale medico e infermieristico di altissimo livello. La Chiesa cattolica può svolgere il proprio lavoro in assoluta libertà, senza mai subire censure. Il problema di Cuba sono i giovani, come afferma Gómez Santos, ambasciatore cubano presso la Santa sede, poiché essi sono condizionati dai pessimi esempi che entrano nel paese attraverso il turismo, soprattutto italiano, spagnolo e tedesco. Un turismo che dovrebbe essere volto al godimento delle bellezze naturali che Cuba possiede, anziché concentrarsi sullo sfruttamento sessuale di parte della popolazione, importando quindi nello stato cubano, modelli comportamentali che ne compromettono l’equilibrio.

Per quanto riguarda l’Ecuador, Leone si sofferma sul problema della comunità Kichwa, stanziata nel territorio del Sarayacu, la quale ha visto la propria terra, ricca di greggio, sfruttata dalle compagnie petrolifere, grazie anche alla complicità di alcune comunità indigene che hanno ceduto alle lusinghe degli stranieri in cambio di danaro. Sempre la stessa storia, un paese povero svuotato dall’avidità dei paesi ricchi.

La Bolivia conclude il viaggio di Leone nei “sud del mondo”. L’attenzione si concentra sui ragazzi di La Paz, abbandonati al proprio destino, vessati dalla vita, in un paese in cui, forze dell’ordine corrotte, in cambio di denaro, chiudono tutti e due gli occhi dinanzi ai furti di questi giovani allo sbaraglio di cui nessuno si cura, che respirano colla per stordirsi, che vivono come randagi, esposti ad ogni sorta di pericoli. Eppure in Bolivia c’è un buon codice infantile che tutela i diritti dei bambini di strada, come afferma padre Alessandro Fiorina, un sacerdote cattolico di Bergamo, che dal 1991 è qui missionario. Il problema è che la legge non viene applicata perché manca la volontà di farlo. Padre Alessandro definisce la vita di questi ragazzi un vero e proprio “girone dantesco”. Lui, abituato a siffatte realtà infernali, non può fare altro che sostenere, confortare, stare accanto a quelli che sente come figli, come fratelli, fino a quando Dio vorrà, senza mai tirarsi indietro.

 

Lo stile narrativo

Il libro di Leone racconta, come in un reportage giornalistico, le tragiche realtà di terre e popoli lontani fra loro, eppure così vicini nel dolore e nella condivisione della umana tragedia, della miseria e della perdita dei diritti fondamentali. È un testo indignato quello di Leone, che non fa sconti all’occidente avido, alle logiche bieche di potere che muovono le fila della politica mondiale e dell’economia, in spregio totale degli interessi delle minoranze, delle categorie più deboli della società, delle aree più depresse di questo pianeta, fagocitate nel rutilante e inesorabile meccanismo della legge del più forte.

Uomini e belve. Storie dai Sud del mondo è un racconto accorato, scevro da qualunque pateticità, reale e crudo. La prosa è scorrevole, colloquiale, riflessiva. L’autore scava a fondo nelle ragioni che sottendono a qualunque evento, dando al lettore la possibilità di riappropriarsi di quelle verità che troppo spesso vengono dolosamente celate. Leone sprona il lettore al ragionamento accurato, profondo, scoperchiando la pentola dell’orrore, della perversione più cruenta, smascherando le belve che si nascondono nell’animo umano, chiamando per nome i carnefici, guardando invece, con “pietas” umana le vittime, segnate per sempre dalla cattiveria, dal razzismo, dall’indifferenza.

Questo è un libro di storia, quella recente, che ci ha visti protagonisti, seppur involontari e spesso distratti; è un saggio politico, economico, sociale, che parla alla pancia e al cuore della gente; è il racconto, come dice lo stesso Leone «del nostro antropocentrismo di comodo, condito di razzismo e cinismo verso i “tanti altri” che popolano i cinque continenti. Ma il disastro è ancora reversibile. Bisogna trovare il coraggio di guardare negli occhi la bestia che è in noi e attorno a noi e sfidarla. Vincerla».

 

Alessia Rocco

 

(www.bottegascriptamanent.it , anno IV, n. 34, giugno 2010)
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