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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno I, n° 2 - Ottobre 2007

Zoom immagine Riflettere sull’Etica
e la vita attraverso
il sapere genetico

di Federica D'Amico
Il genoma è considerato dagli studiosi
un “codice a barre” davvero importante
per riuscire a capire la natura dell’uomo


Diritto, Etica, Filosofia, Medicina, Scienze cognitive: idee e discipline disparate si sono incontrate in occasione della III Conferenza Nazionale di Bioetica per la Scuola a cui hanno preso parte numerosi docenti universitari, provenienti dalle più svariate formazioni e carriere, dall’ambito strettamente medico alle discipline umanistiche e molti dei quali, tra l’altro, sono membri del Comitato nazionale per la Bioetica, promotore della conferenza. Sono le stesse voci che hanno contribuito alla realizzazione di un resoconto di due giorni di studi con riflessioni molto attuali e importanti contributi tecnici raccolti nel volume Le sfide della genetica. Conoscere, prevenire, curare, modificare (a cura di Marianna Gensabella Furnari, Rubbettino, pp. 290, € 18,00).

Un testo il cui pregio è sicuramente quello di riportare significativi momenti di confronto tra i Dipartimenti di Scienze cognitive e della Formazione e quello di Filosofia dell’Università di Messina, l’Istituto italiano di Bioetica e le cinque scuole superiori intervenute al forum, dimostrando come un sapere così altamente specialistico possa essere messo a disposizione di un utente meno esperto.

Infatti, «Il sottotitolo del testo Conoscere, prevenire, curare, modificare − scrive la curatrice del volume nella sua Prefazione − indica le quattro vie aperte dalla nuova genetica», quattro possibili direzioni verso cui si snodano le emergenti problematiche etiche e morali legate a un ambito di indagine della Medicina, spesso oscuro ed inaccessibile.

 

Siamo il nostro genoma e abbiamo il nostro genoma

«È possibile dire che il nostro Dna sia una molecola dotata di morale?», si chiedeva il professore di Genetica Steve Jones.

Un medico potrebbe rispondere che “è una domanda senza senso”, un filosofo invece troverebbe la domanda “pericolosa”. E scopo di questo interrogativo, di queste pagine, è proprio quello di far sorgere il dubbio di una possibilità che la ragione e il senso comune vorrebbero non accettare.

In realtà si tratta soltanto di un’ulteriore dimensione della pensabilità dell’essere umano, in quanto è vero che il nostro genoma è – assumendo questo paragone in senso molto lato – come un codice a barre che identifica un prodotto, ciò che rende l’individuo un essere specifico appartenente alla specie Homo Sapiens.

Ma è anche vero che, paradossalmente secondo la Furnari, poiché sarebbe impossibile prescindere da ciò che biologicamente ci costituisce e rende tali, a differenza di un mero prodotto fornito del codice a barre l’essere umano è evidentemente molto più che soltanto il suo genoma.

La fenomenologia, infatti, ci ha mostrato quanta differenza intercorra tra l’avere un corpo e l’essere quel corpo. E la Genetica oggi dovrebbe cercare di operare nel proprio domino di indagine non accantonando tale distinzione, insegnando invece che parlare della persona in termini di genoma significa innanzi tutto parlare dell’uomo sotto un certo aspetto, uno dei tanti possibili, senza voler così spersonalizzare l’individuo di tutto il suo correlato di ulteriori possibili determinazioni culturali o biologiche.

Essere il proprio genoma, quindi, non significa essere soltanto questo. Altrimenti, ricadendo in inutili riduzionismi, si rischierebbe una considerazione delle persone soltanto nell’ottica di una eventuale ospedalizzazione, e mai al di fuori ed al di là di questa prospettiva.

Ciò che conta, sostengono all’unanimità gli autori del libro è la consapevolezza, che ciascuno di noi possiede, di non essere esclusivamente una mera configurazione di geni, di non essere specifici soltanto in quanto depositari di questo genoma.

Piuttosto si può cogliere la peculiarità di ciascun soggetto nella capacità di fare buon uso di una conoscenza che possa garantire la giusta percezione di se stessi in quanto esseri umani ed individui, e l’acquisizione del giusto criterio attraverso il quale giudicare e relazionarsi all’altro da sé.

Accettare l’idea per cui siamo unicamente il nostro genoma e che soltanto esso ci identifica in quanto individui, significherebbe giustificare il potere narcisistico del sapere genetico e, come scrisse Jürgen Habermas in Il futuro della natura umana (Einaudi), accettare «il terzo ‘decentramento’ della nostra immagine del mondo, − dopo le rivoluzioni provocate dalle teorie di Darwin e Copernico − ossia l’assoggettamento del corpo e della mente all’ingegneria genetica».

Così la natura umana diviene il frutto non più del lavoro del caso, della natura o se volessimo anche di una entità metafisica, ma semplicemente il prodotto dell’agire umano. Si tratta di un rischio a cui la postmodernità ha esposto l’umanità oggettivandone la natura.

