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Anno I, n° 1 - Settembre 2007
Italiane emigrate in Argentina, tra rischio e attesa
di Silvia Favaretto
Storie di donne, custodi del passato e protagoniste del tempo presente
divise tra ricordo e quotidianità. Il tutto in un’antologia di Città aperta
Il mondo femminile dell’immigrazione è stato recentemente sondato da Camilla Cattarulla e Ilaria Magnani nell’antologia L’azzardo e la pazienza. Donne emigrate nella narrativa argentina (Città aperta, pp. 118, € 11,00). Nel saggio, corredato da testi esemplificativi, le due autrici tracciano un affresco dell’immagine che restituiscono i romanzi del Ventesimo secolo delle protagoniste dell’immigrazione in Argentina, tra Otto e Novecento, e delle loro discendenti. Esse rompono un silenzio dovuto ad uno scarso interesse, degli anni precedenti, verso la figura dell’emigrata italiana; lacuna colmata dal sorgere, recentemente, di nuove analisi degli ethnic women’s studies che hanno dato il via ad un approccio analitico che include, come materiale d’investigazione, anche i diari intimi e le memorie autobiografiche delle emigrate.
L’orientamento di questi studi ha inoltre sottolineato il ruolo fondamentale della donna come elemento fondante la costruzione economica e culturale di un Paese. Nel caso concreto dell’Argentina sono da ricordare, a questo proposito, le ricerche di Carina Frid de Silberstein e della citata Alicia Bernasconi. L’interesse per le questioni di genere ha perciò risvegliato la produzione di romanzi centrati, a volte, su saghe familiari, altre, su vicende autobiografiche.
La narrativa contemporanea si delinea in maniera oppositiva rispetto alla costruzione della figura femminile e dell’immigrato nel teatro del secolo precedente: il sarcasmo e la denigrazione sono definitivamente abbandonati in favore del ricordo intimo, della costruzione profonda e rispettosa della propria memoria familiare. Una funzione mimetica che è, per eccellenza, femminile, poiché «memoria, aneddoto, racconto sono quasi sempre un fardello che le donne hanno conservato ed elargito ai posteri».
Donna mitica e ancestrale
La tendenza al recupero del passato migratorio fa sì che la migrazione italiana degli ultimi decenni del XX secolo non sia vissuta più come stigma, ma, per un mutamento del panorama internazionale, come un motivo d’orgoglio. In questi ultimi romanzi, l’Argentina è vista non più come un paese di ricezione, bensì come un luogo da cui i cittadini vengono espulsi, nuovamente, come lo erano stati i propri avi europei, per ragioni di crisi economica. Il tramite con il passato e con l’identità familiare è proprio la figura femminile che non è più, come nel teatro d’inizio Novecento, il prototipo della vittima, sola, indifesa e straniera.
Si tratta di una donna dominante, una figura mitica e ancestrale nonostante la sua immersione nell’universo quotidiano e domestico. L’antenata immigrata come custode della memoria del passato rappresenta un ruolo nuovo, lontano dai personaggi stereotipati della drammaturgia degli inizi. La nuova carica identitaria del personaggio femminile viene definita, dalle autrici de L’azzardo e la pazienza, come «l’esigenza di rielaborare la memoria al di là della sua verità storica, fondando il diritto alla costruzione letteraria».
Queste figure non si scostano dalla loro condizione di marginalità ma, al contrario, si fanno forti dell’alterità della loro posizione per esaltarla come luogo di osservazione privilegiato e, allo stesso tempo, come sito del ricordo e dell’eredità spirituale di un passato che, anche se relegato in secondo piano, non accenna a dissolversi. In questo modo le donne fungono da emblema del superamento di un ruolo abnegato e silente per rivelarsi invece colonna portante dell’identità nazionale di un popolo, «superando la tendenza alla rimozione e sostituendola con la volontà di recuperare e comprendere, che da’ luogo a una identità molteplice ma non frammentata, icona della ricchezza insita nella pluralità».
Mentre nelle figure femminili del sainete e del grotesco crollo l’incomprensione e lo scontro erano preponderanti tra padre e figlio, lasciando invece alla madre un ruolo edulcorato dai buoni sentimenti e dalla nobiltà d’animo, nei romanzi a noi contemporanei appare una genealogia femminile fatta anche di conflitti generazionali.
Molte sono le opere che potrebbero formare un macrotesto del femminile immigratorio. María Angelica Scotti in Diario de ilusione y naufragios racconta la serie di sfortune in cui si imbatte una coppia di italiani, la moglie perde i figli e si riduce in miseria. Sono personaggi che si aggirano tra il quotidiano e il surreale, come nel caso dell’italiana che, caduta in mare, sopravvive grazie a un medaglione raffigurante
Gli uomini lasciano la scena alle figure femminili anche in Gente conmigo di Syria Poletti:
«Erano gli eletti del progresso. O i loro schiavi. Perciò le donne dovevano essere salde molto brave a partorire figli. Con mariti ufficiali o senza di loro. Donne che se la cavavano da sole in tutto, con la paziente tenacia di chi non è desiderata, con quella disposizione al lavoro propria dei clan soggiogati dal maschio. Potevano addirittura fare a meno dell’amore. Ma a fare uomini, erano brave. Li facevano forti di fisico, perché la forza interiore la tenevano per se stesse. Ne avevano più bisogno. E gli uomini venivano grandi, tosti, nomadi e sportivi come i bambini. Loro erano duri: la flessibilità di fronte alla vita la acquisivano le donne».
Il dramma della partenza e l’ansia del ricevere notizie dall’Europa
La tragica attesa di notizie di chi restava in Europa è stata raccontata anche da Pedro Orgambide in Hacer
«Manuel le aveva detto: vado in America. E lei gli aveva messo in valigia i pantaloni, due camicie, un giacca, gli stivaletti- regalo di suo cugino –e un crocifisso perché attraversasse il mare. Troverò lavoro. E poi verrete tu e i figlioli. E Manuel è uomo di parola. Di poche parole a dire il vero. Carmen non ha motivo di abbassare la testa davanti alle vicine e ai corvi [...] Zitti! È arrivata una lettera di Manuel e lei va dal signor parroco perché ne decifri il contenuto».
Spagna e Italia, luoghi principali di provenienza dell’immigrazione erano accomunate dalla triste separazione, dall’incessante attesa, dall’illusione che doveva comportare un foglio scritto in una calligrafia indecifrabile per povere contadine analfabete, che ricorrevano ai curati per sciogliere l’imbroglio delle lettere. La pena e la nostalgia sono ricordate anche da Roberto Raschella: «Se qualcuno se ne va dal paese ed è amato le cose sanno di lui. Apri una porta e trovi l’ultimo cantuccio dove ha abbracciato il figlio e lo ha baciato tra le lacrime». In quest'opera la figura femminile viene delineata con costruzioni linguistiche apparentemente ossimoriche: «un’ondata di furore si sarebbe unita alla pietà, il temibile furore, la temibile pietà delle donne», che sottolineano come, il fulcro dell’intensità, anche quando i protagonisti sono uomini, resti l’universo femminile.
Il dissidio interiore che queste ragazze dovevano sentire all’approssimarsi della partenza dai loro cari è ben tratteggiato da Antonio Dal Masetto in Oscuramente fuerte es la vida:
«Sembrava assurdo opporsi e non mi opposi. Mario scrisse che accettava. Arrivò un’altra lettera. Mario cominciò i preparativi [...] Io sorridevo e non dicevo niente. [...] Tutti dicevano di invidiarlo ed invidiarmi per quella fortuna. Io tacevo».
Il silenzio del personaggio femminile è rivelatore della preoccupazione e del turbamento che sconvolge, nonostante il tentativo di dissimularlo: «c’era qualcosa in me che si opponeva, che non capiva. Mi sentivo come se una volontà estranea mi avesse afferrata di sorpresa e mi stesse trascinando in un’avventura a cui non ero preparata». Prima di lasciare il suolo patrio, la donna raccoglie in una bustina di stoffa un po’ di terra, per portarla con sé, nel gesto emblematico di porre qualcosa in salvo, di trascinare in America un pezzo d’Italia, il suolo scuro che hanno calpestato i genitori, i figli, i fratelli, gli amici.
Il viaggio verso l’Argentina
Altre volte, come racconta María Teresa Andruetto in Stefano, le ragazze partivano alla volta dell’Argentina per ricongiungersi con un fidanzato che quasi non ricordavano più:
«Gina andava a sposarsi in Argentina: a Rosario l’aspetta il fidanzato, così ha detto, anche se Stefano durante la notte l’aveva vista rispondere con malizia allo sguardo dell’uomo dall’abito marezzato».
Il viaggio in nave verso Buenos Aires era spesso teatro di malesseri e paura, come descritto da Rubén Tizziani in Mar de olvido e da Griselda Gambaro in El mar que nos trajo. Entrambi gli autori sottolineano la miseria e le condizioni precarie di igiene di cui soffrivano, in particolar modo, le donne, più fragili, a volte già indebolite dal peso della gravidanza.
L’arrivo in Argentina portava con sé spesso altrettante umiliazioni e rinunce. Al difficile adattamento della prima generazione di immigrate fa da contraltare il desiderio di integrazione e di patriottismo della seconda generazione, i figli di immigrati nati in Argentina. Costoro, lungi dal sentirsi perfettamente appartenenti alla cultura di provenienza, non si percepiscono come perfettamente inseriti nemmeno in quella di approdo, quest’ultima tuttavia eletta comunque, nella maggior parte dei casi, come contraddittorio scopo di un rinnovato senso di appartenenza; ed infatti in questo caso si parla di episodi di rifiuto nei confronti della società di origine. A tale sentimento patriottico dei nuovi argentini ha contribuito fortemente la scuola obbligatoria, laica e gratuita voluta dai pensatori liberali, tra cui Sarmiento, che hanno insistito sulla necessità di forgiare, proprio a partire dall’istituzione scolastica, un sentimento di appartenenza al Paese anche nei figli dei nuovi arrivati.
Beatriz Sarlo lo testimonia nel suo La máquina cultural, nel capitolo La scuola modello del quartiere in cui viene evidenziata l’azione della scuola come omologatore culturale e linguistico. A lei si affianca anche Ana María Shúa che, narrando le vicende di una famiglia polacca, ricorda come:
«La nonna aveva un po’ paura della maestra, che per lei era quasi un funzionario di frontiera, qualcuno distaccato dalle autorità per l’immigrazione a vigilare all’interno delle famiglie immigranti e assicurarsi che si fondessero, si disgregassero, si disfacessero correttamente fino a scomparire nel crogiolo di razze».
Le italiane di queste pagine sono spesso vecchie matrone energiche, come la nonna in El santo oficio de la memoria di Mempo Giardinelli che, nonostante l’età e gli anni di audace resistenza al lavoro e al dolore, crolla di fronte all’emozione di un possibile incontro con i figli:
«Alle otto di sera apparve, finalmente, ed era una nave enorme e tutta bianca, illuminata e imbandierata, che avanzava lentamente. Enrico mormorò che meraviglia, che nave, e la nonna si segnò e cominciò a piangere sommessamente, emozionata. La guardavamo, ma nessuno parlava, chi poteva trovare le parole in quel momento. Ci rendevamo conto che bisognava rispettare quel pianto, anche Nunzia mantenne un rispettoso silenzio e restammo tutti così fino a quando Enrico disse bene, andiamo e aprì la marcia verso
Anche Agata, l’anziana protagonista di La tierra incomparabile è vedova, forte, determinata e capace di decisioni ferme, come quella di tornare ottantenne in Italia a vedere i luoghi abbandonati tanti anni prima. Chi parte una volta non tornerà mai più nei luoghi del ricordo; se la memoria rimane fissa, inalterabile, il tempo incurante, invece, tocca e trasforma tutto. Antonio Dal Masetto descrive magistralmente il momento della decisione e del ricongiungimento della donna con il proprio paesaggio e la scelta finale che segna un ritorno al suolo argentino, nella consapevolezza che la vera patria è ormai solo una terra di mezzo, quella della memoria:
«[...] un’ossessione elaborata in strati e strati di desideri rimandati. [...] – Vado in Italia. L’aveva detto per le altre due donne, ma anche per se stessa. Per esternare l’idea che l’aveva attesa all’emergere del sonno e perché, nel manifestarla ad alta voce, acquistasse corpo e forma. La figlia e la nipote l’avevano guardata. [...] Le giunsero le immagini di una donna che era lei, intenta a percorrere le strade del paese, a pedalare sulla sua bicicletta, a entrare e uscire dalla fabbrica. Cosa avevano ancora in comune la donna che era partita e quella che stava tornando? Forse nulla, ormai. [...] Agata sperava ancora nel miracolo di trovare la casa e il terreno così come li conservava nel ricordo, intatti, preservati [...] provava la sensazione di aver appena commesso un errore, di aver visto ciò che non doveva vedere e adesso non avrebbe più potuto fare marcia indietro. [...] Era come se la casa contenesse un lamento per l’abbandono di anni e anni cui era stata sottoposta. Adesso Agata la percepiva come un essere vivo che aveva sofferto abbandono e oblio. Allora aveva provato pena per la casa e per se stessa. (Lo avrebbe ricordato) quando fosse stata di nuovo in Argentina, accanto ai suoi familiari, e i giorni fossero tornati a succedersi ai giorni nella calma di quel paese di pianura. Quando lei avesse cercato di recuperare, da là, la patria che per la seconda volta aveva perduto qui».
Agata resiste al ricordo, all’abbandono, ai viaggi, al cambiamento. Come le innumerevoli donne italiane che hanno visto dalle navi che salpavano da Genova, una terra amata allontanarsi e divenire azzurra e una terra sconosciuta, ma piena di speranze, avvicinarsi lucente all’altro capo dell’oceano.
Un’antologia preziosa, questa, che ci avvicina ad una parte della storia italiana a lungo dimenticata, costruita sul lavoro e la fatica dei nostri connazionali immigrati. Una raccolta puntuale e precisa di un panorama letterario eterogeneo e ben rappresentato dalle citazioni scelte dalle curatrici.
Protagoniste della loro storia personale e familiare, le donne italoargentine tornano alla ribalta anche come protagoniste letterarie nelle recenti pubblicazioni sul tema, come i romanzi di Laura Pariani. Leggere le loro storie ci farà forse ricordare che anche noi, italiani, siamo stati immigrati, e che nelle badanti rumene e nelle inservienti moldave che si aggirano per le “nostre” strade, c’è una parte della storia italiana. La nostra è stata ed è magistralmente raccontata. La loro, c’è da augurarsi, lo sarà.
Silvia Favaretto