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Anno IV, n. 31, marzo 2010
La lotta partigiana
di chi desiderava
giustizia e libertà
di Giuseppe Licandro
Memorie storiche del Partito d’azione
in un interessante libro edito Iacobelli
Angelo Del Boca, nell’Introduzione del volume collettivo La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico (Neri Pozza editore), sostiene che da tempo sia in atto «un tentativo di riscrivere la storia contemporanea in Italia e in Europa, relativizzando gli orrori del nazismo e della soluzione finale, depenalizzando il fascismo e la sua classe dirigente, delegittimando la Resistenza e demonizzando il comunismo». Lo storico novarese si riferisce in particolare alle recenti opere di Giampaolo Pansa, meravigliandosi che il giornalista, in passato attento ed entusiasta studioso della lotta partigiana in Piemonte, si sia accostato al revisionismo storico per «gettare fango, a piene mani, sull’antifascismo e la Resistenza».
Una testimonianza inedita sulla Resistenza
La Resistenza è stata esaminata criticamente a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo da vari studiosi (tra cui ricordiamo, oltre a Del Boca, Giorgio Bocca, Guido Crainz, Mirco Dondi, Claudio Pavone, Giovanni Quazza) che ne hanno messo in rilievo luci e ombre, evitando atteggiamenti apologetici, ma senza mai dimenticare l’apporto fondamentale da essa fornito nella costruzione in Italia di una società democratica e pluralista. Il dibattito è ancora acceso ed è spesso ravvivato da nuove testimonianze inedite, come il libro dell’ex partigiano Franco Foglino Gioventù partigiana. Memorie 1943-1945. Canavese, San Mauro, Langhe, battaglia di Alba, liberazione di Torino (Prefazione di Alessandro Portelli, Introduzione di Massimo Rendina, pp. 108, Iacobelli, € 10,50). Si tratta di uno scritto che risale al 1953, ma che soltanto nel 2009 l’autore si è deciso a stampare, grazie anche alla collaborazione di Stefano Gambari e Vittorina Sacco, curatori della pubblicazione. Alessandro Portelli, nella Prefazione, sottolinea che «le memorie di Franco Foglino intrecciano diversi tempi e diversi modi di scrittura», con una modalità narrativa che alterna accenti picareschi a toni epici.
L’autore inizia il suo racconto nel 1943, quando frequenta la prima classe del Liceo classico “Vincenzo Gioberti” di Torino ed è costretto dalla guerra a spostarsi in campagna a Breno di Chialamberto, dove continua gli studi da privatista. È in questo piccolo centro della valle di Lanzo che gli giunge notizia della caduta del fascismo (25 luglio) e dell’armistizio con gli alleati (8 settembre) e che ha inizio la sua formazione politica.
L’esperienza nelle Brigate Garibaldi
Nell’inverno del 1943-44 anche nella zona attorno a Breno si formano i primi gruppi partigiani (in prevalenza si tratta di “badogliani”, ossia di formazioni monarchiche e liberali) e Foglino comincia a collaborare con loro: «mi chiedevano aiuto per scaricare un camion che era arrivato su dalla pianura con viveri e munizioni, e a volte mi chiamavano per portare in bicicletta un messaggio in qualche frazione della valle». Ritornato a Torino sostiene gli esami liceali (che non supera completamente, poiché gli rimangono un paio di materie da recuperare a settembre) e matura l’esigenza di un impegno più attivo all’interno della Resistenza piemontese.
Insieme a un cugino, Foglino riesce a raggiungere la XX Brigata Garibaldi, un gruppo partigiano legato al Partito comunista italiano, di stanza nella valle di Corio.
Foglino viene mandato, insieme a una ventina di persone, in una grangia (una stalla in muratura) col compito di sorvegliare il territorio e di provvedere ai rifornimenti di viveri per i partigiani che combattono in montagna.
L’impatto col mondo resistenziale non è affatto epico: a parte la scarsità di cibo e le precarie condizione igieniche, il gruppo di Foglino rimane inoperoso per diversi mesi: «la vita scorreva monotona, e tutti sembravano soprattutto preoccupati a far scorrere il tempo, e a sopravvivere». Foglino e i suoi compagni sono costretti ad abbandonare la grangia ai primi di agosto, quando i tedeschi e i fascisti iniziano un’operazione di rastrellamento in grande stile. La giovane recluta fugge verso la montagna e dopo un’avventurosa marcia raggiunge Breno, dove viene ospitato da alcuni amici. Una volta ottenuto un lasciapassare grazie al padre, Foglino ritorna a Torino, dove completa gli studi superiori: «a settembre riesco a presentarmi per sostenere la maturità, quindi ad ottobre mi iscrivo al Politecnico di Torino».
