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Direttore editoriale: Maria Ausilia Gulino
Anno III, n. 23, Luglio 2009
Piccole anime
nella memoria
di Eliana Grande
Edizioni associate
ricorda le vittime
dell’orrore nazista
È difficile aggiungere altre parole a quanto è stato detto, e scritto, sulla tragedia della Shoah. Quasi impossibile farlo senza cadere nel già tristemente noto, mostrato, rievocato. Forse si è giunti al punto in cui solo un momento di silenzio può rivelarsi fecondo per nuove prese di coscienza e rinnovate assunzioni di responsabilità. Da un silenzio come questo, che non è da intendersi come anticamera dell’oblio, ma come presupposto indispensabile all’ascolto, è nato 2012. La Shoah nel pianto di un bambino, di Romano Biancoli e Rinaldo Boggiani (Edizioni associate, pp. 104, € 11,00).
La sensibilità di Boggiani, la sua capacità di cogliere tutte le sfumature dell’animo infantile e trasferirle, intatte, sulla pagina bianca, sono già note ai lettori di Stelle nere e Domani Ero. Nel libro che stiamo ora esaminando, però, la vocazione di questo scrittore si manifesta in maniera ancora più intensa e inequivocabile, anche al prezzo di un doloroso coinvolgimento emotivo e psicologico con i piccoli protagonisti del suo romanzo, della sua storia da raccontare, quella «storia vera» che, tiene a precisare l’autore nella Prefazione, «ha ispirato questo libro». E continua preannunciando al lettore che il “viaggio” nelle pagine che seguiranno non lo porterà a conoscere i nomi dei personaggi che incontrerà, né dei luoghi che visiterà, forse perché – aggiungiamo noi – nelle storie come queste i nomi non contano, e persino la descrizione di un volto, di un’espressione, di un gesto passa in secondo piano e si fa tramite per toccare lo spirito di chi legge e condurlo così all’unico vero scopo di tutta la narrazione: l’incontro diretto con un’altra anima, al di là di qualsiasi luogo, oltre ogni immagine, per ascoltare il sussurro incessante di quei piccoli esseri sgomenti, strappati alla vita.
Ciò che è già stato scritto non si può cambiare...
Sono proprio quei piccoli esseri che hanno ispirato l’autore e, se facciamo silenzio – quello stesso di cui abbiamo parlato all’inizio come di una preziosa risorsa per non scivolare nell’indifferenza –, sembrerà anche a noi di sentire la loro presenza, percepirne la voce, lo sguardo. Come è accaduto a Boggiani che, nel suo stile originale e svincolato dai dettami classici della logica narrativa e della punteggiatura, sembra voler raggiungere il lettore nel più profondo della sua sensibilità e, con frasi che si succedono quasi “affannose”, rapide, come in una corsa di ritorno dall’inconscio, confessa: «questo incubo ce l’ho dentro sul serio sto piangendo sul letto tutti intorno i miei bimbi [...] Allungo le braccia per fermare la guardia [...] Ogni notte ci provo ogni notte non ci arrivo. Manca poco sfioro le mani ma il fuoco vince sempre».
Non è possibile cambiare ciò che è già accaduto, né lavar via le macchie di una coscienza sporca collettiva che pesa come un macigno su tutta l’umanità, colpevole contro se stessa di atrocità talmente grandi da travalicare anche il limite di ciò che è umano ed apparire diaboliche.
Ma a chi accetta di fare i conti anche con le “ombre” questa consapevolezza non servirà come scappatoia, perché «siamo noi umani il diavolo, l’altra ed estrema parte di noi. Per alcuni non tanto altra, non tanto estrema, anzi prossima ed effettuale. Il cuore smette di sentire, il sangue diventa ghiaccio, l’alito gela la vita attorno». Così scrive, facendo tesoro della sua esperienza di psicanalista avvezzo a scandagliare anche i luoghi più reconditi dell’interiorità, Romano Biancoli, l’altro autore di questo libro a quattro mani, esperienza condivisa e compito gravoso ma imposto ad entrambi da un bisogno della coscienza.
