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Anno III, n.25, Settembre 2009
L’Unione Europea tra storia
e sfide future da affrontare,
in uno studio politologico
ricco di spunti di riflessione
di Mariangela Monaco
Rubbettino edita un interessante saggio
che mette in luce le varie problematiche
La straordinaria avventura del processo di integrazione europea è stata oggetto di svariate analisi: indagini storiche, politologiche, economiche. Impostazioni diverse, certamente, anche nell’ambito di una stessa disciplina, ma che hanno allo stesso tempo un comun denominatore: quello che si è creato in poco più di cinquanta anni in Europa – ormai, con gli ultimi allargamenti del 2004 e del 2007, in quasi tutta – è qualcosa che, il 25 marzo 1957, data di firma del Trattato di Roma che istituiva la Comunità economica europea, era assolutamente impensabile e imprevedibile. Il saggio di Giorgio Giraudi, docente di Scienza politica presso l’Università della Calabria, dall’emblematico titolo Ripensare l’Europa. Storia, processi e sfide dell’integrazione europea (Rubbettino, pp. 190, € 14,00), si inserisce in questo filone di studi; ma, oltre ad una breve e puntuale sintesi storica, nella quale è anche compresa una chiara esamina delle varie riforme (Atto Unico, Maastricht, Amsterdam, Nizza), viene posta una domanda importante: dopo la firma del Trattato di Lisbona, nel 2007, l’ultima riforma, che ancora deve entrare in vigore (per un breve commento, clicca qui), qual è il futuro dell’Unione Europea? Questione importante e difficile, cui l’autore cerca di rispondere analizzando tre problematiche assai attuali, e che sostanzialmente, superata (o quasi) la difficoltà del grande allargamento del 2004, sono le tre sfide interne che l’Ue dovrà affrontare: il processo di costituzionalizzazione e le sue implicazioni; l’evoluzione del mercato unico; la questione della rappresentanza politica.
Alla ricerca di un fondamento costituzionale
Il termine costituzionalizzazione, perlomeno dall’opinione pubblica, è automaticamente associato al progetto di Costituzione europea, naufragato, com’è noto, dopo i no referendari di Francia e Paesi Bassi. In realtà, l’Ue, a prescindere dall’esistenza di un documento che porti il nome di costituzione, è già un regime costituzionalizzato. Infatti, differentemente da tutti gli altri ordinamenti istituzionali sopranazionali ed internazionali, l’Unione Europea, nei settori di policy caratterizzati dal metodo comunitario e quindi dall’azione della Corte di Giustizia europea, è ormai, come ha rilevato Stone Sweet già nel 1995, «un regime legale verticalmente integrato che conferisce diritti ed obblighi giuridici a tutte le persone legali e le entità, pubbliche e private, presenti entro la sfera d’applicazione del diritto comunitario». In poche parole, all’integrazione economica, prima, e politica, poi, si è affiancato anche un processo di integrazione legale: vi sono dei diritti individuali, sulla cui osservanza vigila la Corte di Giustizia. Essa inoltre svolge all’interno del sistema comunitario un ruolo corrispondente a quello di una corte costituzionale in uno scenario nazionale: può dichiarare nulli gli atti giuridici della Comunità; può dichiarare illegali gli atti promulgati senza che esistano basi giuridiche di essi nei trattati o che risultino incompatibili con il diritto comunitario; può dichiarare la mancanza di azione di un soggetto in un caso in cui i trattati prevedono obblighi di agire; può dichiarare l’insolvenza della Comunità.
In più, la Corte ha il delicato compito di garantire un’applicazione uniforme del diritto comunitario e il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati. Inoltre, è competente a dirimere eventuali dispute tra gli stati membri – se prima queste non si siano risolte in sede di Consiglio o tramite la Commissione – in merito all’interpretazione del trattato.