Una simile forma di determinismo genetico produce nuovi risvolti in ambito medico e filosofico, simili agli sconvolgimenti portati da Darwin più di un secolo fa quando con le sue teorie innovative aprì una nuova era del pensiero scientifico, reinventando la teoria dell’evoluzione alla luce delle più moderne scoperte genetiche, di cui certo il naturalista inglese non avrebbe potuto rendere conto.

Ha scritto Luigi Pareyson: «Nessuna schiavitù è paragonabile a quella dell’uomo rispetto alle idee ch’egli stesso ha prodotto». E da tale possibile sottomissione ad uno strapotere delle idee bisognerà ben guardarsi.

 

Un ponte tra Etica e Genetica: le sfide della Bioetica

Le sfide della genetica non è soltanto un titolo-slogan usato per indicare le guerre intestine ad un settore d’indagine ben preciso.

La difficoltà delle domande sollevate da filosofi, medici e dagli stessi studenti delle scuole superiori intervenuti durante i forum di discussione, aprono il panorama ad un più vasto dibattito che getta un ponte, spesso instabile, tra Etica e Genetica: le sfide della Bioetica.

Ma le difficoltà aumentano soprattutto quando a dover essere indagata è la paradossale questione relativa all’intervento della legge nel formulare una normativa della “politica della Genetica” rispetto al genoma in quanto “patrimonio di tutti”.

Si pensi, ad esempio, all’articolo 13 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la Biomedicina. Come fa notare Demetrio Neri, componente del comitato scientifico della conferenza, mentre tale articolo sostanzialmente vieta l’intervento sul genoma umano dei discendenti (quindi vieta l’intervento diretto sull’embrione), al fine di prevenire le generazioni future dall’ereditare un patrimonio genetico artificialmente creato, tale articolo contemporaneamente vieta il diritto alla salute di tutti quegli embrioni il cui Dna “difettoso” potrebbe essere curato attraverso una terapia genica germinale. L’articolo infatti solleva il problema del confine decisionale: in quali casi è possibile, oppure non lo è, intervenire sul genoma?

La questione a ridosso tra Etica e Diritto si fa controversa e mette in luce un intricato spettro di possibili argomentazioni tanto a favore quanto contro ciò che questo articolo implica.

Un simile esempio fa riflettere sulle difficoltà dell’istituire norme che possano soddisfare la particolarità di casi con cui quotidianamente la legge deve e dovrà confrontarsi. È la difficoltà del creare regole che riflettano il pluralismo etico senza assumere una posizione piuttosto che un’altra, e senza delegittimarne alcuna, soprattutto per evitare che la libertà della ricerca scientifica di cui l’umanità ha bisogno nei limiti del rispetto per la vita, venga lesa o limitata.

Accettare infatti in toto la possibilità di manipolazioni geniche del feto potrebbe indurre ad una sorta di rifiuto per la possibilità della malattia, prevedibile attraverso esami mirati, potrebbe provocare cioè una “corsa al figlio perfetto”. Ed anche un simile atteggiamento non sarebbe propriamente corretto da un punto di vista morale, oltre ad essere inquietante da un punto di vista socioculturale.

Test genetici e diagnosi genetica prenatale (Dpn) sono strumenti ormai essenziali per prevenire e curare malattie genetiche sia sul feto che sull’individuo ormai adulto. Le patologie determinate da malformazioni genetiche sono infatti individuabili soltanto attraverso esami specifici quali, nel caso della Dpn, tecniche di prelievo anche invasive tali che, in alcuni casi, possono anche comportare rischi per il feto, ma al contempo rappresentare l’unica via di conoscenza e prevenzione per la salute del nascituro.

Ma quanta informazione è necessaria per affrontare simili situazioni? Quante future madri conoscono termini come “amniocentesi”, “cordocentesi”, “villocentesi” prima ancora del momento in cui si troveranno sommerse da tanti impronunciabili termini dal significato apparentemente inaccessibile?

Un dato su cui riflettere è quello messo in luce da Isabella Maria Coghi nell’affermare che «Da noi esistono 263 centri [...] − in cui effettuare tali test ed esami − in Spagna funzionano 73 centri, in Olanda 8, in Svezia 10; in Francia la metà di quelli italiani», quasi come se nel nostro paese vi fosse una sorta di “corsa al test”, tale da indurre a pensare la necessità di questi esami specifici e sicuramente costosi in termini di denaro e di salute del feto e della futura madre, soltanto come una questione meramente lucrativa.

Quindi in un sistema che funziona in termini di economicità lo spazio garantito per l’informazione minima sarà sicuramente scarso.

In realtà esiste la figura del consulente genetista, il cui compito è proprio quello di accompagnare la gestante sia nell’effettuare i test adeguati che nel comunicarne ed interpretarne i dati. Una figura di grande valore, ma che purtroppo in Italia è spesso assente.

La consulenza genetica nella maggior parte dei casi viene tagliata fuori dagli iter di test-esami-controlli a cui la partoriente è sottoposta. Il ponte della Bioetica diventa così sempre più barcollante in particolare quando di una scienza si fa cattivo uso.

