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Comunicazione e Sociologia (a cura di Marilena Rodi) . Anno IV, n. 32, aprile 2010

Zoom immagine Crisi mondiale:
il capitalismo
è la soluzione?

di Domenico Pontrandolfi
Casi di ‘ingiustizia’ finanziaria.
L’esaltazione del neoliberismo
in un libro edito da Rubbettino


Le tematiche dell’economia moderna, dal mercato alle dinamiche tra prezzo e salario, dalla sicurezza sociale alla sicurezza sul lavoro, dal ruolo delle banche e degli speculatori a quello dei governi (non tralasciando, ovviamente, la globalizzazione e l’ecologia) vengono trattate nel saggio Tutte le balle sul capitalismo (Rubbettino,  pp. 206, € 14,00) dell’economista statunitense Robert P. Murphy, un libro che va letto, ma va letto come si legge un testo religioso o ideologico, un testo che enuncia delle verità incontrovertibili che vanno accettate con fede.

 

Un alfiere del libero mercato

La fede di Murphy è riposta nel capitalismo puro, il capitalismo del libero mercato e del laissez-faire, e siccome quest’impostazione ha dominato l’economia mondiale degli ultimi trent’anni, questo è un altro buon motivo per leggere il libro. Inoltre ci permette di capire meglio l’attuale crisi economica che è figlia proprio di quei principi neoliberisti che hanno guidato i governi e le aziende negli ultimi tempi e di cui l’economista statunitense si fa alfiere.

Nonostante il libro sia piuttosto recente, la crisi non intacca minimamente le convinzioni di Murphy che, anzi, ne attribuisce le cause ai governi, ai sindacati, ai burocrati e agli epigoni del socialismo e del comunismo annidati soprattutto tra gli intellettuali non ancora rassegnati al crollo del muro di Berlino.

Per l’autore, il capitalismo dominato dal libero mercato è l’unico sistema in grado di assicurare la felicità dell’umanità; l’unica legge valida è quella della domanda e dell’offerta, l’unica in grado di determinare prezzi e salari equi, soprattutto se liberata dalle tendenze regolamentatrici dei vari governi.

Salari e stipendi, di qualsiasi entità, sono giusti in quanto determinati dal mercato; ognuno merita il proprio salario, dal semplice operaio al grande manager industriale.

Anche il compenso percepito dal pessimo amministratore che porta al fallimento le aziende che gli sono state affidate è giusto perché la sua cattiva gestione non era prevedibile.

Se sorgono dei problemi ci pensa il libero mercato che è il solo a poter risolvere le difficoltà di tutti (ma l’autore dimentica di sottolineare come anche negli Stati Uniti si è dovuto lottare per l’affermazione di certi diritti).

Murphy ha una spiegazione per tutto: le discriminazioni razziali e sessuali non sono determinate dal mercato ma dai governi. Basti pensare alla legge di Bill Clinton sui Permessi familiari del 1993 che determinò una riduzione del salario dei dipendenti perché era un costo aggiuntivo per le imprese che naturalmente si scaricò sugli stipendi (Murphy però non prende in considerazione l’idea che il costo aggiuntivo possa essere pure a carico dei profitti).

Anche la guerra civile per l’emancipazione dalla schiavitù è stata inutile perché a liberare gli schiavi ci avrebbe comunque pensato il mercato come, per esempio, è accaduto in Brasile, dove, tra il 1851 il 1871, la decadenza dell’economia agraria basata sul lavoro schiavile ha decretato l’accelerazione del processo di indipendenza degli schiavi.        

A questo punto ci possiamo trovare d’accordo con l’autore, se non fosse che, anche allo storico più sprovveduto, risulta chiaro che l’abolizione della schiavitù fu solo l’occasione di una guerra civile che vide nella contrapposizione tra due modi diversi di intendere lo sviluppo la sua reale motivazione.

A riprova di questo, i neri che lavoravano nelle fabbriche, i cinesi durante la costruzione delle ferrovie, i pellerossa durante la corsa all’Ovest, non furono trattati meglio dai capitalisti del Nord di quello che facevano i piantatori di cotone del Sud.

Dunque il prezzo è sempre giusto se determinato dalla domanda e dall’offerta e il controllo sui prezzi è la peggiore iniziativa che un governo possa prendere contro il proprio Paese in quanto determina la penuria del bene che si vuol calmierare.

Il riscaldamento globale, il buco nell’ozono sono tutte invenzioni dei nemici del libero mercato; la deforestazione e le specie animali minacciate di estinzione si possono salvare solo con il libero mercato trasformandoli in beni economici.

La smentita alle posizioni di Murphy è palese: gli alberi della foresta amazzonica vengono trasformati infatti in beni economici ma non si nota nessun beneficio nell’ambiente.

 

Globalizzazione e speculazione economica

E finiamola – sostiene l’economista statunitense – con l’idea che le risorse non rinnovabili stiano per terminare; le ultime prospezioni indicano che le riserve di petrolio sono addirittura aumentate.

E qui il nostro autore dimentica che non è vero che sono aumentate le riserve di petrolio ma sono migliorate le metodologie di prospezione, le quali permettono di evidenziare giacimenti che prima non risultavano.

Un’altra grave minaccia al libero mercato, per l’autore, è la sicurezza sul lavoro perché le misure di sicurezza costano ed il costo ricade sui salari non potendo certo ricadere sui giusti profitti degli imprenditori. Il governo non deve intervenire in alcun settore, né sulla sicurezza sul lavoro né sulla tutela dei consumatori, sia che si parli di sicurezza degli aerei o dei medicinali, sia che si tratti di pianificazione urbanistica, la cui attuazione fa addirittura aumentare la criminalità. L’unica soluzione è il libero mercato.

