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Anno IV, n. 32, aprile 2010
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Letteratura contemporanea (a cura di Maria Franzè) . Anno IV, n. 32, aprile 2010

Zoom immagine Medio Oriente,
il suo conflitto
lungo e tragico

di Eliana Grande
Pubblicata da Città del sole
una serie di racconti: guerra,
un circolo di odio e di dolore


Sebbene non sia facile proporre una riflessione volta a sondare luoghi dell’animo umano, che mantengono sempre una sorta di inaccessibilità, – pensiamo al dolore, al bisogno di pace o, ancora, alla ricerca di senso – una simile sfida è stata accolta dall’artista e scrittrice Miriam Marino, che ha pubblicato una raccolta di racconti incentrati sul tema drammatico della guerra in Medio Oriente dal titolo emblematico ed evocativo: Gabbie (Città del sole, pp. 112, € 6,00).

Si tratta di argomenti difficili da affrontare, soprattutto per quanti tentino di farlo senza scivolare in facili retoriche, stucchevoli coinvolgimenti puramente emotivi o fredde analisi razionali che, indolori e inefficaci, si limitano a scivolare addosso alle coscienze assopite. Spesso sono, appunto, gli artisti i soli che riescono a farsi carico di un simile compito e a portarlo a termine con successo, lasciando attraverso le loro opere traccia e testimonianza di quella sfida raccolta, di quell’impegno vissuto.

Un tratto che sembra connotare, in maniera del tutto particolare, le sensibilità e le personalità artistiche è costituito da quella singolare capacità di cogliere, percepire, lasciarsi anche dolorosamente attraversare dalle dinamiche del contesto sociale e culturale di appartenenza, riconoscendo con vividezza e forza empatica non comuni i bisogni e le intime lotte che agitano l’animo dei propri simili, prima ancora e con più urgenza di quanto essi stessi non facciano. È una sorta di accoglienza del mondo esterno nella propria interiorità, che diventa così il luogo nel quale, come per effetto di un misterioso processo alchemico, tutto ciò che si è raccolto viene trasformato, sublimato e reso finalmente accessibile allo sguardo e alla coscienza collettiva, nella forma dell’opera d’arte offerta al pubblico.

 

Il luogo del conflitto e della pace

L’artista, dunque, non può fare a meno di produrre arte. È una fatica costante, ma se non lo facesse la sua natura stessa lo schiaccerebbe, resterebbe annichilito dalla forza della sua sensibilità: «Col cuore incrinato / le braccia tendo / per catturare il vuoto / testimone del nulla / dell’assenza e del dolore. // Della morte che da sempre ci scruta / vedo la gelida mano. // Ma la vita dov’è?». C’è un grido in questi versi della Marino, un dolore, una ricerca che non possono essere attribuiti ad una voce sola, non si lasciano ricondurre ad un’unica sorgente. Piuttosto, la bocca, la penna dell’autrice si fa tramite, veicolo di mille richiami altrimenti muti che salgono dal fondo oscuro di tutti i cuori incrinati, dalle braccia tese di chi cerca vita, non morte.

E vuole pace, non guerra.

In Medio Oriente, ad una distanza irrisoria da noi, nel nostro mondo in cui tutto e tutti sono ormai dietro l’angolo, da decenni si consuma uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi della storia. Di questa tragedia ha voluto scrivere nel suo libro la Marino, già attiva nella promozione e difesa dei diritti umani, in collaborazione con associazioni quali “Amici nella Mezza luna rossa palestinese”, “Ebrei contro l’occupazione”, e “Stelle cadenti – artisti per la pace”.

Come scrive nella Prefazione Yousef Salman, delegato della Mezza luna rossa palestinese in Italia, «Nessuna questione al mondo ha occupato da più di un secolo, i giornali, le TV e la politica araba e mondiale come quella palestinese [...]. Normalmente l’interesse generale, spesso dipendente dal momento, gli impegni e gli sforzi politici, diplomatici ed economici dell’intera Comunità Internazionale e l’andamento naturale degli eventi fanno sì che i problemi con il tempo tendano a risolversi ed a scomparire, al contrario la questione israelo-palestinese si complica sempre di più, e la soluzione a tutt’oggi, purtroppo, sembra sempre più lontana».

Ora, se interrogarsi sul perché di questo stato di cose e sul tratto inquietante di irrisolvibilità di questo conflitto è più che legittimo – anzi drammaticamente necessario, per sfuggire al rischio di indifferenza e intorpidimento delle coscienze a cui accennavamo prima – ben più difficile, se non addirittura velleitario, è pretendere di trovare un’unica, semplice, risposta. I problemi aperti, le questioni irrisolte, i motivi di scontro e di incomprensione, le ferite inferte e i rancori accumulati sono tali e tanti da scoraggiare in partenza chiunque si accinga a fornire una simile risposta. Eppure è necessario raccogliere la sfida, trovare il coraggio di ascoltare quel grido e farlo proprio, non sfuggire alla responsabilità, non chiudere occhi e cuore di fronte alla sofferenza del mondo. Allora, come in un gioco di specchi, accadrà di riscoprire se stessi nell’altro, il dolore dell’estraneo si farà più intimo e familiare del nostro e, magari, emergerà la risposta cercata.