L’essere umano ha dei bisogni primari: cibarsi e riprodursi. Ma alla luce delle necessità culturalmente determinate molto spesso la lista si allunga fino ad includere necessità che in realtà non sono altro che desideri trasformati in esigenze biologiche. Così, anche la “necessità” di un figlio senza difetti non è altro che un egoistico desiderio di perfezione che la scienza, quando usata scorrettamente, oggigiorno diventa sempre più in grado di soddisfare. In casi di abuso del sapere scientifico è difficile trovare un punto di incontro tra domini, del sapere e dell’opinione, tanto contrastanti.

 

Conoscere: la necessità di una buona informazione e comunicazione

Il viaggio di Ulisse rappresenta probabilmente il migliore esempio di curiositas che la letteratura possa offrirci: da sempre l’uomo viaggia, materialmente o soltanto metaforicamente, andando alla ricerca della conoscenza, mosso dalla pura curiosità umana di accostarsi a tutto quanto sia ignoto.

Si tratta di una continua e coraggiosa ricerca di informazioni, a cui è ormai divenuto impossibile sottrarsi. Ma quando il sapere specialistico cresce tanto rapidamente diventa difficile gestirlo o poterne acquisire una utile porzione. Il rischio di ignoranza a cui un simile profluvio di informazioni sottopone è ingente.

Molto spesso però, settori scientifici tanto specializzati e nuovi quali la Genetica, ambito di indagine relativamente recente – gli studi di Johann Gregor Mendel sulla trasmissione dei caratteri ereditari risalgono alla fine dell’Ottocento – rappresentano per la gran parte dei comuni utenti un territorio oscuro e ciò comporta la necessità di strumenti adatti ad acquisire tale conoscenza.

O piuttosto, così come Van Rensselaer Potter sosteneva «è necessaria una metaconoscenza, ovvero una conoscenza di come usare la conoscenza», un sapere che, in questo caso, si collochi a metà strada tra la conoscenza di se stessi in quanto esseri biologici, delle leggi fisiologiche in base alle quali funzioniamo, del modo in cui abitiamo l’ambiente, e una conoscenza relativa ai fini verso cui la scienza si muove.

Insomma, la consapevolezza di sapere, secondo lo scienziato, aiuterebbe a rendere effettiva l’autodeterminazione informativa, cioè la possibilità che in termini legali viene accordata a tutti i cittadini di poter liberamente e consapevolmente scegliere di se stessi, del proprio corpo e delle informazioni relative ad esso.

Ma di che genere di informazione necessita il pubblico dei non addetti ai lavori? Il che cosa ed il come della Genetica, rischi, metodi e ricerche, dovrebbero essere divulgati attraverso un linguaggio quanto più chiaro e fruibile possibile, e non al solo scopo di fare notizia come nel caso delle informazioni mediatiche, molto spesso volte al sensazionalismo di una scoperta piuttosto che a pubblicizzarne l’utilità.

Il mondo del nostro genoma, di ciò che per natura siamo e ci appartiene pur se invisibile, non deve sfuggire al controllo della nostra conoscenza. È necessaria una democratizzazione delle informazioni poiché esse ci riguardano intimamente. Soltanto così sarà possibile costruire «una cittadinanza responsabile nell’età delle biotecnologie».

Parlare di responsabilità però induce le proposte e le riflessioni degli autori a ricadere anche in un ambito in cui il dibattito si fa più complesso, quello dell’incontro della Bioetica con il Diritto. Certamente è inevitabile il riferimento ad un’Etica della conoscenza che vigili sui limiti e sulla diffusione del nuovo sapere, motivo per cui si sono rese necessarie leggi ad hoc.

Questa rivoluzione genetica non deve dimenticare il diritto all’informazione e quello alla privacy di un paziente che prima ancora di essere tale è persona e cittadino. È quindi necessario un uso responsabile ed appropriato della propria conoscenza così da evitare estremismi quali il rischio di credere al determinismo genetico, per cui esisterebbero geni per gli occhi verdi così come per l’obesità, riducendo l’essere umano al solo profilo genetico, ed evitando così anche discriminazioni legate ad esso.

Si pensi ai casi di manipolazione genetica per il cambio di identità di genere, o al più recente vaccino per il tumore all’utero, di cui si è detto essere geneticamente determinato. Ed è il caso di citare anche i pericoli di manipolazioni genetiche non umane, gli Ogm, di cui inconsapevolmente continuiamo a nutrirci.

Domande relative a questi argomenti sono state rivolte dai giovani studenti agli studiosi del settore, rendendo così più vivo il dialogo proprio come riportato, in chiusura del volume, nel resoconto degli interventi. Un dialogo che stimoli sin da giovani al confronto e alla sete di conoscenze anche tanto complesse.

«Noi sappiamo e il sapere impone il fardello della responsabilità», e la cosa meravigliosa di tale sapere è che proprio grazie alla consapevolezza di possederlo gli uomini possono relazionarsi.

Abbattere l’ignoranza significa vivere meglio in un mondo costruito sulla conoscenza. Ma significa anche non precludersi la possibilità di sempre nuova conoscenza.

 

Federica D’Amico

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 2, ottobre 2007)

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