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Anno III, n. 24, Agosto 2009
Reggio 1970-1971:
la rivolta più lunga
della storia italiana
di Giuseppe Licandro
Da Rubbettino le diverse motivazioni
che causarono la protesta calabrese
Fra il luglio 1970 e il febbraio 1971 Reggio Calabria fu sconvolta da una lunga rivolta popolare, che, a detta di Gaetano Cingari, «non ha riscontro nella storia unitaria nazionale e, in quanto a motivazioni e modalità di svolgimento, nemmeno nelle società democratiche contemporanee».
La protesta, nata intorno alla spinosa questione del capoluogo regionale, provocò cinque morti (considerando anche i disordini del 17 settembre 1971), diverse centinaia di feriti e migliaia di arresti, con un dispiegamento di forze dell’ordine mai visto in Italia in tempo di pace.
Ben presto la guida del movimento passò nelle mani del Comitato d’azione, al cui interno emersero figure – come Ciccio Franco – legate al Movimento sociale italiano.
Fu proprio l’estrema destra a farsi portavoce – in modo del tutto strumentale, a nostro avviso – delle istanze di riscatto della cittadinanza reggina, approfittando anche dell’impasse in cui le altre forze politiche si trovarono ad operare.
Un fenomeno di azione collettiva
Negli ultimi anni si è registrato un rinnovato interesse per i Fatti di Reggio, come stanno a testimoniare il film Liberarsi: figli di una rivoluzione minore di Salvatore Romano, vari spettacoli teatrali e alcuni libri dedicati all’argomento.
L’indagine storiografica più esaustiva è senza dubbio quella realizzata da Luigi Ambrosi, dottore di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università “Sapienza” di Roma, che ha recentemente pubblicato La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970 (Prefazione di Salvatore Lupo, Rubbettino, pp. 316, € 19,00). Il volume, frutto di uno studio basato su documenti d’archivio e testimonianze orali, è corredato da una ricca Documentazione fotografica, da un puntuale Elenco delle fonti e da un’esauriente Bibliografia ragionata.
L’autore, nell’Introduzione, spiega di voler esaminare la rivolta reggina «come fenomeno di azione collettiva, che, in quanto tale, ha origini, sviluppi ed esiti subordinati essenzialmente alle logiche dell’azione collettiva stessa», intendendo liberare il campo da alcuni luoghi comuni, secondo cui i Fatti di Reggio hanno rivestito un mero significato campanilistico o hanno svolto un ruolo centrale nella cosiddetta “strategia della tensione”.
Pur non sottacendo vari episodi terroristici avvenuti a Reggio e nella sua provincia durante la protesta, Ambrosi ritiene che la rivolta non possa ridursi semplicemente a trama eversiva, bensì vada analizzata «in quanto evento in cui si concentrarono processi di più ampia durata», in particolare «la competizione fra territori», «il rapporto tra cittadini e Stato» e «il consenso ai partiti di massa».
Tre furono, a suo avviso, i fattori qualificanti del moto reggino: «il motivo originario, il capoluogo [...]; il tratto distintivo, la violenza [...]; il tono prevalente, l’antipartito». A ciò sono riconducibili tre categorie storiografiche che il libro si propone di esaminare: l’«identità territoriale», l’«ordine pubblico» e la «retorica populista».
L’inizio della rivolta
La Parte prima del volume descrive gli avvenimenti più importanti che segnarono la sommossa, partendo dal periodo di incubazione che risale al 1947, allorché si discusse per la prima volta la questione del capoluogo regionale.
La rivolta venne innescata dal comizio che il sindaco di Reggio, il democristiano Piero Battaglia, tenne il 5 luglio del 1970 di fronte ad alcune migliaia di persone, durante il quale «fu lanciata la mobilitazione di piazza e i rappresentanti reggini furono invitati a disertare la prima riunione dell’assemblea regionale». Fu proclamato uno sciopero generale di cinque giorni a partire dal 14 luglio e, in quella data, un corteo di circa 500 persone manifestò pacificamente nella zona centrale della città, mentre altri dimostranti occuparono simbolicamente le stazioni ferroviarie di Reggio Calabria e di Villa San Giovanni. In tarda serata, però, scoppiarono alcuni incidenti tra le forze dell’ordine e i manifestanti, che proseguirono anche nei giorni seguenti, dando vita a quelle che furono definite come «le cinque giornate di Reggio».
