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Direttore editoriale: Maria Ausilia Gulino
Anno III, n. 20, Aprile 2009
Quando è la giustizia
a uccidere. E la pena
di morte svela le sue
troppe contraddizioni
di Elisabetta Zicchinella
Un avvocato, il suo assistito, l’ombra
della ghigliottina per edizioni Spirali
È la narrazione fedele di un processo giudiziario realmente accaduto, “circondato” dal racconto di un’esperienza umana e professionale che, valicando la sfera privata, trasmette un messaggio di alto valore sociale, capace di lenire l’aspra realtà dell’odio. Il senso ambiguo della giustizia – fatta di precarietà e di certezze acquisite, di speranza e di amarezza, di passione e di debolezza, di contraddizioni e di coerenze – pervade, con i suoi risvolti a volte illuminanti e a volte oscuri, le pagine de L’esecuzione (edizioni Spirali, pp. 196, € 20,00) di Robert Badinter, avvocato penalista che, nominato ministro della Giustizia francese nell’estate del 1981, presentò all’Assemblea Nazionale un disegno di legge a favore dell’abolizione della pena di morte, in seguito approvato. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1973 presso la casa editrice Grasset e rieditato nel 2008 con una Prefazione e alcune correzioni aggiuntive curate dallo stesso autore, narra le vicende giudiziarie di Claude Buffet e di Roger Bontemps. Nel 1972 i due uomini, nel tentativo di evadere dalla prigione di Clairvaux, vengono accusati di aver preso in ostaggio e ucciso un’infermiera e una guardia carceraria. Allo scopo di offrire alle nuove generazioni la possibilità di conoscere «quella giustizia che uccideva», Badinter, che assunse la difesa di uno degli imputati, conduce il lettore del nuovo millennio ai tempi – non troppo lontani – in cui la ghigliottina eseguiva, all’alba di nuovi giorni, le sentenze di morte pronunciate dai tribunali francesi.
Il senso beffardo della giustizia
Si tratta di un testo che, seppur padroneggiato da uno stile sicuro e deciso, cadenzato da un linguaggio in prima persona, invita il lettore a concedersi delle pause per riflettere. Le puntuali e a volte incalzanti ricostruzioni del processo penale, così come l’accurato scavo introspettivo condotto dall’io “pensante” dell’autore, suscitano un’ansia di crescente interrogazione e, di rimando, un bisogno di risposte che sembra rimanere inatteso o soddisfatto per metà. L’intreccio psicologico, di cui le pagine del libro sono intessute, non manca, infatti, di dispiegare quel filo di umana debolezza che inibisce ogni responso assolutizzante. Quanto è labile il confine tra innocenza e colpevolezza, tra libertà e detenzione? E, soprattutto, la giustizia è affermazione o negazione di se stessa? L’esecuzione è un’opera dall’indole forte, caratterizzata da un’impostazione amaramente derisoria. La vicenda narrata, o meglio, le vicende narrate assumono in tal senso un tono drammatico, non tanto per il richiamo costante alla ghigliottina, che pure evoca un’angosciosa suggestione, ma, in special modo, per quell’aria beffarda che investe ogni riflessione e ogni personaggio. Quest’ultimo aspetto non è, però, un artificio letterario ricercato dallo scrittore, bensì una forza a sé che, come tale, ha vita propria e non può essere né frenata né, tanto meno piegata. Badinter non può celarla, ma, al contrario, traendone il giusto fervore, deve imprescindibilmente condurla nei canali comunicativi, che svelano, a loro volta, tutta l’autenticità dissacrante del libro. L’io narrante dello scrittore, dunque, nella rievocazione della parabola professionale che lo ha portato a difendere Bontemps, uno degli imputati, non può fare a meno di abbandonarsi a cupe e inesorabili riflessioni che “mettono in discussione” tanto il suo essere uomo, quanto il suo essere avvocato. Si chiede: «A cosa servo io?». Nonostante, infatti, il giovane Badinter dimostri scientificamente in sede processuale che il suo assistito non ha commesso l’omicidio, la sentenza di condanna a morte e poi, ancora, il rifiuto della domanda di grazia “scherniscono” non solo i suoi sforzi, ma anche la verità in sé. L’altro imputato – Buffet «accusato modello» – con l’aria di sfida perennemente dipinta sul volto, mostra totale indifferenza nei riguardi dei crimini commessi, andando incontro alla fine della sua esistenza con una dignità che non è frutto di pentimento, bensì di felice realizzazione “nell’abbracciare” la stessa morte che “amava” infliggere alle sue vittime.
Il vizio dell’odio
La pena capitale – sembra suggerire l’autore – non rappresenta una condanna applicata con equità, ma, piuttosto, una sorta di ricompensa per soddisfare l’odio, il quale, a sua volta, offuscando l’umana capacità di discernimento e mettendo a tacere la coscienza individuale, non fa altro che screditare la giustizia stessa e svelare la parte più infima degli uomini. Scrive Badinter: «Avevo visto a nudo, come mai prima, il volto dell’odio […]. Gli uomini della mia generazione hanno avuto spesso occasione di incontrarlo. Ma l’odio presenta il suo volto peggiore quando si adorna della maschera della giustizia. L’odio furioso fa paura. L’odio giustiziere fa vergogna». Il processo penale, inoltre, pare esaltare a turno l’immagine stessa della satira pungente, poiché – commenta ancora l’autore – «Rivestiva nella mia mente un aspetto caricaturale, stridente […]. Le udienze mi apparivano una sorta di teatro in cui alcune marionette si fossero messe a cozzare tra loro. Sotto gli occhi di un pubblico beffardo […] c’erano tutti, agitati, assurdi, fino al momento in cui la morte arrivava e li faceva sparire tutti nella botola». Il libro, nel tentativo dichiarato da Badinter di far conoscere alle nuove generazioni l’epoca della pena di morte, è, altresì, “scosso” da un’altra forza autonoma: l’inesorabilità. Di fronte all’intransigenza opposta dall’odio, ogni tentativo è vano: non c’è posto per la fiducia e per la speranza. La ragione stessa si sottomette ad un irreversibile verdetto. Tutto è spazzato via, quasi a priori, dal vento di un’energia spietata che, respingendo ogni addebito di clemenza e non fermandosi davanti a niente, impone, a sua volta, la resa. L’avvocato difensore cede, ma la sua coscienza umana e professionale non ne esce indenne. «Le strade erano vuote, come me. Asciugai il vetro con il guanto. Non c’era più niente da fare, da dire. Era finito, ecco tutto. L’affaire Bontemps era finito». In questo volume lo scrittore riflette, dialoga con se stesso e con il lettore, conducendolo nelle pieghe di un dramma giudiziario combinato al dramma umano. La giustizia – creata dagli uomini per gli uomini – abusa dei suoi poteri. Nel compiersi, infatti, nega paradossalmente se stessa. Devia dai principi di equità da cui dovrebbe elevarsi per uniformarsi ai dettami di coscienze interiori deformate e, al contempo, affamate dal desiderio di vendetta. Diventa strumento complice dell’odio che, trionfando, legittima una morte ingiusta. Scrive Badinter: «Mi scontravo sempre con questa evidenza: “loro” hanno ammesso che non aveva ucciso. E “loro” lo hanno condannato a morte. Allora, a che pro interrogarsi?».
Elisabetta Zicchinella
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 20, aprile 2009)
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