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Comunicazione e Sociologia (a cura di Pierpaolo Buzza) . Anno III, n° 18, Febbraio 2009

Zoom immagine Quale sarà il futuro scenario
sul piano internazionale?
Il ruolo di Usa ed Europa,
ma anche di Cina e Russia

di Gaetanina Sicari Ruffo
In un volume pubblicato da Rubbettino
teorie e la certezza: la storia non è finita


Un’epoca sembra finire, quella della supremazia politica statunitense del XX secolo, e un’altra iniziare, ma ancora incerta tra il bipolarismo vecchio stampo e un eclettismo plurale con diversi interlocutori internazionali. L’esito dipenderà in parte dalle prossime elezioni statunitensi, in parte dalle reazioni del Medio Oriente, in parte dall’evoluzione economica, che è sempre il termometro della stabilità degli stati. Non è quindi fuor di posto analizzare la situazione presente e tentare dei pronostici che hanno però solo il valore di ipotesi. Disegna questo diagramma Paolo Janni in un saggio di Rubbettino: L’occidente plurale. Gli Stati Uniti e l’Europa nel XXI secolo (pp. 162, € 12,00). L’autore proviene dalla carriera diplomatica. È stato vicecapo dell’ambasciata italiana a Washington dal 1983 al 1991, e ambasciatore presso l’Organizzazione degli Stati americani dal 1991 al 1994. Attualmente insegna nella capitale statunitense European Integration, alla Catholic University of America e collabora con diversi giornali. La sua riflessione, quindi, appare autorevole, sostenuta da una larga e diretta esperienza e da una mirata competenza.

 

L’Europa dopo la caduta del muro di Berlino

Lo scenario che s’è aperto dopo questa svolta fatidica ha influenzato i successivi cambiamenti, che hanno visto profonde alterazioni nelle relazioni internazionali. Popoli e comunità vivono una continua metamorfosi. S’è creato il problema dei migranti che porterà ad assetti diversi di stanziamento. Bisogna inventare nuove leggi che disciplinino il loro afflusso e tenere contemporaneamente presente la necessità di conservare l’identità nazionale. I confini territoriali si sono spostati, creando talvolta fratture. S’impone di ridisegnare una nuova Europa. Le giovani nazioni, che sono entrate di recente nell’Unione Europea (che ora conta 27 membri), hanno suscitato un dibattito ancora in corso sul modo di armonizzare religioni, filosofie, economie,  tecnologie e culture. Si parla di adottare la cosiddetta “doppia velocità” in economia, per non danneggiare i paesi più sviluppati, mentre si aspetta che gli ultimi arrivati si adeguino al nuovo corso. Il problema non è facile e sia il cancelliere tedesco, Angela Merkel, che il presidente francese, Nicolas Sarkozy, si stanno adoperando per  una soluzione. Altro punto da risolvere è l’approvazione del Trattato di Lisbona (faticosamente firmato dopo il fallimento della Costituzione europea), sul quale alcuni stati ancora pongono rifiuti.

 

Gli Stati Uniti dopo l’11 settembre

Dopo il trauma collettivo dello spettacolare attentato, si è diffusa la sensazione che l’esercizio solitario del potere statunitense non basti più a custodire l’ordine mondiale. La serie concatenata di conflitti che ne è derivata è la spia certa d’una mancata stabilità. Si è giunti quasi a uno scontro di civiltà che è da evitare a tutti i costi se non si vuole rincorrere la follia delle armi, che niente costruisce, ma semina

solo rovine. Dopo l’11 settembre, siamo entrati in una parabola hobbesiana di violenti attacchi. Il fallimento del sogno kantiano della pace perpetua è sotto gli occhi di tutti. A subirne le conseguenze non sono solo gli Stati Uniti, che sono il bersaglio primario, ma tutte le altre nazioni che hanno rapporti con essa. La reazione degli statunitensi è stata quella di portare la guerra fuori dai confini del proprio territorio, armandosi e guerreggiando contro i paesi da cui sono partiti gli attentatori; quella degli europei, invece, è stata più articolata. Alcuni stati hanno appoggiato lo sforzo bellico statunitense, mentre altri si sono opposti, anche violentemente. Si è così venuta a creare una spaccatura all’interno dell’Europa stessa, poi ricomposta, sulla strategia da seguire in politica estera, come pure sono aumentati i dubbi sui successivi sviluppi  d’azione. Da una parte gli europeisti vorrebbero maggiore autonomia, mentre gli atlantisti propendono per una politica più accomodante con gli Stati Uniti. La Russia non fa più paura come nel passato e l’Occidente non si unifica per contrastarlo. Neppure lo spauracchio del terrorismo islamico e internazionale riesce a creare motivo sufficiente per un’unità di vedute. Così le tensioni crescono e con esse si approfondiscono le distanze.   