La sicurezza sociale, le pensioni sono tutti gravami che il governo pone sulle generazioni future, e poi non bisogna fidarsi dell’Antitrust perché, anziché favorire la sana concorrenza, protegge le imprese che il mercato ha sconfitto.

E basta con le critiche alle banche, perché il denaro viene dal capitalismo e le banche non solo servono come depositi di denaro, ma sono i principali intermediari nei prestiti e negli investimenti. Il governo, invece, pretende di regolamentarne l’attività diminuendone così l’efficienza.

E non bisogna avere paura nemmeno della globalizzazione perché anche quando le aziende americane chiudono per delocalizzare le proprie attività in parti del mondo dove il costo del lavoro è più basso, il ritorno per gli Stati Uniti è sempre vantaggioso in quanto quello che si perde in termini di posti di lavoro lo guadagnano i consumatori poiché dall’estero arrivano le stesse merci a prezzi inferiori (manca, a nostro avviso, qualsiasi dato a suffragare questa bizzarra ipotesi).

Gli Stati Uniti tuttavia hanno un altro vantaggio, in quanto la delocalizzazione, arricchendo gli azionisti delle multinazionali, arricchisce tutta la nazione.

Insomma la perdita del lavoro da parte degli operai americani e il loro impoverimento determina un vantaggio per gli Usa perché favorisce i consumatori e arricchisce gli azionisti.

Anche i dazi doganali sono dannosi perché tengono in vita settori fuori mercato e prestano il fianco alle ritorsioni degli altri paesi.

Ovviamente persino gli speculatori svolgono il loro benevolo ruolo nella società del laissez-faire, sia lo speculatore geografico che compra le arance a quattro soldi in Florida per venderle a prezzi decuplicati in Alaska, sia lo speculatore temporale che compra oggi merci non ancora prodotte per ritrovarsele un domani; in questo giocano un ruolo di primo piano le nuove forme di investimento in Borsa: i futures (titoli azionari su beni non ancora prodotti), le opzioni d’acquisto e altri derivati.

 

L’eredità di un trentennio di liberismo

Allora a che serve lo stato nel mondo del libero mercato?

Lo stato impoverisce i cittadini con le tasse danneggiandoli nel presente e chiedendo prestiti che ipotecano il futuro.

La ricetta di Murphy è quella consueta dei neoliberisti: tagliare le tasse e le spese e privatizzare il possibile.

Ma forse l’autore è stato poco attento perché questa ricetta è applicata nella maggior parte dei paesi fin dagli anni Ottanta, da quando il governo conservatore britannico di Margaret Thatcher privatizzò banche e imprese di proprietà dello stato realizzando una riforma in senso liberista della City di Londra e da quando Ronald Reagan avviò negli Stati Uniti una campagna di deregolamentazione nei trasporti, nelle telecomunicazioni e nel sistema bancario liberandolo da gran parte delle restrizioni loro imposte dopo la Grande crisi.

Eppure fu il crollo del comunismo a determinare il diffondersi del neoliberismo in tutto il mondo che viene ancora proposto e imposto a molti paesi in via di sviluppo; è il cosiddetto Washington consensus con le sue libertà: libertà di investimento, di commercio, privatizzazioni, liberalizzazioni e riduzione del deficit pubblico.

Custodi di questa dottrina diventano la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, mentre la rivoluzione informatica permette la nascita della new economy introducendo l’era della globalizzazione.

Nascono ovunque aree di libero mercato (come il Nafta), nasce il Wto (Organizzazione mondiale del commercio) e attraverso alleanze, accordi, fusioni e acquisizioni, il capitale transnazionale assume il controllo dell’economia mondiale esautorando di fatto il potere politico.

Ma non è questo che Murphy auspica nel suo libro, ovvero un’economia libera da qualsiasi controllo?

Adesso che la festa sembra finita sono gli stessi fautori del libero mercato a invocare l’aiuto statale attraverso un aumento delle spese e… quindi delle tasse.

Il testo di Murphy è concentrato soprattutto sugli Stati Uniti ma, allargando un poco l’orizzonte, possiamo meglio considerare l’eredità del trentennio neoliberista.

Tra il 1960 e il 2000 la quota di reddito globale del 20% più ricco della popolazione mondiale è passata dal 70% all’86% del totale, mentre quello del 20% più povero è passata dal 2,3% all’1%; contemporaneamente le fasce di reddito intermedie sono passate dal 27,7% al 13% del totale.

Il dramma più grande riguarda i paesi in via di sviluppo: secondo un articolo di Le Monde diplomatique (2004) nel 2001 sono stati forniti 29 miliardi di dollari in sovvenzioni a questi paesi mentre 138 miliardi di dollari ripartivano verso gli stati creditori come rimborso per il debito.

Se, come dice Murphy, il capitalismo assicura la felicità di tutti, c’è da chiedersi come siano possibili tali discrepanze, a meno che l’autore, quando parla di libero mercato, non voglia riferirsi solo ai paesi occidentali o addirittura solo degli Stati Uniti o meglio ancora di Beverly Hills.

In un momento in cui banche e aziende europee e americane si accingono a chiedere l’obolo allo stato e alla collettività per ripianare la loro crisi, a Murphy va il merito della coerenza e quello di parlare senza peli sulla lingua.

Pertanto a chiunque voglia conoscere la reale natura dell’impostazione economica neoliberista, consigliamo di leggere vivamente questo libro che troverà certamente interessante.

 

Domenico Pontrandolfi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 32, aprile 2010)

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