In tutti questi poteri, che nelle intenzioni degli stati fondatori avrebbero dovuto avere solamente un carattere amministrativo, dando quindi alla Corte, in fin dei conti, un ruolo marginale, ci sono i germi del processo di costituzionalizzazione dei trattati, che ha dato vita a quel regime legale di cui parlavamo. Questo processo si è articolato in tre aspetti che Giraudi analizza in maniera puntuale: l’interpretazione estensiva fatta dalla Corte dell’art. 177 (ora 234) in materia di rinvio pregiudiziale, la c.d. dottrina dell’effetto diretto e la c.d. dottrina della supremazia.
L’organo europeo è così diventato, di fatto, una corte costituzionale, come dicevamo in precedenza, dopo un’aspra lotta giuridica con le varie massime corti nazionali degli stati membri, in particolare quella tedesca e italiana.
Non si può parlare di costituzionalizzazione senza un riferimento al dibattito che anima da anni la letteratura politologica sul problema del deficit democratico dell’Ue: Giraudi non si sottrae, anzi. La domanda di democratizzazione, dalla quale sono scaturite l’elezione diretta del Parlamento europeo e una carta dei diritti fondamentali, era ed è legittima e quasi obbligatoria, perché più l’ordine politico comunitario diventa un ordine diverso dai regimi internazionali − e quindi sempre più norme comunitarie penetrano direttamente fin nella sfera individuale − più esso ricopre le funzioni proprie di un diritto nazionale e, pertanto, deve averne le caratteristiche democratiche costitutive, sia in termini sostanziali che procedurali.
La questione, come si evince, è complicatissima, e va ben oltre una semplice questione di rappresentanza o di esistenza di un esecutivo paragonabile a quelli nazionali. Investe il concetto stesso di popolo, di demos, nell’accezione diffusa che una nazione, quindi una democrazia, si fondi, quale uno tra gli elementi costitutori, proprio sull’esistenza di un demos. Il che significa: un sistema politico è democratico in quanto è rappresentativo di un popolo; ma se il popolo non esiste, allora non ha senso parlare di democrazia in relazione a quel sistema politico. Logicamente, il popolo precede la nazione (e il sistema democratico) che crea. Ma non esiste un popolo europeo: per l’Ue, pertanto, è come se il problema non si ponesse. Così molti studiosi concludono che il deficit democratico sarà, sostanzialmente, eterno. Ma non tutti sono concordi: l’idea di “solidarietà civile” o di “patriottismo costituzionale” avanzata, addirittura prospettata, da Jürgen Habermas in riferimento a tutto il pianeta prescinde dall’idea di un demos (che implica la presenza di una stessa lingua, di stesse tradizioni culturali, ecc.) e lega gli individui sulla base di altre considerazioni. Questa potrebbe essere una possibile risposta al deficit democratico. E, per dirla con le parole di James Caporaso, si potrebbe quindi avanzare l’ipotesi di democrazia postnazionale.
Le prospettive economiche
La seconda problematica affrontata da Giraudi riguarda l’evoluzione futura del mercato unico. Molto brevemente, l’autore nota che, nel 1957, frutto di un compromesso tra i fautori del lasseiz-faire e di chi voleva invece un mercato sotto il controllo dello stato, si è creato un embedded liberalism, in pieno accordo col motto “Keynes a casa, Smith all’estero”. Un sistema ordoliberale, in cui, al libero scambio sul mercato comunitario, si affiancava un certo interventismo da parte degli stati in quello interno, ma solo nella misura necessaria per far fiorire il mercato stesso (quindi escludendo una ricetta di tipo socialista).