La militanza in Giustizia e libertà
Proprio al Politecnico Foglino riallaccia i contatti con gli ambienti della Resistenza e ha modo di incontrare Francesco Pinardi, coordinatore locale del movimento giovanile di Giustizia e libertà, la formazione partigiana collegata al Partito d’azione.
Foglino (che ha preso il nome di battaglia di Pinco) viene incaricato di organizzare un gruppo clandestino a San Mauro Torinese, un paese a pochi chilometri dal capoluogo piemontese, e qui mette in piedi un nucleo partigiano formato da dieci persone.
Il gruppo s’impegna soprattutto in attività di propaganda, ma talvolta anche in azioni militari, disarmando alcuni soldati delle Brigate Nere e requisendo dei sacchi di grano nei magazzini dell’Ammasso di San Mauro (dietro però regolare pagamento con «buoni prelievo autorizzati al prezzo d’ammasso»). In questa ultima circostanza, come Pinco ricorda scherzosamente in una relazione inviata al comando partigiano, «i compagni partecipanti all’azione indossavano nasi e maschere carnevalesche che hanno fatto nei giorni seguenti ridere e commentare tutto il villaggio».
L’attività dei giovani azionisti subisce, tuttavia, un rallentamento in seguito alla fucilazione di Pinardi da parte dei fascisti e all’arresto di vari studenti del Politecnico. Lo stesso Pinco, ormai nella lista dei sospetti, abbandona San Mauro «per raggiungere la III Divisione “Langhe” Giustizia e Libertà». Tra marzo e settembre del 1945 egli dimora in una zona altamente rischiosa, muovendosi tra i paesi di Barolo, Diano, Lequio, Montelupo, Rodello, Serralunga, nei quali organizza gruppi di giovani ausiliari che fiancheggiano le formazioni partigiane maggiori.
Pinco, infine, prende parte a un’importante azione militare: il 15 aprile del 1945 la sua brigata partigiana partecipa a una battaglia presso Alba, il paese delle Langhe che, dopo essersi liberato dall’occupazione nazifascista tra il 10 ottobre e il 2 novembre del 1944, è caduto nuovamente in mano ai tedeschi.
Il “battesimo di fuoco”
Il racconto, in questa parte del libro, diviene più intenso e drammatico: il protagonista vive infatti il suo “battesimo di fuoco”, rischiando di morire.
Lo scontro fra partigiani e fascisti si fa sempre più cruento e raggiunge livelli parossistici. Mentre Pinco e tre suoi compagni stanno per espugnare un posto di blocco nemico nei pressi di piazza San Paolo, improvvisamente si accorgono di essere bersagliati da colpi sparati dall’alto: «ci stanno centrando le raffiche di mitragliatrice, i proiettili ci fischiano tutto intorno, c’è solo il tempo di buttarci dietro il muretto basso di un giardino». A sparare, però, non sono i repubblichini né i tedeschi, bensì... gli inglesi, asserragliati sui colli, che li hanno scambiati per fascisti!
I quattro partigiani riescono comunque a rifugiarsi in una chiesa, da cui assistono alla resa del gruppo nemico contro cui si sono battuti. E a questo punto il protagonista manifesta il profondo senso di umanità che lo anima, perché si rivolge ai prigionieri «con curiosità, più che con odio», cercando di capire perché «s’ostinino a combattere per contrastare la marcia inarrestabile dell’umanità verso un mondo migliore di giustizia e di pace». L’azione partigiana ha un valore puramente tattico e dimostrativo e si conclude con il rientro delle truppe nelle colline da cui sono partite.
Dieci giorni dopo giunge alla brigata di Foglino l’ordine di avviarsi verso Torino, quando ormai la guerra volge al termine.
La fine della guerra
La sera del 25 aprile 1945 la brigata di Pinco parte dalle Langhe in direzione del capoluogo piemontese, che viene avvistato all’alba del giorno seguente. Mentre la colonna partigiana si avvicina alla città, partono contro di essa delle raffiche di mitragliatrice: questa volta a sparare è un gruppo di soldati della Decima Mas – uno dei corpi militari meglio organizzati e più feroci della Repubblica sociale italiana – che hanno in precedenza occupato Narzole, uccidendo molti civili intenti a festeggiare la fine della guerra. I fascisti, dopo alcune ore di combattimento, si ritirano e i partigiani prendono possesso del paese, dove scoprono che più di venti persone sono state fucilate, tra cui tre partigiani (uno di loro, Annibale De Giorgis, sebbene gravemente ferito alla testa, è ancora vivo e verrà salvato dai soccorritori).
La marcia verso Torino si trasforma ben presto in una sfilata trionfale: «Si passava attraverso cittadine e villaggi, parati a festa, imbandierati con la popolazione plaudente che veniva a stringerci le mani e le donne che ci buttavano fiori e baci».
