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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Riti e crimini:
la ’ndrangheta
oltre oceano
di Maria Saporito
Da Rubbettino un resoconto
“tragicomico” su un sistema
che crede ancora alle favole
Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Sembrano i nomi di tre paurose figure notturne; quelle che i genitori sviliti invocano per mandare a letto i loro figli, dopo aver scomodato inutilmente orchi e uomini neri. E invece, dietro la stravaganza di questi appellativi dal sapore fiabesco, si cela l’ombra della ’ndrangheta calabrese.
Ma andiamo per ordine. Il presidente dell’Osservatorio sulla legalità della Regione Lazio, Enzo Ciconte, e il magistrato Vincenzo Macrì hanno dato vita a un testo intenso e suggestivo che racconta la storia centenaria della malavita calabrese, sospesa tra passato e futuro. Si intitola Australian ’ndrangheta (Rubbettino, pp. 170, € 12,00) ed è un saggio avvincente e coraggioso, capace di scandagliare le maglie della criminalità meridionale che, dalla seconda metà del secolo scorso, decide di tentare fortuna all’estero, esportando uomini e risorse in terre lontane come l’Australia.
Il pregiudizio globale
Quella dei due autori è una prova decisamente riuscita, un felice caso di “ibrido” letterario in grado di coniugare l’esattezza del dato investigativo col fascino della narrazione. Ed è inoltre un omaggio affettuoso e sincero tributato alla memoria di Nicola Calipari. L’agente segreto italiano – tragicamente ucciso in Iraq nel marzo del 2005 durante la fase di liberazione della giornalista de il manifesto Giuliana Sgrena – era stato, infatti, in Australia agli inizi degli anni Ottanta; da giovane funzionario di polizia, era giunto a Canberra City per prestare aiuto e competenza ai colleghi del National Crime Authority, impegnati in un’inchiesta che si concentrava su un gruppo di malviventi di origine calabrese. Quando Calipari arriva in Australia c’è molto da fare. Con zelo e professionalità egli illustra le caratteristiche organizzative della ’ndrangheta nostrana e tenta soprattutto di abbattere un pregiudizio pesante, quello che grava sull’intera comunità italiana emigrata in Australia.
Nella relazione finale che Calipari consegna a compimento della sua missione, riferisce: «Lo scrivente ha colto ogni possibile occasione per rimarcare come […] l’onorabilità e il valore delle molto ben integrate comunità italiane in Australia non possono venire scalfiti dalle attività illecite dei pochi che hanno sciaguratamente deciso di porsi ai margini della legge». Un vero pregiudizio globale, in grado di vincere latitudini e secoli, che ha indotto Rosa Villecco Calipari (vedova di Nicola) a scrivere in una nota introduttiva al libro: «Mai come in questo momento storico, trovo attuale questo messaggio che svela ancora la pericolosità degli stereotipi per i quali tutti i calabresi e i siciliani erano mafiosi e per i quali oggi tutti i rumeni sono pericolosi criminali».
Il ponte invisibile che veicola soldi e droga
Ma al di là dei pregiudizi restano i fatti. Vincenzo Macrì, grande conoscitore del “sistema ’ndrangheta” in Italia e nel mondo, rovista tra le carte delle tante inchieste che hanno tentato di far luce sui traffici illegali dei calabresi “espatriati”, mostrandoci come tra la Calabria e l’Australia esista un ponte invisibile, una direttrice sciagurata in grado di veicolare ingenti somme di denaro e importanti quantità di droghe. È un passaggio pericoloso che prende le mosse dai vasti campi australiani coltivati a marijuana per foraggiare un mercato spregiudicato che giunge fino alla costa ionica del nostro paese.
In realtà nel libro viene ben evidenziato come i poliziotti italiani e quelli australiani tendano a sostenere due diverse tesi investigative. Se, infatti, gli apparati di casa nostra suggeriscono l’idea di un collegamento ben strutturato tra la ’ndrangheta calabrese e quella australiana, di tutt’altro parere sono i colleghi stranieri, i quali non rinnegano una discendenza dalla Calabria, ma affermano altresì che la comunità criminale stanziatasi nel loro territorio non intrattiene rapporti continuativi con la “casa madre” d’oltreoceano. Ad ogni modo, sfogliando le pagine di Australian ’ndrangheta si scopre, grazie alla chiarezza espositiva dei due autori, come esistano procedure comportamentali che contraddistinguono le diverse organizzazioni mafiose e permettono agli addetti ai lavori di individuare (con relativa facilità) la paternità di azioni e rivendicazioni. La ’ndrangheta ad esempio non ama i grandi delitti (prerogativa di Cosa Nostra), preferisce piuttosto dedicarsi al trasporto di stupefacenti ricorrendo alle più ardite metodologie. E, esattamente come gli altri sistemi mafiosi, rimane ancora oggi sospesa tra il passato e il futuro.
Osso, Mastrosso, Carcagnosso… e i santi
Enzo Ciconte è stato docente di Storia della criminalità organizzata e conosce bene gli ingranaggi operativi delle organizzazioni malavitose. Egli sa che il “marchio di fabbrica” dei mafiosi non si rintraccia solo nell’efferatezza dei crimini commessi o nella spregiudicatezza dei loro disegni, ma anche nelle semplici parole. Di questa mafia divenuta ormai globale, ma sempre ossequiosa del passato, egli ha analizzato le formule e i codici. E lo ha fatto “vivisezionando” i rari manoscritti compilati dagli ’ndranghetisti per rimarcare giuramenti e perpetuare credenze che il tempo avrebbe potuto minare. Attraverso la lettura di questi documenti (che vengono riportati per la prima volta nel libro) è possibile imbattersi in una dimensione assolutamente inedita della ’ndrangheta, custode gelosa di leggende che affondano le loro radici in una matrice arcaica, in bilico tra la fiaba e la religione. È in queste annotazioni svelte e minuziose che si incontrano i nomi di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre cavalieri spagnoli che, secondo il racconto fantastico tramandato dagli affiliati, dopo un lungo soggiorno nell’isola di Favignana, diedero origine alla mafia, alla camorra e alla ’ndrangheta. I loro nomi convivono con disinvoltura accanto a quelli dei tanti santi chiamati a testimoniare nei giuramenti di sangue, in una miscela suggestiva e irripetibile di sacro e profano. Ai limiti della blasfemia. «Da dove è uscita la prima camorra?» – si chiede in uno di questi codici – «Dal petto di nostro Signore Gesù Cristo» è la risposta. E ancora: «In quante parti si divide un camorrista?», «In tre parti come l’acciaio forte, come il ferro duro e umile come la seta»: è la risposta. E così via, in uno scorrere fluente di formule e passaggi intrisi di simbolismo e misticismo, in un ripetersi ossessivo di parole e immagini spesso sconnesse che denunciano una fanatica appartenenza.
Ecco la ’ndrangheta del terzo millennio, la mafia calabrese che guarda ai traffici mondiali e brucia santini; metafora perfetta di un sistema spietato e insicuro, ostaggio di un passato ingombrante partorito dall’ignoranza e dalla disperazione.
Maria Saporito
(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 30, febbraio 2010)