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A. XIX, n. 207, gen. 2025
Essere una madre:
alcune verità svelate
in viaggio con l’arte
tra voci e solitudine
di Simona Antonelli
In un saggio edito da Magi, il materno
da sfatare con la creatività femminile
Percorso sensibile e concreto attraverso una visione tanto reale quanto “insolita” della maternità, tra testimonianze e consigli eccone svelato l’intreccio di gioie e dolori, di luci e ombre, e mostrato il lato più taciuto: la solitudine.
L’immagine principale che Marilde Trinchero, arte-terapeuta e già scrittrice di alcuni racconti e di un romanzo, fa emergere da La solitudine delle madri (edizioni Magi, pp. 152, € 15,00) è in un certo senso una “perdita”: ogni donna perde un po’ di individualità quando ha un figlio perché si annulla per lui; si allontana dal proprio Io per vestirsi unicamente del ruolo di mamma “perfetta” che la società le impone o, quantomeno, si aspetta da lei.
La mission dell’autrice è volta dunque al recupero di tale perdita, alla necessità di riappropriarsi del sé, della propria creatività, che non è solo biologica, ma che può tradursi anche in espressione di ciò che il più delle volte non si vede – o non è dato vedere –: paure, difficoltà, inadeguatezza, solitudine.
Figure artistico-letterarie, storico-mitologiche, nonché storie quotidiane, fanno capolino nel libro a testimoniare quanto sia difficile essere mamma, ma anche a “guarire” in un certo senso la malinconia che lo attraversa. Leggerlo è, infatti, entrare nella sensibilità delle donne e quindi della Trinchero che, seppure a tratti sembra lasciarsi andare ad uno stile manualistico, riesce a trasmetterci un sapore poetico e reale allo stesso tempo: l’effetto che evoca è il mondo materno «meraviglioso e terrificante insieme».
La Prefazione, lucida e sentimentale, è affidata ad Alessandro Defilippi, medico psicoanalista, «genitore spirituale del libro» per la stessa autrice, i cui spunti fantasiosi danno riparo alla trama solitaria delle sue stesse parole.
Il risultato è la speranza.
“Che ci faccio io qui?”
«Capita di patire la solitudine e scoprire che essere madri è più difficile di quanto si era immaginato».
La prima parte del testo racconta le fasi della maternità in un’analisi distante dallo stereotipo. La gravidanza, e tutta la “nuova” vita che si realizza, non è soltanto idilliaca, perché insieme all’entusiasmo, ai sorrisi, alle tenerezze, all’emozione di accogliere un altro mondo, deve fare i conti con difficoltà, fatica, esitazione, pianti, paura. Paura di «trovarsi di fronte all’infinita onnipotenza e all’infinita impotenza [...] di trovarsi di fronte a se stessi». La maternità è rinuncia al proprio tempo, che è rinuncia del sé, e si porta dietro l’incapacità di esprimere i propri timori, rischiando di trasformarsi in rinascita di antiche insicurezze. La rinuncia può essere solitudine, dunque.
Sulla depressione post partum, quel complesso di stanchezza, ansia, tristezza, senso di inadeguatezza e di colpa, l’autrice si sofferma in una sorta di “denuncia”, riflettendo in questi termini: spesso viene nascosta per vergogna, perché vista dalla società come una debolezza o addirittura un limite d’amore nei confronti del bambino: «Il materno è sacro. Da sempre. Non si può intaccare quell’aura di sacralità senza ricevere in cambio sgomento. E le parole difficili restano confinate nell’oscurità del malessere e della solitudine. A volte la depressione è l’unico modo per “poter dire” ciò che altrimenti verrebbe ignorato».
Allora – si chiede la Trinchero, e noi con lei –, potrebbe scomparire il malessere se la visione della maternità non fosse più associata esclusivamente allo stereotipo di donna “forte e felice”? O potrebbe affievolirsi se si riuscisse semplicemente ad esprimere, se si “osasse” confessare, il disagio? Se si dicesse a voce alta “Che ci faccio io qui?”, o se si ammettesse che, a volte la «distanza tra ciò che si era desiderato e ciò che è, sembra non poter essere colmata»?
