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Anno III, n. 21, Maggio 2009
La questione nordirlandese:
instabilità, tensione e pace.
Belfast come luogo-simbolo
contro l’oblio, per ricordare
di Nicola D'Agostino
Venti anni di un conflitto in una raccolta
di articoli, per i tipi di Edizioni associate
È il 10 aprile 1998 quando a Belfast, nel castello di Stormont, un giovane Tony Blair, primo ministro britannico, e Bartie Ahern, primo ministro irlandese, firmano l’omonimo accordo (meglio conosciuto come “l’Accordo del Venerdì Santo”); un patto “storico” stipulato tra i governi inglese, irlandese e ben otto dei partiti politici dell’Irlanda del Nord che decisero di partecipare alle trattative. In contemporanea, il mese seguente, sia l’Irlanda che la Repubblica irlandese approvarono la convenzione – con una vasta maggioranza – in un referendum, arrivata dopo quasi un secolo di lotte. La pace sembrava alle porte: da una parte la Repubblica d’Irlanda che, ottenuta l’autonomia dalla Gran Bretagna nel 1921, non accettò la separazione delle sei contee dell’Ulster; dall’altra quest’ultime – a maggioranza protestante – che avevano formato l’anno prima, la provincia dell’Irlanda del Nord, con una sua Costituzione e un suo Parlamento.
Col tempo, la maggioranza “unionista” protestante dell’Irlanda del Nord, legata alla Corona britannica, consolidò il suo dominio politico, economico e sociale. Lo scontro con la minoranza dei cattolici fu inevitabile e tra questi cominciarono ad avvertirsi istanze repubblicane e indipendentiste.
A dieci anni dallo storico “Accordo del Venerdì Santo”, la giornalista e scrittrice Silvia Calamati raccoglie gli articoli – suoi e di altri giornalisti di rango come Brian Feeney, del quotidiano The Irish News di Belfast, o Roy Greenslade, del londinese The Guardian – scritti nel corso di un ventennio. Ne esce un libro coraggioso, Qui Belfast. 20 anni di cronache dall’Irlanda di Bobby Sands e Pat Finucane (Edizioni associate, pp. 364, € 16,00), che ha una pretesa: non far cadere nell’oblio il sangue versato nell’atavico conflitto nordirlandese.
La voce della memoria, oltre il futuro
È dal 1982 che la giornalista, oggi collaboratrice di Rai News 24, si occupa di quel difficile – a volte incomprensibile – processo politico che ha insanguinato le sei delle nove contee che costituivano l’antica provincia dell’Ulster.
Quella della scrittrice è una narrazione sobria e rigorosa in cui sono racchiuse una moltitudine di voci “afone” che gridano verità e giustizia.
Ritratti vividi di donne e uomini che, animati da eterne speranze, celano un senso di dolore.
Il libro pone domande spietate, con acuta intransigenza: «Perché sono ancora a piede libero i mandanti dell’assassinio degli avvocati Pat Finucane e Rosemary Nelson, uccisi rispettivamente nel 1989 e 1999? Perché non si conoscono ancora i nomi dei killer del giornalista Martin O’Hagan, assassinato nel 2001? E perché non hanno avuto ancora giustizia le famiglie delle moltissime persone uccise in questi anni a causa della politica di collusioni tra soldati, polizia, servizi segreti e gruppi paramilitari? Perché, infine, le leggi, le istituzioni e le strutture che hanno permesso tali collusioni e violazioni dei diritti umani non sono state ancora eliminate?».
Le risposte latitano. Resta una terra che gronda di sangue, tra instabilità e tensione. Un crogiolo di problemi politici, sociali, religiosi, linguistici e culturali che ancora oggi condizionano una lunga ed estenuante trattativa per la pace.
Una “pace senza giustizia” che ancora fatica ad approdare a una definitiva soluzione.
E l’autrice non si sottrae al dovere di raccontare le disumane condizioni dei detenuti nelle carceri di “massima sicurezza”. In un articolo del 1985, infatti, si leggono le aberranti vicende delle detenute che «vengono perquisite ogni volta che entrano o escono dal carcere. Quelle in attesa di giudizio devono presentarsi in tribunale periodicamente. Le donne il cui processo è già in corso, invece, vengono perquisite due volte al giorno, cinque giorni la settimana, per tutta la durata del processo, che può protrarsi per mesi».
La riflessione, dunque, diventa un obbligo quando si apprende che uno stadio, molto probabilmente, prenderà il posto del carcere di Long Kesh. È il segno del tempo che, come un abile chirurgo, recide la memoria. Proprio lì, a Belfast. Nella città in cui gli U2, nel dicembre 1982, suonarono per la prima volta in pubblico la loro Sunday Bloody Sunday: «I can’t believe the news today, / I can’t close my eyes and make it go away…» («Non riesco a credere oggi alle notizie, / Non posso chiudere gli occhi e farle sparire…»).
Nicola D’Agostino
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 21, maggio 2009)
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