Giunti in città, Pinco e i suoi compagni vengono impegnati nella caccia agli ultimi cecchini nemici che resistono dentro le soffitte e sui tetti ed è in questo frangente che iniziano le esecuzioni capitali contro quei fascisti che hanno commesso crimini nei confronti della popolazione civile. Tuttavia, dato che qualcuno sta facendo giustizia a modo proprio, il Comitato di liberazione nazionale interviene prontamente «per riportare l’ordine in città e fermare le esecuzioni sommarie».
Pinco, infine, ha la gioia e l’onore di partecipare il 2 maggio 1945, tra una folla esultante, alla sfilata delle formazioni partigiane che hanno liberato Torino dai nazifascisti: «finalmente la guerra, le paure, le privazioni, tutto è finito; tutti sognano ora un futuro roseo di benessere, di pace, di giustizia sociale». Ritornato dopo qualche giorno nelle Langhe, egli sarà impegnato fino alla fine di settembre nella restituzione dei prestiti contratti dai partigiani e nel risarcimento delle requisizioni da loro eseguite, nonché nell’assistenza alle famiglie dei caduti.
Il “Comandante Marco”
L’ultimo capitolo di Gioventù partigiana è dedicato al ricordo di Giuseppe Martorelli (alias “Comandante Marco”), uno dei capi della brigata di Giustizia e libertà a cui viene assegnato Foglino nelle Langhe.
L’autore lo descrive come un uomo volitivo e coraggioso, dotato di carisma ma rispettoso degli altri: «Me lo ricordo alto, magro, con i lineamenti un po’ tirati, i capelli neri, gli occhi neri pungenti; forse fisicamente non doveva essere fortissimo ma aveva una volontà, un carattere di ferro che lo sosteneva e lo faceva sempre tirar avanti senza mai dimostrare un po’ di stanchezza o di debolezza; trattava tutti i suoi amicalmente, trasfondendo un senso d’umanità che ti faceva sentir compreso [...] e poi ispirava una tal fiducia che tutti l’avrebbero seguito anche all’inferno».
Martorelli, figlio di un avvocato antifascista morto in carcere sotto tortura, è tra i primi ad aderire alla formazione partigiana del Partito d’azione e si reca in Francia, dopo lo sbarco delle truppe angloamericane, per essere addestrato come guastatore.
Nel marzo del 1945 la madre di Martorelli va nelle Langhe a trovare il figlio che non vede da due anni e, parlandogli del padre ucciso, gli strappa la promessa «che non si sarebbe vendicato, che non avrebbe versato altro sangue».
E il “Comandante Marco”, finita la guerra, manterrà la parola data.
Martorelli e Foglino si incontreranno alcuni anni più tardi in Kenia, dove lo scrittore, conseguita la laurea in Agraria, è nel frattempo andato a lavorare, alla ricerca di un mondo nel quale «la gente, come la natura, sono meno contaminati, più puri».
La realtà dell’Italia postbellica
Nelle Conclusioni l’autore riflette su quello che è avvenuto dopo la Liberazione e su ciò che si è realizzato in Italia nel Secondo dopoguerra. Le sue considerazioni – che risalgono, ricordiamo, al 1953 – sono piuttosto disincantate: «il nostro sogno d’allora “un mondo migliore più libero e più giusto”, si è avverato solo in parte».
Le ragioni della sua delusione sono molteplici e vengono così spiegate: «ora prevale la lotta fra le forze politiche per il potere, si perde un sacco di tempo per battibecchi inutili, è una corsa verso il soddisfacimento d’interessi personali (carriera, denaro), serpeggia sotto sotto la corruzione, nei rapporti umani prevale l’egoismo; sembra che quello che più conta sia consumare e soddisfare i piaceri materiali».
Si tratta di una disamina impietosa, ma realistica, della società italiana degli anni Cinquanta, con una critica che anticipa di oltre un decennio quella del Sessantotto: «Mi sento deluso... rigetto questo tipo di vita, questo modo di sentire e si fa in me sempre più chiaro il convincimento di andarmene da qui e dall’Europa e vivere e lavorare nei paesi dove c’è più bisogno d’aiuto».
Le riflessioni conclusive di Gioventù partigiana ci appaiono di grande attualità, perché riteniamo che, per tanti aspetti, la società italiana non sia molto cambiata da allora. Certo, si è accresciuto il benessere materiale della gente e si sono realizzate importanti riforme civili e sociali, ma non è mai del tutto scomparsa l’Italia corrotta ed egoista da cui Foglino prende le distanze nella parte finale del libro.
Giuseppe Licandro
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 31, marzo 2010)
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