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Letteratura contemporanea (a cura di Maria Franzè) . Anno IV, n. 30, febbraio 2010

Zoom immagine Un individuo e la figura paterna,
una ricerca travagliata tra odio
e sensazione di inadeguatezza

di Fabio D'Angelo
Iacobelli edita un esordio letterario,
un romanzo dai tòpoi novecenteschi


In quale misura la figura paterna condiziona l’individuo, influenzandone carattere e scelte di vita? Fino a che punto il modello di paternità, ereditato dai genitori,  può essere innovato e migliorato, qualora sia stato fallimentare?

Questi alcuni degli interrogativi che sembrano aver dato sostanza all’ispirazione di Franco Davanzo, autore di un romanzo, a metà tra il genere giallo e quello psicologico-introspettivo, dal titolo Il padre dei sogni (Iacobelli, pp. 188, € 12,00).

Il protagonista, Italo Parenti, è un architetto veneziano con alle spalle un’infanzia segnata dal rapporto con un padre assente, avaro di effusioni, concentrato unicamente sul proprio lavoro e, a causa di esso, costretto a restare lontano da casa per lunghi periodi. Giunto il suo turno di assumere il ruolo di capofamiglia, Italo fallisce la prova e resta solo, separato dalla moglie e incapace di esercitare un peso rilevante sulla vita dei due figli, cui tuttavia continua a legarlo un affetto profondo. Quando il minore di essi, Enrico, decide di mettersi sulle tracce della donna libanese di cui si è innamorato, partita alla volta della Tunisia per misteriose ragioni, Italo decide di seguirlo: la scoperta della collusione della donna con ambienti ostili al governo di Gheddafi, infatti, lo convince della necessità di scongiurare un possibile coinvolgimento del figlio.

 

Il tema topico del viaggio

Tra peripezie e prove di coraggio, Italo giunge infine in Libia: il paese che fu occupato, all’inizio del Novecento, dalle truppe italiane, diviene l’approdo di una ricerca travagliata, destinata a rivelargli un volto inedito e sorprendente del padre, che lì aveva combattuto come soldato.

Le pagine finali del romanzo descrivono l’epilogo di una vicenda interiore che ha radici profonde nel passato del protagonista: il senso di inadeguatezza e i sentimenti di rancore, che costituivano i lasciti impalpabili del testamento paterno, finiscono per dissolversi, sostituiti da nuove certezze, ma soprattutto da un rapporto pacificato con la propria interiorità. Quello di Italo è un percorso psicologico che trova, all’interno del romanzo, un referente simbolico nel tema topico del viaggio. Non è un caso che egli sia originario di Venezia, città-mare per antonomasia, luogo storico di incontro tra culture eterogenee e crocevia di traffici internazionali.

Non è un caso, inoltre, che sia l’Africa a rappresentare la meta del suo viaggio: essa, infatti, incarna da sempre, nell’immaginario letterario, il luogo dell’esotico, il confine che costringe l’identità a rimettersi in discussione, che impone ad essa un confronto costruttivo con i propri limiti. L’Africa è altresì il punto d’arrivo ideale per l’inseguimento amoroso del giovane e impulsivo Enrico: costui sembrerebbe rievocare lo stereotipo, cantato dai lirici classici, dell’innamorato disposto a seguire l’amata in luoghi ignoti e pericolosi, facendosi così testimone e simbolo di dedizione totale.

Gli stessi paesaggi desertici, che fanno da sfondo al viaggio dei personaggi dalla Tunisia alla Libia, appaiono al lettore come una sorta di limbo, che il protagonista è costretto ad attraversare per raggiungere il “paradiso” della verità svelata; essi inoltre offrono, con la loro natura arida, le loro insidie nascoste, le loro temperature incostanti, l’immagine allegorica di un altro deserto, quello dei rapporti di Italo con l’umbratile, impenetrabile padre.

 

La nevrosi edipica

Proprio nella problematicità della figura paterna può rintracciarsi un altro motivo topico, comune a non pochi esempi della letteratura del Novecento e portato in auge da autori di conclamato spessore, quali Proust, Kafka, Svevo, Pirandello, Tozzi. L’eco della nevrosi edipica, che anima molte delle creature forgiate dalla penna di questi ultimi, non manca di manifestarsi nello stesso protagonista di Davanzo, seppure, non v’è dubbio, con risultati più modesti. L’inettitudine, che è una delle conseguenze classiche di questa nevrosi, si declina nel personaggio di Italo in «smania di successo», in «folle necessità di approvazione»: egli stesso sarà indotto a giustificare tali sintomi come frutto del «desiderio insopprimibile di surrogare l’approvazione» del padre.

Il confronto con la memoria paterna, in definitiva, costringerà Italo a porsi un interrogativo focale: può la felicità di un uomo compiersi nel suo quotidiano, sottraendosi al non-luogo e al senza-tempo della dimensione onirica? Nella risposta, Italo troverà la chiave della sua vicenda di figlio.

Il romanzo, in generale, appare ben strutturato. Sebbene in alcuni casi tradisca una tendenza a prediligere soluzioni, per così dire, semplicistiche, sia a livello linguistico che narrativo, frutto forse di uno stile non del tutto maturo, esso presenta comunque un intreccio che, oltre a nutrirsi di immagini complesse, consolidate nell’immaginario letterario, ben risponde ai requisiti di immediatezza e ritmo che il genere prescelto (giallo-thriller) impone.

Lo scrittore veneto riesce ad esaltare e a rendere più fruibili tali elementi grazie ad una prosa piana, eminentemente paratattica, che sembra scaturire direttamente dal cuore della sua ispirazione.

Un esordio letterario decisamente promettente.

 

Fabio D’Angelo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 30, febbraio 2010)

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