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Anno III, n. 27, Novembre 2009
Ripensare la società
attraverso il donarsi:
soltanto un’utopia?
di Francesca Rinaldi
Il Centro editoriale e librario dell’Unical
edita una moderna riflessione filosofica
Nella nostra società del “post” anche l’economia, basata sin dai tempi delle rivoluzioni industriali non più sullo scambio reciproco ma sulla produzione e soprattutto sul modo di produzione, si trova in una fase di “ripensamento”, forse “impossibile”. E allora possiamo, o meglio, è lecito accostare all’economia la parola “dono”? E soprattutto, questo accostamento è davvero impossibile?
Il libro di Rita Benigno L’utopia “in-comune”. Il tempo del dono (Centro editoriale e librario Università della Calabria, pp. 154, € 10,00) è un testo che parte proprio da una ricerca impossibile, e quindi utopica, ma che apre la strada ad un nuovo paradigma, ad una nuova idea di comunità.
Come ogni ricerca filosofica, anche questa comincia con un’analisi linguistica, semantica ma anche letteraria del “donare”. La prima parte (i primi quattro capitoli) inizia proprio dall’idea del dono esplorandone l’area semantica che rimanda ad alcuni gesti le cui variazioni sono infinite e che non riguardano solo il gesto del dare, offrire e dell’inconsapevole darsi: «c’è da chiedersi, anche, che dono si fa, che cosa si offre quando si “danno dei colpi”, quando si “dà la carica”, quando “ci diamo la zappa sui piedi” o “diamo adito a…”»; senza dimenticare che per mezzo del verbo dare si può esprimere la messa in scena di un inganno: “darla a bere”, “darsi per”, “darsi delle arie”. Poi la scena originaria dello scambio, fornita dal Saggio sul dono di Marcel Mauss, si presenta come fondatrice del sistema socioeconomico moderno: la prima forma di scambio non è il baratto, ma proprio il dono. Il dono, un atto che all’apparenza sembra innocente e generoso ma che genera un obbligo, il ricambiare, dunque la creazione di un circuito di scambio; ma che – seguendo Georges Bataille – va necessariamente inserito nel contesto della circolazione generale dei beni o, meglio, nel circuito “maledetto” della consumazione e delle leggi dell’economia generale.
Dallo scambio alla produzione, passando per il “sistema Toyota”
Quello che cambiò alla svolta del secolo – determinando l’inizio della cosiddetta società industriale – fu che la produzione si sostituì allo scambio portando alla luce come unità di misura il lavoro, concepito come sproporzionato ed illimitato cambiamento della natura per mano umana: è la perdita della libertà dell’uomo, la cui prigione è rappresentata, paradigmaticamente, proprio dal modello della fabbrica fordista. E dalla fabbrica si passa alla società del lavoro totale, che riduce la politica ad organizzazione (fordismo), e quindi assume l'intera forma di vita nel lavoro (postfordismo).
È l’alba di una nuova epoca che decreta la fine della connessione fra lavoro ed emancipazione, creando vite precarie ed uomini “flessibili” posti in una condizione peggiore di quella precedente: consulenti, lavoratori atipici, part time, collaboratori, lavoratori interinali, lavoratori in nero. È la nostra epoca, definita anche “della fine del lavoro”, che ha aperto il dibattito contemporaneo ancora in corso tra chi vede «lavoratori alienati che sperimentano crescenti livelli di stress in ambienti di lavoro ad alta tecnologia e una sempre maggiore incertezza del posto di lavoro», come Jeremy Rifkin, la cui idea di fondo è che le nuove tecnologie ed i nuovi metodi siano la causa della fine del lavoro salariato e chi come Daniel Cohen parla, di contro, di una «nuova classe operaia [...] reclutata più nei supermercati che nell’industria automobilistica» per arrivare a Paolo Virno con la sua concezione di “intellettualità di massa”. Ma ciò su cui gli studiosi concordano è il passaggio dal “mercato del lavoro” al “mercato dei lavori”: lavoro autonomo di prima e seconda generazione, lavoro atipico, lavoro sommerso. Un cambiamento radicale e peggiorativo del significato del lavoro e delle condizioni dei lavoratori.
«Cercare mezzodì alle quattordici», un’utopia e un inizio
Uno spartiacque, una Soglia, separa la prima parte del saggio della Benigno dalla seconda (gli ultimi tre capitoli). La Soglia ci spiega le varie tecniche di coercizione “imperiale”, attraverso le quali il “Nuovo Leviatano” controlla assolutisticamente e pervasivamente l’intera società. Da Antonio Negri e Michael Hardt, da Alessandro De Giorgi a Richard Sennett e anche Hannah Arendt, la riflessione filosofica si sofferma sulla nuova immagine della società contemporanea ormai ridotta ad una sorta di villaggio globale, nel quale i confini dello stato-nazione si dissolvono e le prospettive di profitto regolano i flussi di capitali, persone, beni e servizi, che si intrecciano nelle nuove reti dell’economia mondiale.
Ma questo nuovo ordine mondiale è «caratterizzato dalla produzione di una prosperità e di un benessere senza precedenti per i pochi e, nel contempo, da una miseria infinita per i più». A questa nuova società di disperati, l’impero risponde con un dono di “larghezza” spettacolarizzato: «Grandi “kermesse” televisive accompagnano le pratiche internazionali della “carità” e degli aiuti, alla stessa stregua delle divine largitio e delle sparsio degli augusti imperatori romani… Un dono avvelenato e ambiguo: una moneta falsa».
Ma ecco nella seconda parte, Jacques Derrida e Charles Baudelaire spiegarci che «la moneta falsa non è mai, come tale, moneta falsa», c’è sempre (anche qui come in Linguistica) una “doppia articolazione” dell’evento. La prospettiva è di ordine etico e la risposta sarebbe anche la risposta al dono: «Il problema è quello della destinazione: dovremmo riuscire a concepire un dono che si smarca dall’origine e in cui, quindi, l’accadimento non giunge ad una destinazione, o limite, perché tutto è continuamente aggiornato. In questo caso, egli corrisponderebbe al senza ritorno: una pratica illimitata, senza coscienza e senza pensiero (altrimenti rientrerebbe nell’ambito economico); se si vuole, è una diversa possibilità di concepire l’eccedenza». E allora, l’impossibilità del dono di sfuggire all’economia (che era, come per Derrida, «cercare mezzodì alle quattordici») viene superata dal fatto che il dono è tale soltanto se non arriva a fenomenalizzarsi. La vita stessa è dono, sfugge al fenomeno, perché legata “al tempo”. Proprio questo è il dono: «il suo segreto: segreto del tempo e dell’evento». Il dono diventa proprio il tempo, in cui il fenomeno accade e poi riaccade: il tempo si dona, o ci è donato.
Il dono del tempo dell’esistenza, non di quello della produttività e del consumo; dono di sé e della propria storia, tempo della speranza e del futuro. Ma questo è un vero cambiamento di paradigma, che potrebbe ridimensionare il modo di lavorare e definire ciò che l’uomo è e deve essere. I rapporti tra le persone, la convivenza politica, il nesso tra politica e libertà sono il centro del pensiero della comunità e la società che parte da questi concetti è fondata sulla metafora della scuola dove una convivenza politica è primariamente educazione costante e reciproca. Il “dare” diventato “darsi”, quindi “dono di sé” e non di oggetti, crea dunque una libertà del dono che è il dono della libertà.
Francesca Rinaldi
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 27, novembre 2009)
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