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Direttore editoriale: Maria Ausilia Gulino
Anno III, n. 26, Ottobre 2009
Il Pci prima e dopo il Muro,
da Togliatti fino a Veltroni
ambiguità e contraddizioni
dei comunisti di casa nostra
di Guglielmo Colombero
Da Rubbettino in un’antologia di saggi
l’analisi di decenni di politica ambigua
«I cardini dell’esperienza comunista italiana e il suo patrimonio di idee erano stati difesi fino all’ultimo, con una ostinazione che sfiorava la cecità. Poi, di colpo, sparire: senza una parola e senza lasciar nulla dietro di sé». In queste parole lucide e amare di Aldo Schiavone – un dirigente del vecchio Pci che ingoiò la svolta della Bolognina senza mai veramente digerirla – si racchiude il senso ultimo di questa antologia di saggi edita da Rubbettino: L’influenza del comunismo nella storia d’Italia. Il Pci fra via parlamentare e lotta armata (pp. 246, € 15,00). Gli autori – Giancarlo Lehner, Gaetano Quagliariello, Aldo G. Ricci, Victor Zaslavsky, Pietro Craveri, Giovanni Orsina, Andrea Guiso, Gianni Donno, Simona Colarizi, Sergio Bertelli – hanno partecipato al convegno organizzato a Roma nel marzo 2007 dalla Fondazione “Magna Carta” e da “L’Ircocervo”, e i loro interventi ne costituiscono gli atti, raccolti dal parlamentare Fabrizio Cicchitto. Ostinazione e cecità, dunque, secondo il nostalgico Schiavone, e il lettore si interroga sulle motivazioni che nutriva una base disciplinata e obbediente, e solo in rarissimi casi dissidente rispetto alle direttive talvolta sconcertanti di un gruppo dirigente che, nel ventennio compreso fra il 1934 e il 1953, si mostrava succube di Stalin. Riguardo all’era staliniana, il quadro tratteggiato da Lehner in I comunisti italiani nel ’40 a Mosca è agghiacciante: Palmiro Togliatti – già pesantemente implicato nell’eliminazione fisica di anarchici e trotzkisti a Barcellona nel 1937 – controfirma senza battere ciglio il documento che, dopo il patto di non aggressione sovietico-tedesco del 23 agosto 1939, condanna a morte l’intero Partito Comunista polacco. Per non parlare dell’arresto e della deportazione di migliaia di militanti comunisti (molti dei quali italiani) sospettati di deviazionismo: quasi tutti inghiottiti dal tritacarne dei gulag, e i pochi sopravissuti, rientrati in Italia dopo l’avvento di Kruscev, costretti al silenzio dal Pci per non incrinare i rapporti con la nomenklatura moscovita.
Antifascisti sì, antifascisti no. È sempre Mosca che decide
Quagliariello, in La fortuna di Togliatti, la sfortuna di Thorez, si sofferma su uno snodo cruciale, rappresentato dalle conseguenze del Patto Ribbentrop-Molotov sui partiti comunisti francese e italiano. Stipulato da Stalin in funzione prettamente difensiva, dopo il fallimento di un’intesa in chiave antinazista con Francia e Regno Unito (che già avevano cinicamente abbandonato al loro destino Austria e Cecoslovacchia), l’accordo con Hitler permette all’Urss (grazie a un protocollo segreto) non solo di guadagnare quasi due anni di tregua ma anche di espandere le proprie frontiere: la Polonia orientale annessa nel settembre 1939, la Carelia strappata alla Finlandia a dicembre, le repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania invase l’anno dopo. Dopo la firma del patto di non aggressione, Mosca proibisce tassativamente qualsiasi manifestazione di antipatia o di ostilità verso il Terzo Reich. Sia Togliatti che il francese Thorez si allineano a tale direttiva senza discutere, ma i rispettivi partiti ne escono disintegrati (quello francese addirittura viene dichiarato illegale dal governo Daladier, in quanto contrario alla guerra contro la Germania).