Il silenzio, allora, e il continuo sacrificio di se stesse per dare spazio e tempo soltanto al materno rischiano, poi, di trasformarsi in esplosione di rabbia, quella “Medea” annidata in ognuno di noi – spiega l’autrice – o di rifiuto. Rischiano di diventare solitudine.
Ne risulta un’immagine della società – francamente di eccessivo pessimismo – che colpevolizza le madri e che si accanisce sulle donne mettendole all’erta sull’espressione di sé, causa di «enormi lacerazioni». Eppure, in fin dei conti, questo raccontare in maniera così sincera, quasi sfrontata, le angosce e le difficoltà dell’essere madre vuole diventare un modo per anestetizzarle, perché conoscerle può essere il vantaggio per affrontarle .
L’autrice vuole “correggere la consapevolezza” e la visione sbagliata, o quantomeno parziale, che si ha del materno e lo fa anche con l’aiuto dell’arte.
La donna svelata dall’arte
Nel mondo figurativo il tema della maternità è pervaso da stereotipi che ne hanno delineato un immaginario falso, o comunque distante da molti aspetti reali. La donna è associata culturalmente alle figure esclusive di madre e moglie; retaggio della classicità ieratica, i pittori tendevano a rappresentarla in sembianze e atteggiamenti ideali, evadendo in tal modo dall’autenticità del materno.
Le eccezioni ci sono, per fortuna: allora leggiamo e vediamo – nella sezione iconografica – una Madonna “spaventata” dall’Annunciazione (non è forse la reazione più spontanea e realistica?), un’altra intenta a leggere con il bambino in grembo (non si può forse essere mamma e distrarsi nelle proprie passioni allo stesso tempo?), o ancora, la donna nuda klimtiana che mostra il ventre gravido senza vergogna (la naturalezza esibita del corpo trasformato).
L’attenzione dell’autrice si sposta alla condizione sociale della donna, rimanendo però confinata nell’ambito artistico: ci ricorda la difficoltà, specialmente in passato, di scegliere una strada non convenzionale, come quella del lavorare e del creare. «L’arte al femminile rimase comunque a lungo trascurata dagli studi e considerata qualcosa di insolito, tra la meraviglia e il sospetto»; anche qui le eccezioni ci aiutano a sensibilizzare la coscienza su ciò che è nascosto, isolato, insolito, raro e straordinario insieme: osserviamo l’anticonformismo di Artemisia Gentileschi, per cominciare, che nell’Oloferne disegnò un vero e proprio atto d’accusa, la capacità d’esser madre e artista al contempo in Berthe Morisot, o la rappresentazione di gesti quotidiani nelle mamme con bambino in Mary Cassat, e ancora il dolore gridato senza veli nei dipinti di Frida Kahlo o Käthe Kollwitz.
Creatività, dunque, intesa sia come capacità personale, orgoglio e soddisfazione, sia come sfogo, rifugio e libertà. Negli incontri di arte-terapia organizzati e raccontati dalla stessa scrittrice, alcune donne si lasciano andare «senza dover rendere conto a nessuno» al gioco dei segni, dei colori, della fantasia, sul tema della maternità («Le mani ci aiutano a pensare la maternità in modo diverso»): una buona occasione per esprimere, simbolicamente, se stesse, per esplorare le proprie ombre e anche tirar fuori i propri sogni.
Un buon rimedio alla solitudine, se si considerano, anche – rileva la scrittrice – l’indebolirsi della rete di protezione familiare, supporto sempre più raro, e il persistere di quella zavorra di visione arcaica e convenzionale della mamma: «Il sacro istituto della maternità è profondamente malato, ha bisogno di cure: la più urgente è quella di alleggerirlo da quell’aurea di sacralità».
Bisognerebbe, dunque, alleviare la realtà di ogni madre, di ogni donna, osservando e ascoltando con mente e cuore le sue verità celate.
Riconoscere il taciuto è già un valore, svelarlo è un omaggio alla vita.
Simona Antonelli
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 22, giugno 2009)
Ilenia Marrapodi