È ciò che è accaduto all’autrice: «sono io quella donna lapidata, sono io quel giovane saltato in aria, quell’uomo torturato, sono io quel migrante con gli occhi fuori dalla testa che emerge dalle nere acque che hanno divorato i suoi fratelli [...]. Sono io che soffro nel mondo torturato e il dolore del mondo è il mio dolore. È così che allontanandomi da me e andando verso l’umanità universale e dolente ho trovato me stessa riflessa in quel dolore».

 

Il coraggio della condivisione e la forza della nonviolenza

Ecco, dunque, il primo elemento da tenere presente: la condivisione, che contrasta e annulla l’indifferenza, come la luce il buio. Solo in essa diventa evidente che la guerra non è una “questione” degli israeliani o dei palestinesi, ma è la tragica manifestazione esteriore, collocabile in un determinato tempo e in un luogo circoscritto, di un problema che riguarda ogni singolo di fronte a se stesso.

La guerra non può essere frastuono remoto di spari e urla che si riversano dallo schermo televisivo su distratti spettatori. È lo strazio che ci interpella, che ci riguarda.

La pace non può essere quella delle armi, non viene dall’esterno, non si impone. È il bisogno più profondo e intimo del cuore umano.

Per questo è quasi un obbligo morale ricordare che il solo mezzo veramente efficace per spezzare l’assurdo circolo vizioso dell’odio e del dolore, l’unica via d’uscita possibile di fronte alle devastazioni prodotte incessantemente dalla violenza è la nonviolenza. Questa affermazione, nella sua sconcertante ovvietà, può essere giudicata banale, ingenua, retorica, concretamente inattuabile, ma nonostante questo è importante continuare a sostenerla affinché essa diventi speranza condivisa e reale possibilità di cambiamento, rinnovamento radicale.

La nonviolenza non è un concetto, né un sentimento. È un modo di essere, di vivere. È una forza originaria che ogni individuo, più o meno consapevolmente, possiede e alla quale è possibile attingere in ogni momento. La mancanza di conoscenza e di fiducia in questa forza, insieme alla durezza di cuore che rende incapaci di provare empatia, condivisione e compassione, sono le cause dell’irrisolvibilità di ogni conflitto.

 

Il sorriso di Ibraim

Concludiamo questa breve riflessione, ispirata dalla lettura dei racconti della Marino, con un riferimento ad uno dei tanti protagonisti che emergono, di volta in volta, ognuno col suo messaggio, dalle pagine del libro. Lo abbiamo scelto perché ci sembra particolarmente emblematico in relazione a quanto detto fin qui e perché proprio in lui il lettore vedrà realizzarsi, all’improvviso, quella presa di coscienza, la fulminea intuizione che può trasformare in un solo istante il destino di un uomo, del suo popolo, del mondo intero.

Samuel Irsh, agente del Mossad, è una spia israeliana infiltrata col nome arabo di Mahmud Idris in un campo profughi palestinese. Un giorno dopo l’altro la nuova identità si intreccia e si confonde con la vecchia. Samuel Irsh e Mahmud Idris guardano con gli stessi occhi, hanno paura, vivono, sperano, soffrono, amano con lo stesso cuore. Il nome non fa differenza.

Nel campo, Samuel-Mahmud stringe amicizia con un uomo, Ibraim, e alla fine della sua missione segreta scoprirà che proprio lui è la persona da eliminare, il “nemico”.

È il momento della scelta: «La mano di Samuel strinse il calcio della pistola che aveva in tasca. Voleva sbrigarsi. La mano di Mahmud gli impediva di estrarre l’arma. Sudava copiosamente dando la colpa al kamhsin che soffiava nel deserto. Una lotta titanica, silenziosa nella sua tasca. Chiese di andare in bagno. Tuffò la testa sotto il rivolo d’acqua del rubinetto, la faccia di Mahmud lo fissava dallo specchio. All’improvviso la quiete. Si accorse che Samuel e Mahmud non lottavano più in lui: erano diventati una cosa sola.

Ora era calmo. Da quella calma emerse con incredibile chiarezza il pensiero che stava combattendo contro se stesso. Il nemico era sempre stato in lui.

Tornò nella stanza. Una grande lucidità aveva preso il posto del conflitto.

Non avrebbe sparato sul sorriso di Ibraim».

 

Eliana Grande     

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 32, aprile 2010)

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