Il 15 luglio avvenne un episodio gravissimo, la cui dinamica non fu mai del tutto chiarita: il ferroviere Bruno Labate fu rinvenuto esanime in una strada del centro cittadino e spirò mentre veniva trasportato in ospedale. La morte di Labate, attribuita dalla maggioranza dell’opinione pubblica locale alle forze di polizia, esacerbò gli animi, scatenando una vera e propria guerriglia urbana, che culminò il 18 luglio nel primo assalto al palazzo della Questura.
Il 22 luglio ci fu il deragliamento del treno “Freccia del Sud” nei pressi della stazione ferroviaria di Gioia Tauro, che provocò sei morti (secondo alcuni pentiti, si trattò di un attentato messo in atto dalla ’Ndrangheta su mandato di alcuni notabili locali).
Il 29 luglio nacque il Comitato d’azione, che prese in mano le redini della sommossa, anche se in quel periodo sorse altresì il Comitato unitario, di tendenze più moderate, che però incise poco sugli eventi.
Da settembre 1970 a febbraio 1971
La protesta riprese con intensità a settembre, quando il nuovo governo, presieduto da Emilio Colombo, non seppe esprimersi chiaramente sulla questione del capoluogo.
Il 17 settembre ci furono duri scontri fra polizia e dimostranti: durante un tafferuglio venne colpito a morte – probabilmente dai colpi esplosi da un carabiniere – Angelo Campanella, autista dell’azienda municipalizzata dei trasporti; un successivo assalto da parte di un centinaio di rivoltosi al palazzo della Questura provocò il decesso dell’agente Vincenzo Curigliano, colto da collasso cardiocircolatorio (in seguito a un trauma toracico).
Il 16 ottobre Colombo annunciò che «ogni decisione sulla designazione del capoluogo era rimessa al parlamento, il solo organo capace di un giudizio distante e perciò equilibrato». Una «tregua inquieta» regnò a Reggio per diversi mesi, durante i quali si registrarono disordini vari e fece la sua comparsa Adriano Sofri, leader di Lotta continua, che tentò vanamente di dare ai moti un orientamento rivoluzionario.
All’inizio del 1971 la rivolta riesplose: il 13 gennaio, a bordo di un treno, l’agente di polizia Antonio Bellotti fu colpito alla testa da un sasso, spirando dopo tre giorni al Policlinico di Messina. Un’altra tragedia ci fu il 4 febbraio a Catanzaro, quando, durante una manifestazione antifascista, il muratore Giuseppe Malacaria fu ucciso da Un’altra tragedia ci fu il 4 febbraio a Catanzaro, quando, durante una manifestazione antifascista, il muratore Giuseppe Malacaria fu ucciso da una bomba i cui responsabili – almeno dal punto di vista della “verità giudiziaria” – sono rimasti ignoti.
Il parlamento, nel frattempo, attribuì di nuovo la scelta del capoluogo al Consiglio regionale della Calabria, il quale il 16 febbraio stabilì a maggioranza che «Catanzaro avrebbe avuto la sede della Giunta e il titolo di capoluogo mentre a Reggio si sarebbe riunito il Consiglio». Cosenza fu indicata come sede della costituenda Università della Calabria e si chiese al governo di ubicare il V centro siderurgico – rivelatosi poi fantomatico – in provincia di Reggio.
Nei giorni seguenti la ribellione ebbe termine, grazie al massiccio intervento di forze dell’ordine e di mezzi corazzati che permise lo sgombero delle barricate nei quartieri reggini di Sbarre e Santa Caterina, dove persistevano i focolai della sommossa.
I rigurgiti della protesta e i suoi esiti
Anche se la rivolta si concluse il 23 febbraio 1971, nei mesi successivi si verificarono altri incidenti. Il 17 settembre venne eretta una barricata lungo il ponte Calopinace (nella zona Sud della città) e s’innescò uno scontro a fuoco tra i dimostranti e le forze dell’ordine, durante il quale rimase ucciso Carmine Jaconis, un giovane barista che stava osservando a distanza i disordini.
Il 7 e l’8 maggio 1972 si tennero in Italia le elezioni politiche, che a Reggio provocarono un autentico “terremoto”: l’Msi raggiunse il 27,1 per cento alla Camera e il 32,6 per cento al Senato, mentre risultarono penalizzati i partiti della coalizione di centrosinistra al governo e – in misura minore – i comunisti.