Contrordine il 22 giugno 1941: la Wehrmacht irrompe dentro i confini dell’Urss e tutti i partiti comunisti occidentali sono mobilitati nella lotta al nazifascismo, a sostenere la Grande Guerra Patriottica proclamata da Stalin. Hitler ridiventa un nemico e la sua cricca torna ad essere bollata come una banda di gangster. Ovviamente Togliatti si adegua prontamente a questa giravolta e, come immortalato da Orwell nel romanzo 1984, la Storia viene riscritta, il passato recente rimosso: il Patto Ribbentrop-Molotov deve dissolversi nell’oblio, i comunisti italiani sono sempre stati antinazisti, e chi afferma il contrario è un traditore, una spia, un rinnegato… Nel Dopoguerra nasce un nuovo teorema, analizzato da Orsina in Il Pci e la gestione dell’antifascismo: quello del ruolo egemonico del Pci nella Resistenza. Innegabile che il contributo del Pci alla Liberazione sia stato determinante, con un altissimo prezzo di sangue: ma anche socialisti come Nenni, repubblicani come Pacciardi, azionisti come Lussu e liberali come Rosselli hanno partecipato alla lotta contro il nazifascismo. Il Secondo Risorgimento targato falce e martello è una geniale invenzione della propaganda comunista, abilissima nell’elaborare una mitologia della Resistenza in funzione autocelebrativa. Conclude sarcasticamente Orsina: «Il sistema politico italiano i comunisti li ha pagati, e profumatamente, proprio per il fatto che non cambiavano, attivando una dinamica consociativa fondata sull’antifascismo». Anche Zaslavsky, alla luce di una vicenda emblematica quale la scomunica di Tito da parte di Stalin nel 1948, riflette, in Le conseguenze sulla storia d’italia della rottura tra Stalin e Tito, sulla sudditanza del Pci nei confronti di Mosca: Mosca dettava le regole non solo su chi etichettare come antifascista e chi no, ma anche sulla prospettiva di un eventuale ricorso alla lotta armata negli stati del blocco occidentale. La storiografia marxista ha sempre sostenuto che fu il buon senso di Togliatti a impedire che il nostro paese precipitasse nel baratro della guerra civile, ma esistono non pochi indizi a sostegno di una ben diversa congettura: che furono la sconfitta dei comunisti nella guerra civile in Grecia (che Stalin non solo non impedì, ma fomentò apertamente) e la rottura con Tito a far considerare inopportuna da Mosca una forzatura della situazione italiana.
Compagni di strada e nemici di classe
Nel contesto della strategia gramsciana di conquista dell’“egemonia”, Guiso ricostruisce la parabola de I «compagni di strada» del Pci con una disamina puntuale, a partire dal significato lessicale del termine: decisamente spregiativo, quasi a voler indicare un ruolo strumentale e passivo, da fiancheggiatori utili per mantenere il contatto con i salotti che contano. Osserva acutamente Guiso che le organizzazioni dei simpatizzanti «“avvolgono” il movimento in una “nebbia di normalità” e di “rispettabilità”», che rende indistinti i suoi reali contorni totalitari. La figura del cosiddetto “intellettuale progressista” che offre un appoggio esterno al Pci confluisce nell’ibrido parlamentare della Sinistra Indipendente: che poi tanto indipendente non è, visto che nessuno dei suoi esponenti negli anni ’70 osa denunciare il totalitarismo sovietico. Il fenomeno del “frontismo” trova interlocutori prestigiosi come il laico Bobbio (teorico di una continuità filosofica fra illuminismo e marxismo, in contrapposizione all’“oscurantismo imperialista e clericale”) o il cattolico Jemolo (firmatario di una petizione a senso unico contro il Patto Atlantico: sul Patto di Varsavia invece nessuna obiezione), ma, alle soglie del decennio successivo, inizia già a liquefarsi, per svanire del tutto alla morte di Berlinguer nel 1984, il quale, citando le parole di Guiso, «lasciava in eredità una drammatica crisi di identità e di strategia politica la cui portata non poteva essere risolta entro i semplici limiti di un restyling ideologico o di un adattamento ai tempi nuovi del linguaggio politico». Sul versante opposto, quello degli antagonismi politici all’interno della sinistra italiana, in I nemici riformisti. Gramsci e la demonizzazione della socialdemocrazia, la Colarizi scandaglia il pensiero di Gramsci senza nessun timore reverenziale nei confronti del padre fondatore del comunismo italiano. Insolitamente aggressivo e virulento sotto il profilo verbale, Gramsci aveva apostrofato i fondatori del Psi come “muli bendati” e “stracci sporchi” (quest’ultimo insulto era diretto a Bruno Buozzi, sindacalista socialista e futuro martire della Resistenza). E a termini ancora più pesanti ricorreva il filosofo marxista per bollare il riformismo socialista: una “cricca” di “buffoni”, di “disgraziati”, “trasgressori alle leggi fondamentali della convivenza umana” per i quali la Storia riservava come punizione “la morte nel disonore”. Scrive la Colarizi che «la teoria del “socialfascismo” non era stata ancora elaborata dalla Terza Internazionale, ma già in questo periodo aveva gettato solide basi». Va comunque sottolineato che, in diversi successivi scritti di Gramsci dal carcere, la pregiudiziale antisocialista degli anni Venti viene a cadere del tutto, e il fondatore del Pci si dichiara a favore di un fronte unico di tutti i partiti antifascisti: una posizione coraggiosa che lo condanna all’isolamento fino al 1934, quando finalmente anche a Mosca prevale l’orientamento favorevole ai Fronti Popolari, culminato due anni dopo nel sostegno alla Repubblica spagnola.
