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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
Il mondo antico letto
attraverso i proverbi:
una guida essenziale
per l’uomo moderno
di Clementina Gatto
La saggezza e il folklore del passato
in due raccolte edite da Rubbettino
Quello che si offre ai lettori in queste pagine è un «lavoro di gruppo», come lo definisce il curatore, Emanuele Lelli, nel saggio che apre l’opera I proverbi greci. Le raccolte di Zenobio e Diogeniano (Rubbettino, pp. 566, € 14,00); il libro è il frutto di una collaborazione, appunto, che ha messo insieme due raccolte di proverbi: quella di Zenobio (Epitome della raccolta di Didimo e del Tarreo ordinata alfabeticamente) risalente al II secolo d.C. e quella di Diogeniano (Proverbi popolari. Dalla raccolta di Diogeniano), probabilmente contemporanea, ridando loro la luce dopo secoli di oscurità. Un lavoro di traduzione, di riflessione, di glossa, con un interessante apparato critico che consente una lettura filologica dell’opera. Ma l’aspetto prettamente collettivo è proprio quello legato all’oggetto di riflessione, i proverbi, la cui paternità non è mai attribuibile a un singolo autore, ma alla saggezza popolare, della cui riflessione generatrice ogni epoca ha perso le tracce, pur non smettendo di affidarsi all’insegnamento di cui ciascun motto è portavoce.
Gli spunti più interessanti, chiariti nel saggio del curatore e poi nell’introduzione, sono proprio la contestualizzazione e la ricostruzione dello sfondo che ha originato i proverbi riportati.
Essi, nella loro schematica essenzialità, costituiscono il corpo centrale dell’opera e consentono un’interessante riflessione sul sapere di quei giganti dell’antichità sulle cui spalle l’uomo di ogni tempo, altrimenti nano, si innalza da sempre per guardare più lontano e portare l’umanità un po’ più avanti.
Come spiega Lelli, lo studio dei proverbi ha una lunga tradizione che, attraverso svariati percorsi, arriva fino ad oggi, epoca della pluridisciplinarietà per eccellenza, in cui, accanto alla linguistica e alla semiotica, si occupano di proverbi alcuni settori dell’antropologia, della letteratura, della psicologia, della storia, della pedagogia e della storia delle religioni, alla ricerca di un denominatore comune dell’esperienza umana, una sorta di «bagaglio sapienziale dell’Uomo [...] che finalmente getti un ponte solido e sicuro tra le culture, superando vincoli di tempo e di spazio che troppo spesso hanno ostacolato [...] la comunicazione tra i popoli». Eppure, l’oggetto d’indagine sfugge a caratterizzazioni troppo vincolanti. Lo stesso Lelli ricorre alla connotazione evidenziando alcuni attributi ricorrenti, trasversali alle diverse definizioni che, a partire da Aristotele, sono state tentate dagli studiosi: la brevità, il buon senso, l’arguzia e la popolarità. Le prime tre caratteristiche rimandano alle qualità interne, legate alla formulazione linguistica del proverbio, mentre la popolarità è una proprietà per così dire esterna, che fa riferimento alla circolazione del detto.
Ed è proprio questa capacità di diffusione capillare, dovuta pur sempre alla sua orecchiabilità, ad averne fatto, nell’antica Grecia, un efficace strumento al servizio dell’arte oratoria, come Aristotele riferisce nella sua Retorica.
Nella concisione e nell’efficacia suasiva delle sentenze celebri, il filosofo intravede le caratteristiche che faranno dei proverbi espressioni immortali, capaci di insinuarsi nelle pieghe della storia e non soccombere al susseguirsi delle culture, ma anzi assicurare continuità alle vicende di un territorio, quello che oggi chiamiamo «Magna Grecia».
E in effetti, a giudicare dalla familiarità della specie umana con i proverbi, non possiamo che dargli ragione.
È doveroso, dunque, aggiungere un attributo ulteriore alla definizione che si è tentato di fornire: quello di classicità; il proverbio infatti si fa portavoce di un senso che va oltre la contingenza e il contesto storico-culturale in cui ha avuto origine e ancora, a dispetto dei secoli, «offre diverse chiavi di lettura nonché, al di là delle necessarie storicizzazioni culturali, numerosi spunti di riflessione».
Uomini di ieri e di oggi sotto lo stesso cielo
È facile sbagliare nell’attribuire cause e conseguenze a qualunque fatto storico che intendiamo studiare, se ci accontentiamo semplicemente di leggerlo dai libri di storia senza applicare la corretta prospettiva storica, senza mettere a giusto fuoco gli uomini del passato, considerandoli attori di una scena spazio-temporale ben determinata. Ad un’analisi accurata, risulta comunque molto difficile emettere giudizi, anche solo farsi un’idea, attribuire il giusto valore alle decisioni prese e capire fino in fondo le strutture sociali, i costumi, i sentimenti, le esperienze di vita dei nostri antichi parenti. Le scenografie cambiano rapidamente e, in quest’ultimo secolo, la velocità con cui si susseguono, probabilmente, è ben superiore a quella che sperimentavano le società del passato. Anche i fatti di lingua, i modi dell’espressione, cambiano più velocemente che nel passato, di pari passo con le strutture del pensiero, con le acquisizioni della mente e con le manifestazioni della cultura tout court. Di conseguenza quindi, cambiano anche i modi di relazionarsi all’altro. Tuttavia, ad un certo livello, si può ipotizzare un dialogo profondo e senza tempo tra noi, uomini di oggi, e loro, uomini di quei tempi così lontani e così brutalmente separati dalle cesure stabilite dai professori di storia.