Fu anche per lanciare un segnale di attenzione ai problemi della popolazione locale che i sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil decisero di indire proprio a Reggio una manifestazione nazionale per lo sviluppo del Mezzogiorno, che si tenne il 22 ottobre 1972, con la partecipazione di circa 35.000 lavoratori, in un clima assai teso.
Nel volgere di pochi anni, tuttavia, la situazione a Reggio mutò radicalmente e la città riprese i suoi abituali orientamenti elettorali. Alle votazioni amministrative del 1975, infatti, la Dc riacquistò la perduta egemonia, conseguendo ben il 40,2 per cento dei consensi, mentre l’Msi si assestò intorno al 15 per cento dei voti (più o meno sullo stesso livello dei socialisti e dei comunisti).
La normalizzazione, tuttavia, non fu completa, perché – come ricorda Ambrosi – «in città rimase una consistente presenza dell’Msi» e si stabilì da allora «una maggiore compenetrazione tra le forze politiche e le organizzazioni criminali, in un vortice affaristico che sparse sangue e soldi».
Identità territoriale e ordine pubblico
Nella Parte seconda l’autore si sofferma a trattare le tre categorie storiografiche di «identità territoriale», «ordine pubblico» e «retorica populista» che, a suo avviso, segnarono profondamente la protesta reggina.
Dietro la richiesta del capoluogo si celò «la regginità», ossia il bisogno d’identificazione collettiva di una città considerata marginale nel contesto politico dell’epoca. Fu attraverso la rivendicazione del «primato regionale» e della difesa degli «interessi della città» che tale identità si concretizzò, coinvolgendo quasi tutta la popolazione, al di là della condizione sociale o dell’appartenenza ideologica.
Anticipando di qualche decennio le spinte federaliste oggi assai in voga, venne addirittura proposto il progetto – mai realizzato, peraltro – di creare una nuova regione, coincidente con la provincia di Reggio.
Un movente della violenza che animò la rivolta va ricercato nel comportamento della polizia durante la prima giornata di protesta. Ambrosi, infatti, ritiene «la carica in piazza Italia della sera del 14 luglio come la causa del precipitare della situazione» e, pur ricordando che l’assalto fu scatenato da un lancio di sassi da parte di alcuni dimostranti, giudica sproporzionata la reazione delle forze dell’ordine. Alla repressione della polizia fece seguito, infatti, l’escalation della sollevazione popolare. Si registrarono, inoltre, comportamenti spesso poco ortodossi da parte degli apparati di sicurezza, in special modo dei reparti della Celere, e, nonostante l’atteggiamento razionale mantenuto dal questore Emilio Santillo e dal prefetto Giorgio De Rossi, si manifestò a tratti il carattere strutturalmente autoritario della forza pubblica.
In questo contesto s’innescarono anche le manovre della ’Ndrangheta e dell’estrema destra neofascista. Ambrosi, però, tende a separare nettamente l’azione popolare dalle trame eversive, tenendo distinto «il fenomeno collettivo di massa dalle ragioni più oscure dei vari soggetti che intendevano perseguire [...] obiettivi diversi da quelli che rimasero i soli condivisi da tutto il movimento di protesta».
All’autore appare inammissibile che a pagare le conseguenze penali della protesta siano stati soprattutto dei giovani inesperti, cui fu anche rifiutato un provvedimento di clemenza, e che non sia mai stata istituita «una commissione parlamentare d’inchiesta su vicende che in molti avevano definito torbide».
La retorica populista
La propaganda dei rivoltosi assunse il vocabolario tipico di quella che suole definirsi «retorica populista», con un «continuo e legittimante appello al “popolo”» e una spietata critica nei confronti della classe dirigente.
«Tradimento» e «mafia politica» furono i vocaboli con cui si stigmatizzò il comportamento della maggioranza dei politici locali. «Accordo sottobanco», «intrigo» e «spartizione» furono le espressioni con le quali si bollò il presunto patto stipulato tra Giacomo Mancini (segretario nazionale del Psi), Riccardo Misasi (ministro della Pubblica istruzione) ed Ernesto Pucci (sottosegretario agli Interni), che avrebbero deciso di assegnare a Catanzaro il capoluogo regionale e a Cosenza la sede dell’Università della Calabria. «Vile baratto» fu definito il compromesso del febbraio 1970 che attribuì a Reggio la sede del Consiglio regionale e l’ubicazione del V centro siderurgico. «Boia chi molla» fu lo slogan del Comitato d’azione, che animò le posizioni più intransigenti, richiamandosi esplicitamente alla retorica dannunziana.
