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Problemi e riflessioni (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno IV, n. 32, aprile 2010

Zoom immagine Due volontari curano
i malati di Calcutta
trovando il senso
della propria vita

di Daniela Cacciola
Lampi di stampa pubblica una storia
ambientata nell’India degli “ultimi”


Un racconto a due voci, due stili diversi, un uomo e una donna, medico lui, infermiera diplomata lei, ciascuno con il proprio vissuto e la propria sensibilità, accomunati da un luogo, Calcutta, e da una presenza, quella di Madre Teresa, che li accompagna costantemente durante la loro esperienza come volontari in India. Un viaggio che diventa ricerca spirituale e scoperta della propria natura più  profonda, della propria anima. Un’Anima nuda, come recita il titolo del libro scritto da Cesare Santi e Lorenza Caravelli, (Lampi di stampa, pp. 144, € 15,00) che racconta l’esperienza di due volontari al servizio dei malati e dei moribondi ricoverati presso la “Mother House”, il convento fondato da Madre Teresa, centro di ricovero e di assistenza per gli “ultimi” di Calcutta.

In un tempo imprecisato, i due autori, in modo indipendente – nessuno dei due fa mai riferimento all’altro – decidono di partire per l’India, per prestare attività di volontariato nella città di Calcutta.

La cronaca di questo viaggio viene raccontata in prima persona dai due autori protagonisti, le cui voci si intrecciano, alternandosi senza mai sovrapporsi, nel racconto dei luoghi visti e vissuti da entrambi: il degrado delle strade affollate di Calcutta, i risciò trainati per pochi spiccioli da uomini esangui, i bambini che, pure con allegria e giocosità, non smettono mai di elemosinare, il caldo torrido e umido, le piogge monsoniche che in un attimo inondano le strade trasformandole in enormi vasche da bagno, i colori e gli odori della città.

Grazie a questa alternanza di voci, caratterizzata da stili e sensibilità differenti, evidenziata anche dall’uso di due distinti caratteri tipografici, il testo ci permette di cogliere aspetti e sfumature diverse di una medesima realtà. Il vissuto personale si riflette nel racconto dei due autori, rendendo evidente come l’approccio ad una realtà tanto tragica risenta, inevitabilmente, del retaggio sociale e culturale di ciascuno: particolarmente forte l’introspezione e la ricerca spirituale nelle pagine scritte da Caravelli, più descrittivo e asciutto lo stile di Santi. Le descrizioni di luoghi e persone sono corredate da una serie di fotografie il cui utilizzo è molto efficace: le immagini costituiscono un prezioso corredo al testo, suscitando emozioni ancora più immediate di quanto possa fare la parola scritta.

 

Gli “ultimi” e i volontari: quando parlano i cuori

Ad un certo punto le due voci si separano, dedicandosi ognuna ad un racconto più personale, all’interno del quale vengono narrate storie di uomini e di donne, volontari e assistiti, segnate tutte da un certo carattere di eccezionalità. Assistiamo ad episodi di grande solidarietà e generosità da parte degli operatori dei centri di assistenza: il contatto con una realtà così tragica permette ai volontari di entrare in comunicazione con il loro io più profondo e stimola trasformazioni spirituali e caratteriali. Tutti quei filtri sociali e culturali, che ciascuno si porta addosso, a Calcutta vengono meno. Svanisce l’ansia di apparire, di dovere aderire a quei ruoli che noi stessi ci siamo assegnati e che presto o tardi costituiranno la nostra prigione, e può emergere la parte più autentica e grande di ciascuna personalità.

A questi racconti si affiancano le storie degli “ultimi”. Persone dimenticate, lasciate a morire nella più totale indifferenza ai margini delle strade, che Madre Teresa prima, e migliaia di volontari poi, hanno raccolto e raccolgono – nel senso letterale del termine – ogni giorno per le vie di Calcutta. Sono storie scritte sui corpi di questa gente, corpi che raccontano una sofferenza spesso inesplicabile a parole, ma che parla attraverso le ferite, gli occhi, i volti segnati.

Tra assistiti e volontari si instaura, così, un dialogo muto, fatto di gesti, carezze, attenzioni, che sembra raggiungere una profondità enormemente superiore a molte delle relazioni alimentate abitualmente da tante parole. È qui che entra in gioco il linguaggio universale della solidarietà. A contatto con persone di altre lingue e culture, di cui nella maggior parte dei casi i volontari non conoscono nemmeno i nomi, iniziano a parlare le anime, e parlano le mani. Mani che accarezzano, che curano, braccia che sostengono e che proteggono, ragazzi che di fronte alla morte abbracciano i loro assistiti, come a dire, «non sei solo, non ti lascio solo».

 

Dare da bere agli assetati

In questi luoghi di accoglienza, questi uomini e queste donne riconquistano la dignità di esseri umani.

«I THIRST», «Ho sete» è l’iscrizione accanto al crocefisso che domina la tomba di Madre Teresa. La sete e la fame degli “ultimi” di Calcutta non è solo bisogno di acqua e di cibo, ma è anche la stessa sete che accomuna tutti gli uomini del mondo: è sete di amore, schietto e incondizionato, di comprensione, di ascolto, di tenerezza, di fratellanza. Nel racconto degli orrori che questa gente è costretta a vivere, l’elemento che maggiormente colpisce, oltre il degrado, la fame, la violenza e la malattia, è l’abbandono. È proprio questo che tocca di più l’animo degli autori ed insieme anche del lettore: mentre la miseria è qualcosa di lontano dal mondo occidentale, il senso di solitudine fa parte della condizione esistenziale dell’uomo e nel profondo della nostra anima ciascuno di noi ha provato, almeno una volta nella vita, la sensazione di non avere più punti di riferimento.

Il libro racconta come i due autori hanno imparato a dare e a ricevere amore incondizionato, placando la propria sete, nel prodigarsi per i malati dell’India più povera: «stare tra quelle persone, sedersi accanto a loro, accompagnarli a morire, magari solo stringendo la mano, dando un abbraccio, è il più grande insegnamento di Calcutta, la più alta scuola d’amore».

 

Daniela Cacciola

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 32, aprile 2010)

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