La storia dell’umanità è piena di crudeltà, di sofferenza innocente, di violenza, di sangue. Eppure non c’è tragedia che si stagli di fronte alla contemporaneità con la stessa imponenza di quella della Shoah. Non c’è orrore che conduca a uno sbigottimento paragonabile a quello che si prova di fronte ai vagoni, ai binari, al filo spinato, alle baracche, ai forni, alla neve, al cielo di Auschwitz.
Perché? Forse perché Auschwitz è oltre la crudeltà, la sofferenza, la violenza, il sangue, «oltre ogni odio palpitante, ogni ribollire rabbioso. Oltre ogni collera, ben al di là dell’astio e dell’ira. Non sentiti risentimenti. Ogni umore si è rappreso e seccato, osso, sasso». Così scrive ancora Biancoli. E nel farlo conduce ad altre riflessioni, altre domande. Molti si sono chiesti dov’era Dio ad Auschwitz. Altri, e chi scrive è fra questi, si sono chiesti dov’era l’uomo.
La rabbia che accende il sangue nelle vene e aumenta la forza e il ritmo del battito cardiaco è ancora umana. È ancora passione, potenzialmente distruttiva, ma umana. Ma il sangue di ghiaccio e il cuore di pietra sono umani? La pianificazione collettiva dello sterminio di un popolo è umana? E lo è l’elaborazione meticolosa di una “soluzione finale” che porti all’eliminazione fisica del “diverso”? Un uomo che getta un bambino in un carro bestiame, che lo strappa alle braccia della madre e poi lo uccide perché non serve, è ancora un uomo?
...ma la pagina del futuro è ancora bianca
Sono passati sessantaquattro anni da quando il campo di concentramento di Auschwitz è stato liberato. Ma tutt’oggi chi vi entra, anche solo attraverso il mezzo televisivo, ha la raccapricciante impressione di vedere ancora lì i cadaveri ammassati e percepire l’odore acre del fumo che esce dai forni crematori, spandendosi nell’aria. Si sobbalza all’improvviso convinti di sentire un urlo, uno sparo, il latrato di un cane. Si sente freddo, paura. Si piange.
Un’impressione, certo, e forse neppure così scontata, ma riservata solo a chi è dotato di quella dose minima di sensibilità che fa raggelare le ossa e l’anima, anche quando si sta sul divano avvolti in una coperta, se nel frattempo passano davanti agli occhi le immagini di un altro essere umano che fa la fila nudo nella neve, per sapere se dovrà andare a morire o gli sarà concesso ancora un altro giorno di vita.
Per la storia sono passati sessantaquattro anni dalla fine di tutto questo. Non così per le vittime. Non per i sopravvissuti, che mai potranno dimenticare e che spesso sono riusciti a trascinare solo il loro corpo fuori da quel campo, lasciandovi dentro per sempre gli affetti, i sogni, la fede. Non i morti, che ancora oggi, nonostante tutte le “giornate della memoria” e i fiumi di parole, l’umanità dura di cuore (e facile all’indignazione così come alla subitanea dimenticanza) continua ad uccidere.
Romano Biancoli e Rinaldo Boggiani hanno compreso che era necessario raggiungere e coinvolgere quante più persone possibili, e hanno cercato di farlo con il loro libro, forse nella convinzione che questo fosse l’unico modo per infrangere anche le barriere dello spazio e del tempo e riuscire ad afferrare quelle mani di bambini, calmare quel pianto, fermare quei treni.
Perché se si riesce oggi ad estirpare la radice dell’odio razziale, della xenofobia, dell’intolleranza, ancora pericolosamente esistenti nella nostra società, allora, forse, anche le vittime di ieri avranno vera giustizia.
E se ci si oppone oggi all’indifferenza e, nei casi più gravi, all’approvazione con cui si assiste ai fenomeni di violenza contro il “diverso”, lo “straniero”, allora si potrà sperare in un domani in cui certe cose saranno davvero un ricordo, terribile, ma solo un ricordo.
Questo non laverà la coscienza umana ma, se non altro, aiuterà a portarne il peso.
Eliana Grande
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 23, luglio 2009)
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