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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
L’identità culturale
e le origini del migrante
riscoperte nel “viaggio”
tra presente e passato
di Elena Torchia
In un volume di edizioni Iacobelli tre memoir di scrittori italo-americani
per ricostruire un’esperienza collettiva attraverso il ricordo personale
«Quando gli altri bambini mi chiedevano: “Che cosa sei?” – la classica domanda che all’epoca ci si faceva l’un l’altro almeno una volta – io rispondevo: “Sono mezzo italiano e mezzo polacco”». Ned Balbo, il primo dei tre autori della raccolta di storie di vita italo-americana, ricorda la sua infanzia a Long Island. «Che cosa sei?»: domanda che può suonare un po’ strana oggi, ma che nella New York multietnica degli anni Sessanta appariva consueta. Le origini, la provenienza geografica e culturale, non ancora completamente confuse nel melting pot dell’essere “americano”, avevano un valore distintivo, costituivano la marca di definizione della propria identità.
Origini e identità tracciano un percorso costante che collega le diverse storie di Padri. Racconti italoamericani (Iacobelli, pp. 72, € 10,00). L’intento principale della raccolta è quello di proporre la narrazione in quanto strumento di recupero delle proprie radici; in quest’ottica la figura del padre e quella degli altri componenti della famiglia aggiungono alla loro presenza concreta un valore altro, diventando simbolo di un passato lontano, nei luoghi e nella memoria, da preservare attraverso il ricordo e il racconto. Un passato vissuto in prima persona, nel caso di Edvige Giunta, studiosa e scrittrice trasferitasi dalla Sicilia agli Stati Uniti nel 1984, «emigrante per scelta e per necessità». Nel suo memoir, Le mura di Gela, ricostruisce con una straordinaria forza descrittiva le dinamiche e i rapporti interni alla sua famiglia, conferendo a ogni componente una definita caratterizzazione psicologica. L’autrice si sofferma sulle figure antitetiche del padre e della nonna: estroverso e carismatico il primo, schiva e restia ai cambiamenti la seconda; quasi immagini fisiche di due forze opposte, entrambi contribuiscono alla formazione del carattere della scrittrice. «Agorafilia e agorafobia, le due opposte tendenze presenti nella famiglia di mio padre, finiscono per confluire in me, in questo mio vagabondare, in questo mio esilio auto-imposto, in questo mio timore della partenza».
Nei racconti degli altri due autori, Ned Balbo e Carol Bonomo Albright, entrambi cresciuti negli Stati Uniti, il passato non è rievocato in prima persona, ma assume una connotazione particolare perché filtrato da abitudini e atteggiamenti dei membri della famiglia. In La musica di mio padre Balbo, poeta vincitore di numerosi premi letterari, rintraccia le sue radici nel repertorio musicale che il padre italiano suonava con la fisarmonica. L’autore ripercorre la sua infanzia attraverso la musica, che diventa simbolicamente luogo d’incontro fra diverse culture: quella italiana del padre, quella polacca della madre e quella americana delle radio e delle strade.
Washington Square di Carol Bonomo Albright ripropone i primi interrogativi dell’autrice, oggi direttrice della rivista Italian Americana e vice-presidente dell’American italian historical association, sulla provenienza culturale di una famiglia di migranti italiani negli Stati Uniti: ancora una volta un ritorno all’infanzia per riscoprire la propria identità, risalendo al momento in cui da bambina la scrittrice scopre che la nonna deve registrarsi come straniera. Da qui iniziano le domande della ragazzina sul significato dell’essere “americani” o “stranieri”: «Eravamo sì americani, ma anche italiani. I miei genitori lottavano per sentirsi benvenuti in America. A me, l’identità americana non bastava. I denti finti e il ciliegio di George Washington, i Puritani e i Padri Pellegrini mi apparivano scialbi in confronto all’ammaliante figura di Garibaldi e al viaggio di Dante dal purgatorio al paradiso». Inizia così un processo di riscoperta delle proprie radici culturali, al quale la scrittrice si sentirà spinta da una forte curiosità e allo stesso tempo da un intenso senso di appartenenza.
L’identità del migrante
«Straniera, aliena? Come strideva quella parola, così poco americana. Era la prima volta che mi capitava di pensare che mia nonna potesse essere meno americana di me».
