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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
Alto Adige/Südtirol:
Sì o no. Il triste valzer
delle Opzioni, spiato
nelle lettere private
di Giusy Patera
“La fabbrica del tempo” indaga gli esiti
del fascismo sul dramma alto atesino
Opzioni. A chiunque rammenta una delle mille funzioni di un software. Non ovunque però. Esiste una terra, infatti, ove il termine “opzioni” risveglia un dramma mai sopito del tutto. Si tratta di quel piccolo lembo di territorio definito dalla Costituzione italiana Trentino-Alto Adige/Südtirol e di una storia fatta di egoismi senza vergogne, i cui effetti disastrosi ebbero un’onda lunga, forse lunghissima, parimenti una scia di sangue straniero, estraneo a rancori e rivendicazioni. Le lettere aperte 1939-43: l’Alto Adige delle Opzioni – a cura di Christoph von Hartungen, Fabrizio Miori, Tiziano Rosani (2 volumi, pp. 288+376, Sip), edita dall’associazione “La fabbrica del tempo” – indaga quella storia a partire da una fonte piuttosto inusuale, le lettere delle persone che, inconsciamente, senza volere e indirettamente, sono state protagoniste di un dramma collettivo.
Il punto di non ritorno
Nel 1919 il Trattato di Saint Germain attribuì al Regno d’Italia il territorio sudtirolese a maggioranza tedesca: così, nell’arco di pochi giorni, da appartenenti alla nazione dominante nell’Impero austriaco, i sudtirolesi divennero minoranza etnica senza protezione dello stato italiano, nemico da decenni.
Erano 220.000 i tedeschi che si mantenevano su posizioni attendiste, sicuri che il dominio italiano sarebbe infine passato come passa un mal di testa.
I conflitti tra le due parti scoppiavano spesso per questioni di principio o simboliche: per il rifiuto di esporre bandiere e ritratti dei nuovi regnanti, per l’uso della lingua in atti ufficiali, per casi di vilipendio e offese ai rappresentanti dello stato e ancora per manifestazioni pubbliche, scoppi di mortaretti o per questioni legate alla scuola.
Col regime fascista – giunto anzitempo in queste terre, con una marcia su Bolzano che si può dire un “numero zero” della ben più celebre “Marcia su Roma” – l’assimilazione del territorio e della popolazione sudtirolese nello stato italiano divenne diktat imprescindibile da realizzare senza compromessi.
Un programma di italianizzazione forzata in 32 punti fu approvato dal Consiglio dei ministri il 1º luglio 1923 e prevedeva l’uso esclusivo della lingua italiana nella vita pubblica (cognomi, iscrizioni, nomi di luoghi e strade, uffici di ogni tipo, ecc.), l’apertura di scuole in lingua italiana, la nomina di segretari comunali italiani, la sostituzione degli impiegati locali con personale italiano, sovvenzioni statali per l’immigrazione italiana, restrizioni alla stampa in lingua tedesca, ostacoli all’economia d’oltreconfine, penetrazione economica da parte italiana e via dicendo.
Il regime era convinto di riuscire nel giro di pochi anni a liberare l’Alto Adige da ciò che esso giudicava una recente infarinatura “teutonica” per riportarlo al suo originario carattere “romano”.
Ogni accenno tedesco venne sapientemente eliminato: dalle iscrizioni pubbliche alle cartoline postali, dalle epigrafi funebri all’argenteria alberghiera.
Dalla conquista delle anime e del suolo alla politica della sopraffazione numerica il passo fu breve. Così nacque il progetto della zona industriale di Bolzano: gli stabilimenti Lancia di Torino, le acciaierie di Milano e altre industrie diedero inizio alla produzione in Alto Adige e migliaia di famiglie italiane si insediarono sul territorio.
Il Südtirol divenne merce di scambio e fulcro di equilibri internazionali tra
Così, il 23 giugno 1939, tra Italia e Germania, nella sede della Gestapo, vennero siglati gli accordi sulle Opzioni tirolesi, destinati a lacerare l’anima di quella popolazione divisa tra l’amore per la propria terra e quello per il proprio “humus teutonico”.
Il “salvataggio” del regime fascista
I due volumi costituiscono in realtà un’antologia di lettere scritte da un’umanità variegata: uomini, donne, commercianti, contadini, funzionari, oppositori, ma soprattutto “optanti” e “non optanti”; tutte lettere per così dire “salvate” dalla distruzione grazie al vaglio del regime fascista.
Aperte a mezzo del vapore o altro, infatti, le lettere venivano tradotte in italiano (se redatte in tedesco) e, se necessario, copiate o fotografate. Quindi la busta veniva richiusa e il suo percorso proseguiva fino al destinatario.
Per accertarsi che non contenessero messaggi scritti con l’inchiostro simpatico, la polizia politica sottoponeva le lettere all’esame del calore, della lampada al quarzo, all’azione dei raggi ultravioletti della lampada di Gallois o a quella dei vapori allo iodio. Questi erano i mezzi più immediati, ma non per questo i più efficaci.
I censori, poi, non erano tra i più validi impiegati dello stato. Le loro traduzioni lasciano parecchi dubbi sulle capacità linguistiche, anche se vanno riconosciute loro alcune attenuanti: molti lo facevano come secondo impiego notturno e non bisogna trascurare l’enorme mole di lavoro, oltre alla difficile leggibilità delle grafie vergate a mano. Così alcuni nomi venivano distorti – anche i nomi di personaggi che oggi sappiamo aver avuto ruoli importanti nella questione delle Opzioni – e molte lettere che avrebbero potuto essere considerate al minimo pericolose, riportavano comunque il timbro «Nulla al Cpc» (Casellario Politico Centrale).
D’altra parte, bastava qualche frase incriminata, ai nostri occhi oggi risibile, per attirare sullo scrivente un nugolo di attenzioni che l’avrebbe potuto condurre all’ammonimento e fino al confino politico da trascorrere a Lipari, a Ventotene, a Ponza o in qualsiasi altra località abbastanza isolata.
Voci e fiato per l’Opzione
Nelle lettere scorrono fiumi di parole, frutto di voci che si rincorrevano e che spesso poco avevano di reale. Anzi più spesso erano create ad hoc per influenzare gli orientamenti della popolazione sudtirolese.
Tra le voci più incredibili, quelle secondo cui i tedeschi non optanti sarebbero stati trasferiti a forza nell’Italia meridionale e forse anche nelle colonie africane.
Voci che, come una valanga, si ispessivano e si incrudelivano quando si scontravano con il tipo di italiani che migravano in quelle zone: disoccupati e sottoccupati, reclutati per costruire strade, centrali elettriche o per fornire manodopera nelle nascenti industrie. Gente di campagna che parlava dialetti incomprensibili, che mangiava un pezzo di pane con sopra un filo d’olio e qualche pomodoro invece dello speck.
Le Opzioni coinvolsero ogni aspetto della vita quotidiana, anche le relazioni d’amore, come la storia di due fidanzati, in cui la “lei” da un lato è contraria a recarsi in Germania – dove il suo fidanzato sarebbe stato richiamato alle armi – dall’altro è desiderosa di accontentare il suo uomo ansioso “di optare”.
Alla fine, sposatisi una settimana prima della scadenza del termine per l’Opzione, e inizialmente stabilitisi a Bolzano, si spostarono poco dopo in Germania.
Ma in nessun posto il “lui” della situazione trovò più il suo Südtirol: e allora è vero che ognuno è figlio della propria terra e non solo della propria matrice culturale.
Annalisa Pontieri
(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 3, ottobre 2007)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi