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Anno III, n. 21, Maggio 2009
La storia della felicità
e delle sue molteplici
e ineffabili definizioni
di Simona Antonelli
Da Rubbettino le aspirazioni al piacere
e il problema della deliberazione
Si può indagare sulla natura della felicità? Difficile da spiegare quanto interessante da esplorare nel suo percorso storico, la felicità ha rappresentato un tema fecondo per la filosofia, già a partire dai Greci. Aspirazione complessa e indecifrabile, tanto che l’uomo tende alla felicità senza ben sapere cosa sia effettivamente, a causa della sua eterogeneità inspiegabile e alla soggettività indefinibile di desideri che la caratterizzano.
Il saggio filosofico in questione, Breve storia della felicità (Rubbettino, pp. 180, € 13,00), illustra le diverse teorie filosofiche che sull’argomento sono state approfondite, confutate e ridiscusse nel tempo. Nel tentativo di dare forma e sostanza all’idea di felicità tramite le voci – e i turbamenti, potremmo dire – degli stessi filosofi, ciò a cui approda Nicholas White (professore universitario americano di Filosofia, specializzato in Etica ed Epistemologia) è una sorta di confessione paradossale: non potendo dare una definizione univoca che riesca ad abbracciare la molteplicità delle spiegazioni possibili, la felicità è un problema.
Problema inteso come indagine che ci si sforza di intraprendere, ma che non può avere risposte esclusive e certe, dunque irrisolvibile.
Il testo, preciso, articolato, ricco di riferimenti e citazioni – complesso ma al tempo stesso piuttosto comprensibile per i rimandi continui ai concetti chiave e i richiami intrecciati in ogni capitolo – è una ricerca della felicità, più che un suo racconto storico, tra gli interrogativi degli stessi filosofi e della stessa critica. Una ricerca che, in realtà, ha senso solo riguardo al pensiero personale, e il cui monito finale sembra recitare: meglio essere felici che cercare il modo di esserlo.
La felicità molteplice
La felicità è certamente un obiettivo, qualcosa di buono cui si aspira, che si desidera, una finalità dinamica, comunque, perché mutevole e relativa: ognuno dà diverso valore alle cose e ha mete eterogenee da inseguire.
Platone è il primo ad affrontare la questione, legata necessariamente al suo concetto di anima molteplice, di pluralità degli scopi: il benessere – fa già dire al suo Gorgia – consiste nell’ottenere ciò che si vuole, ma per raggiungere tale proposito occorrerebbe soddisfare contemporaneamente diverse finalità, molte delle quali sono in conflitto tra loro. Ecco che la ragione può intervenire per organizzarne la confusione tramite un’armonia. C’è bisogno, perciò, di una struttura da organizzare per far sì che un desiderio non sia d’intralcio ad un altro, o che la soddisfazione di uno non sia l’inappagamento dell’altro.
Senza un equilibrio, un’accordanza degli scopi, dunque, la felicità non può avere alcuna spiegazione intellegibile. Siamo in un circolo chiuso, o quantomeno dalla via contorta, giacché è quasi impossibile armonizzare la personalità così variegata dei desideri.
Aristotele ne supera l’ostacolo preferendo identificarla al contrario come una realtà unica, precisamente come l’«attività eccellente», il perseguimento di un fine dominante: il bene umano. Idea questa che non può prescindere da quella della moralità, la quale risente – va detto per inciso – della speculazione sulla perfezione indotta dal pensiero religioso.
Già dall’etica greca è proprio l’osservanza dei principi morali a portare gratificazione, così come in Platone o in Aristotele, o ancora nell’inclusivismo – quello hegeliano ad esempio – per cui la felicità è un concetto abbastanza ampio da contenere, includere appunto, la moralità.
Ma, a ragion veduta, spesso la ricerca della gioia, lungi dall’essere un’azione virtuosa, non segue principi etici, perché – come sostiene Kant ad esempio – le inclinazioni umane ne sono spesso in contrasto, specialmente se si riconosce il carattere vincolante delle norme morali, distinto naturalis dalle mire di godimento.
Il problema della molteplicità e della varietà può essere affrontato anche in un’ottica opposta: Nietzsche pensa che sia proprio lo scontro tra scopi a poter generare piacere; per lui l’euforia nasce dal conflitto psicologico e – confutando così l’armonia platonica – sostiene che avere fini diversi e conflittuali porta ad effetti di gradimento: «lo scontro tra desideri può essere considerato desiderabile».
In ogni caso, si deduce facilmente, è il piacere il riferimento più esplicito alla felicità. Gli edonisti risolvono la molteplicità dei desideri con la misura del loro rispettivo valore.
Tuttavia, si rischia di incappare ancora nell’impossibilità di raggiungere tutti i piaceri, o, in ogni caso, nella difficoltà di beneficiarne contemporaneamente, perché in un «continuo flusso del desiderio da un oggetto a un altro, e la conquista di uno non è che la via per conquistarne un altro» (Hobbes).
La ricerca insiste nella sua incessante analisi senza soluzioni, perché è indubbio e naturale che l’uomo non si appaghi di un solo piacere né di una sua moderazione, a meno che non si “accontenti” di considerarlo come assenza di turbamento e dolore (atarassia): eppure anche su questo terreno – lo rileva Epicuro – l’uomo combatte da sempre.
Il problema della definizione
La filosofia tenta di rivelare una “struttura” negli scopi dell’uomo, un’organizzazione che permetta la realizzazione dei desideri. Il problema è che una strategia risulta improbabile da scoprire visto che la personalità, lo ripetiamo, muta di volta in volta: i progetti cambiano e i sogni si trasformano.
La concezione dinamica della felicità – sviluppata specialmente dal XX sec. – spiega, così, l’impossibilità di predire la quantità e la qualità del piacere proiettate nel futuro (Hegel); le aspirazioni variano nel tempo e non sono necessariamente possedute d’un colpo – pensiero opposto a quello aristotelico per cui la felicità è statica e raggiungibile in momenti precisi –, mutano insieme alla stessa realtà.
Una visione più flessibile della felicità può favorire altresì una concezione più morbida del proprio tempo, quindi più affabile della propria vita.
Bisognerebbe dimostrare elasticità di giudizio o, ancor più, ammettere l’incapacità di definizione.
Le diverse e colorate ipotesi rimangono, allora, pura indagine fine a se stessa, perché intrise di una razionalità che non appartiene per natura alla felicità, così indeterminata, fatta di istinto, sensazione, idee e immagini senza verbo.
Se lo scopo è, pertanto, raggiungere quanto più piacere possibile, la deliberazione sul metodo e sulla via per ottenerlo può trasformarsi in un ostacolo alla sua stessa conquista: «Le persone non riescono spontaneamente a gioire quando pensano al modo in cui gioire» (Sidgwick). Dire o pensare la felicità – sembra concludere l’autore – è più difficile che provarla. Investigarla diventa un paradosso, la ricerca di «un’entità non raggiungibile», un empirismo non determinabile di certo, per cui, alla fine, diventa un problema: «In realtà, ciò da cui tutti partono, noi compresi, è appunto il problema. La mia conclusione è allora che è appunto il problema, come tale, a costituire la natura della felicità».
Simona Antonelli
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 21, maggio 2009)
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