In altre parole, ad un livello che sottende il segno linguistico saussuriano, portatore del significato letterale delle parole, vi è un livello cognitivo, che rappresenta il ritaglio operato da quegli stessi segni linguistici nella mente, quando essa si relaziona con un contesto extralinguistico. Ed è a questo livello più profondo del pensiero, del sentire, che esiste un gemellaggio con i nostri parenti lontani.
Nell’avvicendarsi di tutti i secoli, il modo di recepire e considerare queste perle di umana esperienza è stato sempre diverso: «un modello sicuro di saggezza classica» nei difficili secoli del Medioevo bizantino; un gran patrimonio di contenuti e spunti per nutrire tanto la tradizione orale quanto quella letteraria, durante l’Umanesimo italiano e il Rinascimento europeo; nell’età del Positivismo uno specchio della vita delle classi popolari; la materia prima dei Romantici, alla ricerca dell’«elemento ‘popolare’ e ‘immediato’ dello spirito».
« Il futuro giace in grembo a Giove» e prende le mosse dal passato
Citando dall’introduzione: «il proverbio è, metaforicamente, il detto che segue l’uomo nel corso della vita, ammaestrandolo e ammonendolo, come una memoria tradizionale sempre attiva»; vale a dire che il proverbio si rivolge a ciò che della propria cultura è profondamente interiorizzato, ad una intelaiatura innestata strutturalmente nel Dna, ad un’aria di cui respiriamo i contenuti da sempre, attraverso la storia popolare che, come si è detto, giunge fino al terzo millennio senza soluzione di continuità. Dunque, attraverso i proverbi è possibile ricostruire un cammino a ritroso, un dialogo col passato, seguendo il filo delle parole che, in parte modificate, in parte ancora inalterate, sono giunte fino a noi ed è plausibile pensare che accompagneranno i nostri posteri. Una delle caratteristiche attraverso le quali si concretizza il trait d’union con i nostri antichi predecessori è proprio l’ambientazione dei proverbi nelle pieghe della vita quotidiana: rivolgendo l’attenzione agli oggetti e alle azioni di tutti i giorni, essi hanno stigmatizzato insegnamenti e valori universalmente riconosciuti.
In particolare, il detto ha attinto molto al mondo della cucina e a quello dell’agricoltura (ricordiamo, quasi pescando a caso in Zenobio, «Sei più sterile dei giardini di Adone», corrispondente al nostro: «quel che presto matura, poco dura»), ambiti che hanno sempre evocato un immaginario di grande solidità, cui ben si sposa la saggezza popolare, che pure a volte risulta contraddittoria. Sono esempi di questa caratteristica alcuni proverbi compresenti dall’opposto significato: «paese che vai, usanza che trovi» e poi «tutto il mondo è paese». Un altro elemento ricorrente è la sacralità, che meglio si potrebbe etichettare come componente superstiziosa, che si autoalimenta nel proverbio, al quale (spesso a torto) viene attribuita un’auctoritas indiscussa. Ancora Zenobio, ad esempio, ricorda: «non si comincia bene se non dal cielo», oppure l’equivalente «cominciando da Estia».
La morale, il senso di giustizia, l’ordine e le regole che il gruppo ritaglia a sua misura e attraverso le quali si autogestisce, sono un altro elemento fortemente presente nei proverbi e facilmente diffuso attraverso di essi. A tal proposito, così riporta Diogeniano: «dallo stesso cratere vengono i mali», che ricorda il nostro «chi la fa, l’aspetti».
Coerentemente con questa visione, confluiscono nei motti alcune immagini di rettitudine, tutte legate alle persone modeste, che non fanno «un passo più lungo della gamba»; queste le figure più amate dai saggi, diversamente da quelle, biasimate, che promettono in grande, che «impast[ano] per [gli altri] pane bianco». Per fare un ennesimo parallelismo, viene in mente il nostro lodare chi vive «di pane duro» piuttosto che chi impasta «fior di farina». Questa visione, forse, è maturata nella convinzione che solo chi conosce l’essenziale affina il pensiero analitico, perché fa un’esperienza più accurata delle cose e sviluppa un’umanità più spiccata, una sensibilità più profonda. Chissà che chi sa apprezzare l’essenza delle cose non sia più ricettivo ai messaggi che vengono dal profondo evitando all’interlocutore di sprecare il fiato, di «parlare al vento» o, come direbbe Zenobio, di «parl[are] ai granelli di sabbia».
Clementina Gatto
(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 2, ottobre 2007)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi