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Anno III, n. 20, Aprile 2009
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno III, n. 20, Aprile 2009

Zoom immagine La storia di ventisette magistrati
vittime consapevoli e coraggiose

di Francesca Rinaldi
Giudici morti per amministrare la giustizia in Italia, le loro vicende
tra depistaggi, veleni e intrighi di palazzo, dalla Newton Compton


Già dal Prologo il giornalista Paride Leporace spiega il suo intento nel descrivere la vita, ma in questo caso soprattutto la morte, dei 26 magistrati uccisi (e uno scomparso nel nulla) in Italia dal 1969 al 1994. «Un racconto noir tinto di sangue. Scritto per non far dimenticare i caduti e per far riflettere i giovani che non hanno vissuto quegli avvenimenti a loro sconosciuti. Il libro vuole essere un omaggio ai magistrati caduti e che in gran parte sono dimenticati a causa dell’oblio del tempo».

Sicuramente questa “dimenticanza” non è quella “necessaria” di cui parla Brecht nella sua lirica, Elogio della dimenticanza. Ci si chiede allora, perché di quella lista noi possiamo vedere qualche stanca commemorazione annuale soltanto di un paio di quei magistrati. E gli altri? Chi erano e da chi sono stati uccisi?

Nel libro Toghe rosso sangue pubblicato da Newton Compton editori (pp. 320, € 12,90) è raccontata la storia professionale di ognuno di loro, ma anche il contesto in cui è maturato ciascun delitto.

 

I primi a morire

La lista è lunga, si inizia con l’omicidio a freddo del procuratore della Repubblica di Brescia Agostino Pianta ucciso il 17 marzo 1969 da Loris Guizzardi soltanto per vendicarsi di un’ingiusta condanna avvenuta molti anni prima.

C’è poi tutta l’Italia dei misteri e delle soluzioni a metà, dietro l’attentato che ha portato alla morte del procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione, avvenuta nel maggio 1971. Il giornalista Mauro De Mauro poco prima di scomparire nel nulla, nel settembre del 1970, aveva parlato con lui. E proprio Scaglione aveva istruito il processo contro la banda del criminale Salvatore Giuliano, per la strage di Portella della Ginestra. Fu con Scaglione che parlò Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, il giorno prima di bere un caffè alla stricnina.

Scaglione aveva 64 anni e avrebbe dovuto lasciare Palermo, perché trasferito d’ufficio dopo che il boss corleonese Luciano Liggio era clamorosamente evaso da una clinica. Inoltre il giornale palermitano L’Ora sia subito prima che dopo la sua morte, portava avanti una campagna molto dura contro il magistrato. Ai suoi funerali nessuna autorità del governo sarà presente, e sebbene dal 1978 si conoscano i nomi di due degli esecutori materiali (Totò Riina e Liggio), nel 2001 Antonio Scaglione, il figlio, dovrà precisare: «L’operato del magistrato Scaglione ante e post mortem, è sempre risultato in tutte le sedi giudiziarie e istituzionali, assolutamente corretto e imparziale».

Siamo nel 1975 e anche il dottor Francesco Ferlaino ha 64 anni quando viene ucciso sotto casa sua a Lamezia Terme, ancora una volta per questa tragica morte si apre una vicenda fatta di pentiti con false dichiarazioni che tirano in ballo personalità politiche e anche cantastorie che raccontano una vicenda di massoneria deviata.

 

Obiettivi e omicidi politici

A Genova, l’8 giugno 1976, sono invece le Br (Brigate rosse) a mantenere la loro promessa di morte uccidendo il procuratore generale Francesco Coco. È “colpevole” ai loro occhi di essere stato un sostenitore della linea dell’intransigenza durante il sequestro del giudice Mario Sossi (nessuno scambio del prigioniero con altri detenuti nelle prigioni italiane). Durante tutta la prigionia di Sossi sui muri di Genova si leggono scritte che inneggiano alla morte del procuratore generale, la sua è una morte annunciata, e subito dopo il giornale Lotta continua adombra addirittura oscure ipotesi di complotto legate alla morte del giudice Scaglione.

A luglio a morire è il giudice Vittorio Occorsio, una vera e propria esecuzione, sempre terroristi, ma stavolta neri. Occorsio nei primi anni Settanta è riuscito a far riconoscere al tribunale di Roma che il movimento di destra Ordine nuovo vuole riorganizzare il Partito fascista, e deve essere dunque perseguito per legge. È questa la sua condanna a morte, il suo killer, Pierluigi Concutelli, è infatti un ordinovista, che sarà catturato e processato l’anno seguente. Giusva Fioravanti, capo dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari) guarda con ammirazione a Concutelli e al “coraggio” che ha dimostrato con la sua azione, e sognerà spesso di farlo evadere, mentre nel giugno del 1980 organizza la sua vendetta contro il giudice Mario Amato. Fioravanti, lo pedina per giorni e spiega tutti i suoi spostamenti a Gilberto Cavallini, l’esecutore materiale, milanese arrivato apposta a Roma per ucciderlo, che gli spara mentre aspetta l’autobus per andare al lavoro.

È il 6 maggio del 1975 quando i Nap (Nuclei armati proletari) rapiscono Giuseppe Di Gennaro, magistrato di Cassazione, direttore del Centro elettronico dell’amministrazione penitenziaria. Soltanto anni dopo si saprà che la gran parte dei nomi di magistrati dell’amministrazione penitenziaria sono obiettivi segnalati da Giovanni Senzani, il professore criminologo, collaboratore del Ministero di Grazia e Giustizia che più tardi sarà a capo delle Br-Partito guerriglia. E iniziano a morire i cosiddetti magistrati delle carceri, giudici non inquirenti come Riccardo Palma, ucciso a Roma nel febbraio 1978, Girolamo Tartaglione nell’ottobre dello stesso anno, Girolamo Minervini nel 1980. Il terrorismo rosso uccide dei giudici anche perché sono moderni e riformisti, è il caso di Emilio Alessandrini e Guido Galli uccisi a Milano dalla formazione eversiva Prima linea rispettivamente nel 1979 e nel 1980. Desta forse uno sconcerto diverso la descrizione dell’ambiente in cui sono maturati gli omicidi di Fedele Calvosa nel 1978 a Frosinone e di Nicola Giacumbi nel 1980 a Salerno. Calvosa magistrato di periferia ucciso dal gruppo Fcc (Formazioni comuniste combattenti), sigla che ha vita breve e che sparirà praticamente subito dopo la sua morte, fiaccata dagli arresti. Giacumbi ucciso a Salerno da un gruppo di studenti, operai, e impiegati che forma una colonna brigatista intitolandola ad un militante della prima ora, e che ha pianificato in un casolare l’omicidio del procuratore.

 

Nel mirino della criminalità organizzata

Ed eccoci di nuovo a Palermo, nella Palermo dei veleni e delle “cupole” dei primi anni Ottanta, ma anche delle, mai ben chiarite, commistioni dei colletti bianchi nei vari “affari” della città, e dei magistrati coraggiosi. Il secondo a morire in città, dopo Scaglione è stavolta un magistrato “rosso”, Cesare Terranova, ucciso il 25 settembre del 1979. Bisognerà aspettare il 2000 per avere una sentenza di condanna dei suoi mandanti. Nella stessa procura, tra gli stessi veleni muoiono Gaetano Costa, ucciso nel 1980, e Rocco Chinnici, nel 1983. Altri magistrati di Palermo moriranno circa dieci anni dopo, a maggio Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e a luglio Paolo Borsellino, dilaniati da spaventosi ed eclatanti attentati.

Anche a Trapani, in quegli stessi anni, la Giustizia veniva amministrata “da pochi” e alcuni hanno pagato con la vita il proprio impegno. È il caso di Gian Giacomo Ciaccio Montalto, che viene ucciso nel 1983 in una fredda mattina di gennaio, mentre fa ritorno a casa dopo una cena fuori. Ciaccio Montalto era uno dei pochi magistrati in quegli anni ad indagare sulle collusioni delle banche e dei colletti bianchi con la criminalità organizzata, ed era un “giudice solo”. A 69 anni, ormai in pensione, muore nel 1988 anche Alberto Giacomelli, giudice a Trapani e ormai dedito all’amministrazione dei suoi terreni, passerà del tempo e molti depistaggi organizzati ad arte, prima di arrivare a trovare i mandanti (ma mai gli esecutori materiali) del suo delitto, compiuto per aver firmato l’ordine di sequestro (una delle prime applicazioni della legge Rognoni-LaTorre) di una casa di Gaetano Riina, fratello di Totò.

Sulla statale 640, che congiunge Agrigento e Caltanissetta con Palermo, sono due i magistrati a morire a distanza di 24 mesi l’uno dall’altro. Nel 1988 viene ucciso Antonino Saetta assieme al figlio e nel 1990 Rosario Livatino. Il primo, da magistrato giudicante, aveva firmato molti ergastoli e la mafia aveva firmato a sua volta per lui la condanna a morte, il secondo era troppo “inflessibile” agli occhi della Stidda rispetto ad altri suoi colleghi.

Ma la criminalità organizzata del Sud, ammazza anche al Nord, Bruno Caccia, procuratore capo a Torino, viene ucciso il 26 giugno 1983 per aver disturbato gli affari delle ’ndrine nella città della Mole. Sempre la ’ndrangheta a Campo Calabro fredda nell’agosto del 1991 un giudice della Suprema Corte, Antonino Scopelliti (mentre era nella sua Calabria in vacanza). Uccide per fare un favore a Cosa nostra e a tutt’oggi per questo delitto non è stata letta alcuna sentenza di colpevolezza.

Nel 1993 un magistrato italiano che dirige l’Ufficio studi e ricerche del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Luigi Daga, viene ucciso al Cairo durante un congresso internazionale, in un attentato compiuto da un fondamentalista islamico. L’ultimo togato nell’elenco di Leporace è Paolo Adinolfi, diverso da tutti gli altri. Innanzitutto Adinolfi si occupa di cause civili e fallimenti nel tribunale di Roma, e secondariamente è scomparso. Infatti il 2 luglio 1994 il magistrato esce di casa e nessuno lo vedrà mai più, probabilmente vittima degli oscuri intrighi dei primi anni Novanta nella capitale, divisa tra giudici corrotti, banda della Magliana e speculazioni immobiliari.

Il libro di Leporace è scritto col rigore della ricerca come documentato dall’ampia bibliografia finale. Al testo, l’autore ha da poco affiancato un blog (www.togherossosangue.it) al quale ha già scritto la signora Adinolfi.

Criminali comuni, terroristi neri, rossi o islamici, mafiosi o ’ndranghetisti, quasi non importa quale fosse la mano dell’assassino, quello che traspare dalla lettura è la solitudine delle vittime, la consapevolezza del rischio e la sensazione di essere state lasciate sole dai colleghi, dallo stato, riuscendo comunque a non perdere mai il rigore morale e l’etica della professione.

Degli eroi del nostro tempo, insomma, e della nostra storia recente e, citando nuovamente Brecht, riportiamo anche noi (come nel libro) un manifesto dell’Associazione nazionale magistrati che nel 2000 commemorava i giudici morti per combattere la criminalità: «Sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi. Ma ancora più sfortunato il popolo che ne disperde l’esempio e l’insegnamento».

 

Francesca Rinaldi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 20, aprile 2009)

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