L’abbandono di questa impostazione cominciò nel 1992 con il Trattato di Maastricht e il Programma per il completamento del mercato unico, che portavano con loro un principio che si può definire rivoluzionario: il mutuo riconoscimento. Tale principio allargava l’area della concorrenza, dalla competizione tra le imprese a quella tra i diversi sistemi normativi, e l’area dei servizi. In poche parole, l’attenzione si spostava dai fallimenti del mercato ai fallimenti della regolazione. Questo significava che il completamento del mercato unico richiedeva l’applicazione della legislazione comunitaria a tutte le possibili forme di distorsione o limitazione della concorrenza, comprese quelle pubbliche. E guida di questa politica fu, ed è tuttora, la Commissione europea, che quindi ebbe un potere di intervento nelle questioni nazionali sconosciuto, che in altri tempi gli stati mai si sarebbero sognati di permettere. Ma il sistema ordoliberale era ormai in crisi, travolto anche dagli avvenimenti internazionali (in particolare lo shock petrolifero degli anni Settanta e la crisi energetica).
L’attività della Commissione, basata anche sull’ampia definizione, contenuta nel trattato, di “impresa rilevante ai fini della concorrenza”, «ha costruito, in un difficile confronto con gli stati membri, un sistema di controllo e sanzione degli aiuti di stato alle imprese (pubbliche e private) valido in tutta l’Unione Europea e ha portato avanti ambiziosi processi di liberalizzazione in molti mercati nazionali e nei campi tradizionali d’azione delle utilities pubbliche». La strada, insomma, è spianata, secondo Giraudi, verso un subversive liberalism.
Un’Europa senza cittadini
Terzo e ultimo tema, la rappresentanza politica. Il Parlamento europeo esiste fin dal Trattato di Roma, ma solo dal 1979 è eletto direttamente dai cittadini. Da quell’anno in poi, in particolare con i trattati di Maastricht e Amsterdam, i suoi poteri, tramite soprattutto la procedura di codecisione, sono aumentati moltissimo in diverse aree di policy, da quella sociale a quella ambientale, crescita evidenziata da Giraudi tramite un efficace grafico. Tutto bene dunque? Nient’affatto.
Quello della rappresentanza politica è infatti l’aspetto più problematico del deficit democratico già accennato. In particolare, per quanto riguarda il rapporto legislativo/esecutivo, nota l’autore, l’estensione della procedura di codecisione – secondo la quale, in breve, per approvare un atto serve anche il voto favorevole dell’assemblea, oltre che del Consiglio – non consente assolutamente di affermare che il Parlamento europeo abbia prerogative simili, figuriamoci equivalenti, a quelle dei parlamenti nazionali. Soprattutto, ma non solo, perché non ha potere autonomo di agenda setting (cioè di iniziativa), che è tutto nelle mani della Commissione.
Altro punto debolissimo: la poca partecipazione alle elezioni europee (definite «second order elections»; del resto, anche nelle arene nazionali, tali elezioni finiscono sempre per diventare un giudizio sul governo in carica, senza l’ombra di programmi politici europei presentati dai partiti o dai singoli candidati). «L’assenza di una competizione per il governo, e quindi l’assenza di proposte politiche alternative di agenda per la guida dell’Unione Europea, produce principalmente due effetti: 1) impedisce l’identificazione politica dei cittadini con i temi, i dibattiti e la politica europea; 2) impedisce che si formi una accountability europea rispetto alle scelte di policy adottate a livello comunitario». Lo studioso dedica un intero paragrafo a questo tema, evidenziando come la partecipazione media nell’Unione Europea sia precipitata dal 60% e oltre del 1979 al 46% scarso del 2004, nonostante esistano delle vere e proprie famiglie di partiti europei (alla cui analisi è riservata l’ultima parte del capitolo). Dato confermato, aggiungiamo, anche alle ultime elezioni del giugno scorso, che hanno registrato l’affluenza più bassa di sempre (43% circa).
Nella parte conclusiva del lavoro, infine, Giraudi offre una valutazione dei possibili scenari futuri, chiedendosi se si va verso un’Europa federale oppure verso un’Europa confederale o, infine, verso una poliarchia deliberativa diretta. La risposta è tutt’altro che facile, e, sostanzialmente, potremmo trovarne una definitiva solo, appunto, nel futuro.
Luigi Grisolia
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 25, settembre 2009)
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