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Direttore editoriale: Maria Ausilia Gulino
Anno III, n° 18, Febbraio 2009
Gli ori di Taranto brillano nella Città dei Due Mari
di Simona Corrente
Pubblicato da Scorpione editrice, un lungo viaggio storico-illustrativo
tra gli antichi tesori di una importante tradizione di artigianato orafo
Il Museo nazionale archeologico di Taranto, dopo diversi anni di restauro, è stato finalmente riaperto, restituendo al suo pubblico cittadino (e non solo) la splendida collezione di ori da sempre custodita. Nell’omonima opera di Amelia D’Amicis e Laura Masiello, Ori del Museo Nazionale Archeologico di Taranto (Scorpione editrice, pp. 120, € 13,00), viene esaminata l’intera collezione non solo dal punto di vista estetico, che può risultare immediato e palese, ma soprattutto sul piano funzionale, ripercorrendo storia e usi della Città dei Due Mari.
Le varie sezioni del libro sono corredate da approfondimenti e schede scientifiche esplicative, in cui le coautrici iniziano il lettore alle oreficerie di età ellenistica.
La D’Amicis e la Masiello – entrambe archeologhe della Soprintendenza per i Beni archeologici della Puglia – esaminano e illustrano, di volta in volta, reperti da leggere non solo in chiave artistico-artigianale, ma anche all’interno di contesti funerari, fornendo un’interpretazione sociale che permette di ricostruire fedelmente il quadro storico di riferimento.
Alla scoperta dell’intera collezione
«La consuetudine di seppellire il defunto insieme a preziosi ornamenti personali è già documentata nella Taranto tardo-classica della fine del V a.C., […] tra le offerte deposte nelle tombe si accresce infatti notevolmente la presenza di oggetti metallici di vario tipo, tra cui i gioielli che diventano distintivi delle sepolture femminili, in una sensibile trasformazione del rituale funerario che attraverso l’esibizione di ricchezze […] mira a sottolineare il prestigio sociale del defunto». Da queste parole della D’Amicis appare chiaro che proprio la necessità di realizzare simili rituali ha determinato un intensificarsi dell’attività delle officine orafe.
Tra le scoperte più pregiate, rinvenute nel territorio ionico, si annoverano gli ornamenti di Crispiano, le parures di Ginosa, il corredo della Tomba degli ori di Canosa che – continua la D’Amicis – «testimoniano l’alta qualità raggiunta dall’artigianato tarantino» nel III secolo a.C. La tradizione del rituale funerario persiste fino al I secolo a.C., periodo in cui viene ad estinguersi completamente, tanto che l’artigianato orafo si orienta verso modelli del tutto nuovi.
Nel libro vengono esposte le singole parti della collezione. Si inizia con Diademi che – come spiega la Masiello – «destinati ad adornare e trattenere le chiome femminili […] offrono gli esempi più straordinari dell’abilità tecnica e delle capacità artistiche degli artigiani tarantini. La documentazione restituita dalle sepolture di Taranto attesta il peculiare uso del diadema tubolare, costituito da una lamina saldata […] realizzata in oro, argento e in lega di piombo, quest’ultimo colorato di giallo all’esterno a imitazione del metallo prezioso».
Nella sezione Corone la Masiello introduce il lettore tra esemplari, destinati al culto dei morti, che riprendono motivi vegetali come alloro, edera e mirto, «quest’ultimo in una varietà molto piccola di fogliame propria del luogo, il mythus [sic] tarentinus». Si tratta di reperti dalle strutture leggere in cui si alternano metallo e terracotta. Le schede allegate consentono di guardare nel dettaglio ogni pezzo della collezione, gustandone tutti i particolari.
In Orecchini la D’Amicis illustra le due tipologie principali che si ritrovano nei corredi funerari del II secolo a.C., ovvero: a sistema rigido, costituiti da «un semplice anello diversamente elaborato», e a pendente mobile. Della prima tipologia fanno parte quelli detti a “navicella” «per la caratteristica forma a mezza luna sospesa a un filo metallico che ne consente l’inserzione nel lobo»; mentre del secondo gruppo fa parte il modello a disco «con pendente singolo a cono rovescio […] con pendenti in forma di vaso e di volatile». Suggestive le immagini di alcuni orecchini, che rievocano lo splendore passato.
Sempre la D’Amicis sviluppa la sezione Collane dove, oltre a quelle tradizionali «da allacciare al collo», ritroviamo un tipo corto indossato sul petto o all’altezza delle spalle, cucendolo direttamente sull’abito. Nel III secolo a.C. si diffonde la «lavorazione di un tipo di maglia aurea molto semplice, costituita da anelli saldati tra di loro che si chiude intorno al collo con terminali spesso decorati da protomi – elemento decorativo dell’arte antica in forma di testa o busto umano o animale – leonine».
Continuando a sfogliare il libro si giunge alla sezione Pendenti dove però si annovera un numero ridotto di reperti. Degno di nota il pomo baccellato in cristallo di rocca e oro che, viste le grandi dimensioni, non veniva indossato sul petto ma quasi sicuramente come cintura.
Una parte della collezione indubbiamente ben fornita è Anelli, che include quelli a castone inciso, raffiguranti soprattutto guerrieri, eroi, animali, divinità: tutte effigi realizzate attraverso l’impiego di un trapano a punta arrotondata su pietre come la corniola e il calcedonio. Questa tipologia, a partire dalla seconda metà del III secolo a.C., viene sostituita da anelli con pietra incastonata e con scarabeo. I metalli impiegati per la realizzazione della base a cerchio sono argento e oro.
La sezione Bracciali, al contrario, racchiude una produzione per certi versi limitata, infatti – spiega la Masiello – «i ritrovamenti di bracciali, a Taranto, non appaiono numerosi e si collocano soprattutto nel corso del III secolo a.C.». Resta l’esemplare di Mottola, sempre nella provincia ionica, «prodotto probabilmente in Asia Minore, […] una coppia di bracciali […] attualmente nelle collezioni dei Musei di Berlino, documenta l’adozione da parte degli orafi tarantini del modello spiraliforme, interamente realizzato in oro, composto da una lamina a nastro che si trasforma […] nella coda e nella testa di un serpente».
Nell’ultima sezione dell’opera, La Tomba degli ori di Canosa, è ancora la Masiello a illustrare l’omonima sepoltura rinvenuta nel 1928, che «deve il suo nome al ricco corredo di ori e argenti di altissima qualità che appartenevano ad una aristocratica del luogo, quell’Opaka Sabaleida, il cui nome resta inciso sulla cerniera della splendida conchiglia portacosmetici in argento». L’ipogeo è costituito da più celle: oltre alla tradizionale deposizione femminile, con i suoi oggetti più preziosi, è stata individuata la sepoltura di un uomo sicuramente appartenente al ceto dominante, come testimonia l’armatura da parata con lui sepolta.
Un libro, dunque, che ricostruisce storia e tradizioni socioculturali attraverso l’arte orafa di cui la Città dei Due Mari va molto fiera e che, ancora oggi, sostiene e promuove. Appare evidente – conclude la Masiello – che tra IV e III secolo a.C. Taranto fosse uno dei più importanti centri di lavorazione degli «oggetti in metallo prezioso, forse il più importante dell’Italia centro-meridionale, il cui linguaggio figurativo si è formato in parte sulla tradizione locale, in parte a seguito del trasferimento di artigiani che veicolavano tecniche e modelli».
Simona Corrente
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 18, febbraio 2009)
Elisa Calabrò, Mariangela Monaco, Maria Paola Selvaggi, Tiziana Selvaggi
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