L’ora della Rivoluzione che non scocca mai
Un altro argomento scottante che riguarda il Pci e i suoi eredi è il fiume carsico della lotta armata, un canale parallelo alla via parlamentare rimasto sempre nell’ombra, e mai del tutto chiarito. Lo affrontano Ricci, in I timori di guerra civile nelle discussioni dei governi De Gasperi, Donno in I comunisti italiani e i piani d’invasione del Patto di Varsavia e Craveri in Il Pci nella stagione centrista e oltre. Ricci definisce la situazione fra il 1947 (estromissione di comunisti e socialisti dal governo De Gasperi) e il 1960 (moti di piazza contro il governo Tambroni) come «un assedio che dura almeno dieci anni: a metà strada tra la guerra di Troia (per la durata) e il Deserto dei Tartari (per il senso di attesa di un pericolo incombente). Il quadro che esce dai verbali non è quello di un Pci emarginato e perseguitato, come spesso è stato descritto, ma, al contrario, quello di un governo in perenne stato d’assedio». Scioperi politici, rigurgiti di violenza nelle campagne, pieno sostegno della stampa comunista al terrorismo delle milizie di Tito a Trieste culminato nell’orrore delle foibe: una specie di “lato oscuro” del Pci nei primi due anni di vita della Repubblica italiana. E, pochi mesi prima delle elezioni del 1948, Togliatti definisce alla Camera il Piano Marshall (che, fino a prova contraria, ha salvato dalla morte per fame milioni di bambini italiani) come un “piano di guerra” e Saragat che lo sostiene un “rinnegato della classe operaia”. Ed è proprio l’attentato contro Togliatti del 14 luglio di quell’anno che fa emergere l’esistenza di una struttura paramilitare del Pci pronta a insorgere al momento giusto. Un momento che non venne mai, come sottolinea Craveri quando allude a «una guerra civile, che per fortuna non è deflagrata, pur manifestando molti acuti e inquietanti sintomi». Le riflessioni di Donno puntano invece a mettere in luce quali fossero i legami del Pci con il blocco politico-militare del Patto di Varsavia: come si sarebbero comportati i comunisti italiani se il nostro paese si fosse trovato nelle condizioni dell’Ungheria nel 1956 o della Cecoslovacchia nel 1968? Difficile rispondere a un tale quesito: l’attendibilità del dossier Mitrokhin è apparsa alquanto discutibile (il dibattito è ancora in corso, anche se la maggioranza degli analisti propende per l’inautenticità di gran parte dei documenti che lo compongono), e anche l’esistenza di “cellule speciali” del Pci addestrate a un’eventuale attività di collaborazionismo con gli invasori sovietici (la “Gladio rossa” di cui parla Craveri) resta al livello di ipotesi non suffragata da prove concrete. Spetta a Bertelli trarre le conclusioni del dibattito, in La memorialistica comunista prima e dopo la caduta del Muro, che è sicuramente il più graffiante dei saggi di questa antologia: il giudizio sul nuovo gruppo dirigente dell’ex Pci (passato attraverso tre successive metamorfosi in un ventennio: prima Pds, poi Ds, adesso Pd, incluse le scissioni di Rifondazione e del Pdci) è impietoso e, nei confronti di Walter Veltroni, anche singolarmente profetico. Nella sua rivalutazione postuma della controversa figura di Enrico Berlinguer, l’allora segretario del Pd ne enfatizza (legittimamente) le luci (la sia pure timida democratizzazione del partito, la ferma condanna del terrorismo brigatista, il rilievo dato alla questione morale nelle istituzioni, la sostanziale accettazione dell’ombrello della Nato e della collocazione occidentale dell’Italia) ma ne rimpicciolisce il più possibile le ombre (Berlinguer si mostrò incapace di svincolare il Pci da Mosca, limitandosi a una condanna puramente esteriore della brutale repressione della Primavera di Praga e del colpo di stato in Polonia, e non riuscì a raccogliere i frutti di un ingente patrimonio di consensi elettorali, che finì per disperdersi dopo la sua scomparsa). Conclude Bertelli, con una lucida e affilata premonizione (il libro è stato stampato nel 2007, un anno prima della catastrofe elettorale che ha riconsegnato il paese a Berlusconi): «In questa riabilitazione di un uomo politico che ha fallito in tutte le sue proposte, il quale è stato incapace di fornire una strategia ai propri seguaci (“non si vedono vie d’uscita”), ha un tantino odore di necrofilia consolarsi scrivendo che “quello di Berlinguer fu il più grande funerale della storia d’Italia”».
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 26, ottobre 2009)
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