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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
La Roma dei senza tetto
in un viaggio singolare
alla scoperta di identità
troppo spesso ignorate
di Erika Casali
Per Infinito edizioni un itinerario attraverso una Roma diversa e aliena.
Gli invisibili si raccontano mostrando come in realtà siamo tutti uguali
Quante volte passiamo di fianco a persone sedute per terra, magari un pezzo di cartone, vestite di abiti sporchi e spesso stracciati? Se ne stanno lì, immote, senza fare niente: non lavorano, non producono, non consumano. Ormai non tendono nemmeno più la mano, si limitano a guardare fisso un punto, sperando che qualcuno lasci cadere una moneta nel loro piattino o nel loro cappello. Quante volte ci siamo fermati per domandarci quali siano veramente le cause che hanno portato questa gente ad aspettare che qualcuno tenda loro la mano?
Roma senza fissa dimora. Un viaggio nella città degli emarginati di Gabriele Del Grande, (Infinito edizioni, pp. 110, € 12,00) è la storia di un vero e proprio tour, condotto però in maniera diversa dal solito. Molto spesso prendiamo aerei, treni, autobus per coprire lunghe distanze e attraversare il mondo, alla scoperta di nuove realtà e culture. Per questo viaggio invece l’autore ha dovuto percorrere solo pochi metri.
Un viaggio per la strada
La storia, o meglio, le storie narrate nel testo si sviluppano intorno alla stazione Termini di Roma. Quello che l’autore ha fatto è stato semplicemente svuotarsi le tasche, tenendo solo la carta bancomat, dopodiché si è inoltrato nel mondo sconosciuto, e che tanto spesso intimorisce, dei senza tetto. Ha deciso di essere sincero con i suoi interlocutori fin dalle prime battute, presentandosi come quello che era, e cioè una persona che un tetto ce l’aveva e che dopo qualche tempo vi avrebbe fatto ritorno.
Ha deciso di non cercare appoggi esterni e di comportarsi proprio come se sulla strada ci sarebbe rimasto. Quindi ha tagliato tutti i ponti con la vita della società riconosciuta: niente chiamate, niente contatti con operatori sociali o con la famiglia. Ha passato in strada abbastanza tempo per rendersi conto dell'atmosfera che vi si respira. Fedele al suo ruolo di osservatore invisibile, Del Grande non è mai protagonista di quello che racconta: vede, sente e restituisce fedelmente identità, storie intime e ignorate di persone da cui è stato accettato. Infatti viene preso sotto l’ala protettrice di alcuni senza tetto del binario numero uno della stazione Termini che lo guidano nella scoperta e negli incontri, tanti, tutti molto diversi e anche curiosi: il manager decaduto, il laureato, i disabili, i pensionati, i migranti, i malati di mente. Il fattore comune tra tutte queste storie, è una perdita molto dolorosa che segna il passato dei protagonisti; infatti molti di loro hanno dovuto affrontare la morte di qualcuno che era loro molto vicino, spesso i genitori, o l'abbandono da parte del coniuge.
Durante il suo viaggio Del Grande si sente spesso inadeguato, un intruso, sente di recitare una parte, perché lui farà ritorno a tutte le sue sicurezze, che non aveva perso neanche in strada e che lo rendevano per questo un osservatore stabile, con le spalle coperte. Infatti lui stesso dichiara che questo libro vuole essere «semplicemente un’occasione di incontro, di presenza, di scambio» perché quella che descrive è una situazione e una condizione che non gli appartengono.
L’invisibile città
La strada è un mondo composto da azioni basilari e fondamentali: mangiare, dormire, sopravvivere, parlare; le condizioni di sopravvivenza sono molto difficili. Nel testo viene descritta la violenza, spesso scatenata da motivazioni futili, o che a noi, appartenenti alla faccia “visibile” della città, appaiono tali, perché diamo molto per scontato. Questa aggressività viene provocata spesso anche dall’instabilità di alcune persone che fanno uso costante di droghe legali e illegali.
Si tratta di un viaggio che attraversa i confini sociali, in questo caso di Roma, ma che si potrebbe applicare tranquillamente ad una qualsiasi città italiana perché, come dice Calvino ne Le città invisibili, «viaggiando ci si accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti».
Le citazioni che compaiono nel testo sono tante ma, «per mancanza di fantasia», ci racconta l’autore durante la presentazione del libro – avvenuta a Capodarco di Fermo in occasione del seminario di formazione per giornalisti organizzato dall’agenzia Redattore Sociale – «provengono quasi tutte da questo libro di Calvino». Dal testo emerge anche la contrapposizione tra l’immagine positiva di Roma, o di una qualsiasi altra grande metropoli del mondo, e i suoi lati negativi; è la distanza tra i sobborghi e centro, tra dentro e fuori. La prima, che apre il racconto, dà una presentazione perfetta di quale sarà il percorso dell’autore durante il suo viaggio alla scoperta della periferia che si trova nel pieno centro della capitale e che, ancora una volta Calvino, esprime in maniera esemplare: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio».
Un giornalismo fatto di persone
Quello scritto da Gabriele Del Grande è un reportage importante, un giornalismo fatto di uomini e donne e delle loro storie intime; l’autore ci offre uno spaccato della realtà quotidiana di persone che spesso preferiamo ignorare perché è più semplice, o verso le quali, al massimo, ci mettiamo l’anima in pace gettando due monete nei loro piattini, credendo di acquietare la nostra coscienza e di aver dato proprio quello che stavano chiedendo. L’autore ci rivela che non è così, che quello che viene chiesto è semplicemente calore umano, affetto.
Questo testo è stato scritto nel 2007, due anni prima della pubblicazione. Non aveva infatti trovato un editore interessato in quanto il suo soggetto non veniva considerato adatto a giornali o libri, era scaturito dall’interesse personale dell’autore sulle "città nascoste”. A parte l’agenzia Redattore Sociale, che ne aveva pubblicato alcuni pezzi, lo scritto non era stato preso in considerazione da nessuno. Le persone che realmente vedono gli attori di questa situazione specifica sono poche. Coloro che guardano sono in molti, ma spesso non percepiscono nulla, ecco forse perché ai senza tetto ci si riferisce anche come agli invisibili, persone che vivono nella riproduzione di una società che li ha esclusi, dove la sola legge che vale è quella della forza.
La descrizione di questa Roma nascosta è quella di una società di grandi solitudini, di lacrime, di ricordi, di profonde recriminazioni e soprattutto di tanti sentimenti; come dice l’autore durante un’intervista rilasciata a Fondo Magazine, gli ingredienti che lo hanno spinto alla stesura di questo reportage «furono la curiosità antropologica, la necessità di restituire un racconto di una realtà sconosciuta ai più».
Erika Casali
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 31, marzo 2010)