Con queste riflessioni Bonomo Albright introduce le sue perplessità sull’identità della nonna, della sua famiglia, in ultima analisi della propria. Il tentativo di rispondere a siffatte domande necessariamente si imbatte in una ricerca interiore, tesa a individuare gli aspetti della propria personalità consapevolmente o inconsapevolmente ereditati dalla tradizione del paese d’origine, ma anche in una nuova visione critica degli effetti più immediati del contatto culturale, nelle varie modalità in cui ogni membro della famiglia viveva la propria alterità di migrante. La nonna era rimasta «indenne» dal contatto col mondo americano, mantenendo sempre una forte separazione dalla comunità dominante: «Viveva nel quartiere italiano, parlava solo italiano e raramente si era arrischiata a confrontarsi con qualcosa di diverso da quello stile di vita tutto italiano». Il padre, di carattere aperto e loquace, non provava vergogna né per le sue origini né per la situazione di povertà in cui si era trovato a vivere all’inizio del suo trasferimento negli Stati Uniti; di personalità opposta la madre, la quale «si era cucita addosso una sorta di fiaba americana da lei stessa inventata» e da inconsapevole sostenitrice del melting pot guardava alle proprie origini con un senso di inferiorità, desiderando sentirsi “americana” più di ogni altra cosa. Ecco che, dai vibranti ricordi d’infanzia della scrittrice, compaiono diverse reazioni al contatto culturale, diverse forme di acculturazione, nate dalla personale percezione dell’interazione di un gruppo non molto numeroso, almeno agli inizi, con la cultura dominante. Più di un aspetto dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti appare incanalato in una mancata integrazione, in cui il la comunità straniera non è capace di mantenere la propria cultura in uno scambio produttivo con gli altri gruppi. Anche l’atteggiamento nei confronti della propria lingua d’origine segnava un auspicato distacco dall’universo del piccolo gruppo etnico per essere pienamente accettati all’interno di una comunità multietnica, che si esprimesse attraverso una stessa lingua seppure con diversi accenti. Ned Balbo, figlio di un italiano e una polacca, racconta di essere cresciuto monolingue: «Non avrei mai imparato il polacco, sosteneva Betty, perché avevo un padre italiano e i bambini potevano apprendere una lingua solo se in casa la parlavano entrambi i genitori. Per lei, era colpa di Carmine se io ero cresciuto monolingue, sebbene avessi acquisito un discreto vocabolario di parolacce da entrambe le lingue originarie dei miei genitori».
Ancora più significativo appare dunque il ritorno al passato di questi scrittori, il tentativo di recuperare e mantenere viva una memoria storica offuscata, la quale, convergendo in un profondo istintivo senso di appartenenza, diventa quasi realtà mitica: storie vere che assumono una funzione esemplare nel momento in cui trascendono la vicenda particolare per riconoscersi in semplici esperienze di italiani o figli di italiani la cui vita trascorre lontana dalla terra d’origine.
Il memoir
Il genere letterario utilizzato per rievocare il passato è in questo caso il memoir, narrazione autobiografica che coniuga scrittura personale e scrittura critica, consentendo agli autori di usare la memoria personale allo scopo di recuperare quella storica, tradizionalmente ignorata dalla cultura dominante. A differenza dell’autobiografia questa forma di raccontare presenta caratteri più frammentari e discontinui, tanto che risulta difficile fornirne una definizione univoca, vista anche la mancanza di continuità temporale e strutturale: venendo meno un inizio e una fine ben definiti, non essendo rispettato alcun ordine cronologico all’interno della narrazione, il genere si presta perfettamente ad una narrativa del ricordo, che pone l’attenzione su aspetti che a livello oggettivo potrebbero sembrare di scarsa importanza. Lontano dall’obiettività dell’autobiografia ma anche distante dalla pura finzione, il racconto procede seguendo le direttive della memoria soggettiva, focalizzandosi su come l’autore ha vissuto e interiorizzato gli eventi che riferisce. Per questi motivi, il memoir è divenuto il genere letterario preferito da soggetti marginali e da migranti negli Stati Uniti della fine del XX secolo. Attraverso il recupero della propria memoria individuale e collettiva, questi sfuggono ai canoni della tradizione e ne definiscono di nuovi, in un’operazione di riscrittura soggettiva e partecipata della storia.
Elena Torchia
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 32, aprile 2010)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi