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Anno IV, n. 34, giugno 2010
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Problemi e riflessioni (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno IV, n. 34, giugno 2010

Zoom immagine La coraggiosa denuncia
di una brutale dittatura

di Serena Poppi
Per Iacobelli, due testimoni raccontano una realtà
scomoda da accettare, perché spietatamente vera


«[…] visto che non abbiamo potuto ucciderli quando li abbiamo presi, li faremo impazzire».

Quella frase ha condizionato 13 anni della vita di Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro. Ruso e Nato, anni vissuti da ostaggi, ma sarebbe meglio dire prigionieri politici, in condizioni inumane tali che i confini tra  realtà e immaginazione svanivano. Era necessario costruire un altro universo con l'immaginazione, ma che operasse con delle leggi, come quello reale, perché il rischio di impazzire, come successe a molti dei loro compagni arrestati precedentemente, militanti del Movimiento de Liberación Nacional, (un'organizzazione di guerriglia urbana, attiva in Uruguay tra gli anni ‘60 e gli anni70), era sempre presente, vicino, si insinuava falsamente come fosse una sorta di protezione da quella realtà davvero impossibile da accettare. Passavano le giornate senza avere la più pallida idea di che ora fosse, ogni spostamento, fuori dalla cella, veniva effettuato con le mani legate e un cappuccio sporco e pesante in testa, sopportavano botte, insulti e torture di vario tipo, erano privati dell'acqua, dell'aria, mangiavano in un piatto in cui si poteva trovare di tutto, dal fango alle sigarette, “gentilmente offerte” dalle guardie carcerarie. La cella (il “calabozo”), alta 180 centimetri e profonda 120, diventò una sfida al contorsionismo, alla fantasia, perché, oltre ad essere priva di finestre, era priva di tutto. Questa descrizione basterebbe per giustificare la voglia di riscatto da parte di chiunque debba aver sopportato ciò, ma Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro con Memorie dal calabozo, 13 anni sottoterra (Iacobelli editore, pp. 324, €14,00) raccontano gli anni vissuti in quelle condizioni come una testimonianza alla vita, senza desiderio di vendetta, ma proprio per riaffermare la bellezza di quegli aspetti dell’esistenza che, in situazioni normali, tendiamo a dare per scontati: primo fra tutti il comunicare. Ne è esempio lo stile utilizzato per questi racconti, che paiono la trasposizione esatta di chiacchiere fra amici, in cui emergono ricordi che ognuno modifica un po' a seconda di come li ha assimilati, ma che, nell'insieme, ricostruiscono quella che è stata l'esperienza più dura vissuta nella loro vita.

 

In biblioteca

Un'esperienza che ha costretto i due a trovare sempre nuove risorse per sopravvivere e non alienarsi, come utilizzare frammenti di carta stampata per avere informazioni su ciò che succedeva nel mondo. Nei bagni comuni venivano adoperati giornali per la propria igiene personale e poiché, spesso, i soldati dimenticavano di buttarli via dopo averli usati, era possibile, non visti, raccoglierli e leggerli in seguito. Questa situazione rappresentava la principale fonte di informazioni sul mondo esterno: riuscire a leggere intorno agli escrementi significava dover terminare a piacere una frase o inventare l'inizio di un'altra; si completava, poi, la notizia con l'immaginazione. Per 10 anni riuscirono a formare la propria cultura grazie alle latrine delle caserme.

 

Colonnello Coca-Cola

La dittatura militare in Uruguay, dal 1973 al 1985, si rivelò fra le più violente e aberranti; individualità ambiziose e sadiche concorsero a formare responsabilità collettive che culminarono in eventi atroci e omicidi orrendi. Inutile chiedere aiuto a un soldato: «il soldato che pensa sbaglia […]. Nell'esercito bisogna ordinare cose assurde per coltivare scientificamente la disciplina». Il carcere uruguaiano, infatti, aveva come secondini una casta di mercenari professionisti, con il diritto alla pensione. La minaccia di licenziamento era determinante affinché si creasse, nell'esercito, una relazione di sudditanza molto forte nei confronti dell’ufficiale, che, quindi, era libero di fare ciò che voleva. Così la tortura poté essere applicata da tutte le unità militari della nazione. Dopo anni di servizio, era previsto che le forze armate inserissero ex soldati in uffici pubblici o industrie private, molti colonnelli finirono, ad esempio, per lavorare presso la Coca-Cola. Fu la forza dell'ironia che spinse Rosencof a dire: «[…] negli Stati Uniti c'è un General Electric e un General Motors. Noi qui, modestamente, abbiamo un Colonnello Coca-Cola».

 

Nell'al di là del muro

Un aspetto difficile da collocare tra il Bene e il Male era la possibilità per i prigionieri di ricevere visite dalle proprie famiglie. Lo scopo delle forze militari era, ovviamente, di propaganda della propria crudeltà, come monito per gli altri oppositori considerati sovversivi dal regime, ma per i due autori rappresentavano l'unico contatto con la propria identità, troppo spesso umiliata, e l'unico obiettivo per resistere in tali atrocità. Ecco, quindi, che un altro insegnamento ci viene donato da questi uomini coraggiosi: nonostante si dovessero presentare sporchi, magri al limite della sopravvivenza, in loro rimase forte la volontà di proteggere i propri cari dal dolore che provavano ogni volta che, durante la visita, li vedevano in quelle condizioni. Allora la forza di mentire, di omettere i particolari più truci, di farsi dire cosa accadeva nel mondo esterno, significava poter trascorrere un momento di vita normale.

La cosa più difficile da raccontare, infatti, era il nulla di ogni giorno, cioè il lento trascorrere del tempo senza che succedesse alcunché, senza che fosse possibile neanche parlare. Impossibile da accettare, perché, come scriverà Rosencof nelle sue Lettere mai arrivate (pubblicato in Italia nel 2008 dalle edizioni Le lettere), «la costrizione al silenzio è il vero crimine di lesa umanità»; riuscì allora ad inventare un modo di comunicare con Eleuterio basato su piccoli colpi inferti alle pareti che separavano un “calabozo” da un altro, per trasmettere la quotidiana sofferenza, come una specie di catarsi.

Le vicende di Ruso e Nato toccano la coscienza di tutti perché costringono il lettore ad incassare un duro colpo ad ogni episodio descritto, a riflettere su quanto possa essere aberrante la crudeltà umana, riconoscendo che l’uomo corre un grosso rischio proprio con se stesso: accettare cose disumane come fossero la normalità, perché comunque lontane, al di là di un muro che copre la vergogna.

Una testimonianza lucida e dettagliata sugli atroci crimini della dittatura, ma anche di come la resistenza umana, quando è edificata sulla dignità, trionfa; una raccolta di 150 testi su 200 dell'edizione originale, che ripercorre una caduta e la sua rinascita, che da Lacrime di una bambina giunge alla Smorfia del vecchio, «[…] con cui chiudiamo, Ruso, questa lunga storia».

 

Serena Poppi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 34, giugno 2010)

Redazione:
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