Si affermò, in tal modo, «un populismo antipartito che delegittimava le forze politiche sia di governo e sia d’opposizione facenti parte dell’arco costituzionale».
La disaffezione della gente verso gli amministratori locali si manifestò simbolicamente il 10 settembre 1971: alla fine della processione in onore della Madonna della Consolazione, protettrice della città, in segno di protesta il quadro della Vergine non fu consegnato alle autorità cittadine – come avveniva tradizionalmente fin dal 1693 –, bensì all’arcivescovo metropolitano.
Un segno premonitore
Nelle Conclusioni del libro Ambrosi ribadisce che quella di Reggio «fu dal principio e rimase fino al termine una rivolta per il capoluogo regionale». Sebbene si possano evidenziare concause rilevanti (disoccupazione, bassi redditi, sottosviluppo agricolo, critica del sistema dei partiti, ecc.), l’obiettivo del «primato regionale» risultò «l’unico capace di condizionare in modo decisivo la mobilitazione collettiva», anche perché il capoluogo offriva a molti reggini immediate possibilità occupazionali.
Frutto di una serie di circostanze particolari e sintomo d’impotenza di fronte ai “poteri forti”, la protesta reggina fu anche «un segno grave e premonitore [...] delle fragili basi di consenso su cui era basata la “repubblica dei partiti”» e anticipò «processi che si sarebbero affermati in seguito, su scala nazionale e non solo».
Ciò che avvenne a Reggio, quindi, fu la prima avvisaglia della lenta ma inesorabile crisi della Prima repubblica, il cui culmine si sarebbe raggiunto un ventennio dopo.
Una vittoria “giovane” a distanza di quasi quarant’anni
L’opera prima del giovane storico, oltre ad essere stata ospite sul palco decisamente più “narrativo” del Premio “Tropea” 2009 (vinto da Gli anni veloci di Carmine Abate), ha poi trionfato – a distanza di qualche giorno e a distanza di qualche chilometro – al Premio ''Palmi'' 2009, nella sezione Saggistica “Antonio Altomonte”.
Il verdetto ha trovato concordi la giuria tecnica (presieduta da Walter Pedullà e composta da Pier Francesco Borgia, Corrado Calabrò, Rocco Familiari, Luigi Maria Lombardi Satriani, Michele Mari, Raffaele Nigro e Santino Salerno) e la giuria popolare. La palma d'argento è stata consegnata all'autore durante la cerimonia di premiazione del 25 luglio 2009.
Giuseppe Licandro
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 24, agosto 2009)
Agata Garofalo, Anna Guglielmi, Mariangela Monaco, Antonietta Zaccaro, Elisabetta Zicchinella
Giulia Adamo, Maria Elisa Albanese, Lalla Alfano, Mirko Altimari, Valeria Andreozzi, Simona Antonelli, Sonia Apilongo, Yael Artom, Claudia Barbarino, Anna Borrelli, Valentina Burchianti, Giovanna Caridei, Paola Cicardi, Rocco Colasuonno, Guglielmo Colombero, Simona Corrente, Simone De Andreis, Gaia De Zambiasi, Marina Del Duca, Maria Rosaria Ferrara, Elisabetta Feruglio, Paola Foderaro, Vilma Formigoni, Anna Foti, Sara Gamberini, Simona Gerace, Barbara Gimigliano, Patrizia Ieraci, Giuseppe Licandro, Rosella Marasco, Francesca Martino, Valentina Miduri, Sara Moretti, Mariflo Multari, Anna Picci, Mariastella Rango, Marilena Rodi, Roberta Santoro, Marzia Scafidi, Fulvia Scopelliti, Valentina Stocchi, Sara Storione, Pasquina Tassone, Alba Terranova, Raffaella Tione, Filomena Tosi, Laura Tullio, Monica Viganò, Andrea Vulpitta, Carmine Zaccaro, Paola Zagami