 

Il ruolo delle culture

Nel secolo precedente, conoscere attentamente la cultura dei vari popoli è stato il più diffuso obiettivo dell’educazione e della politica internazionale, necessario per il traguardo che si voleva raggiungere di sollecitare tutte le energie sociali al fine della pace e della fraternizzazione dei popoli, giusto secondo la memorabile Dichiarazione dei Diritti umani universali, stilata  all’indomani delle grandi rivoluzioni. Oggi, piombati violentemente nel mezzo di inattese guerre, la comparazione delle culture e il suo studio sono lettera morta e causa di rovine e di guasti forse irreparabili. Gli statunitensi sono entrati a guerreggiare nei paesi di cui non conoscevano né lingua, né tradizioni, né caratteri con la conseguenza d’attirarsi odio e malanimo, come succede nei confronti di occupanti indesiderati ed estranei, nonostante la loro campagna d’azione si svolgesse ufficialmente all’insegna dell’aiuto e della difesa delle popolazioni avvilite dai loro governanti. Ancora una volta, come successe per i due conflitti mondiali d’inizio e metà secolo, la cultura non è servita a far da scudo alle inermi popolazioni. Se poi anche le religioni, che in sé dovrebbero contenere i germi della pacificazione dei popoli, operano per inasprire gli animi e non per disarmarli, è chiaro il motivo per cui la cultura può divenire una piattaforma su cui si scontrano gli operatori di violenze e di morte.

 

Cina, Russia e Africa

La novità della scena mondiale è però la Cina. Divenuta la quarta potenza economica del mondo con una crescita annuale del 10%, ha dimostrato, ultimamente, di voler competere, senza troppo sottilizzare sul piano ideologico, con gli stati liberali, pure se al suo interno il modello non è quello democratico. Ma d’altronde: forse la democrazia, nel senso più originario del termine, non è in crisi un po’ dappertutto? La liberalizzazione, avviata negli anni ottanta da Den Xiaoping è per ora rivolta solo allo sviluppo economico, mentre le riforme politiche sono disattese. Il futuro di tutto il pianeta dipenderà molto dalla sua evoluzione. Qualche preoccupazione esiste, nel senso che non s’intravede bene come s’articolerà il dialogo con gli Stati Uniti e l’Europa, al di là degli aspetti economici. Ma, nella proiezione degli anni futuri, bisognerà tener conto anche della popolazione globale del pianeta, in crescita ad un ritmo continuo ed allarmante. Inevitabilmente si verificheranno enormi spostamenti di masse umane verso le aree più sviluppate, e si prevede che saranno alterate molte delle le tradizioni culturali dei paesi di accoglienza. Per questo bisognerebbe approntare fin d’ora un piano di sussistenza.

La Russia al momento è una potenza petrolifera e irradia i suoi prodotti nei paesi europei, ma se il processo democratico non si rafforzerà, rischia d’avere uno sviluppo “zoppo” e potrebbe tornare a chiudersi nell’autoritarismo di stampo imperialistico. La politica del premier russo, Vladimir Putin, si fonda sul divide et impera, offre accordi bilaterali di forniture d’energia alla Ue per isolare i piccoli stati, ex membri dell’Urss.

L’Africa è il continente meno sviluppato, lacerato da profonde crisi e da estrema povertà. Ma non è solo il disastro economico ad impoverirlo, pure le sanguinose faide dei vari gruppi etnici in lotta tra loro, la fragilità dei governi e il mancato rispetto dei più elementari diritti umani.

 

Quale sarà lo scenario politico del XXI secolo?

Qualche tempo fa lo storico Francis Fukuyama aveva annunziato la fine della storia, ma Janni è convinto ch’essa continuerà, seppure in forme profondamente rinnovate: «Siamo entrati egli dice – nella nuova era  post-internazionale nella quale le vecchie frontiere che separavano le questioni interne da quelle internazionali sono diventate porose». I vecchi stati-nazione non ce la fanno più a controllare le loro frontiere. Bisogna superarle per affrontare il mondo nella sua dinamicità. «Nel dicembre dell’89 – sostiene l’autore – la fine della guerra fredda apparve una svolta storica. Diciotto anni dopo, appare invece un altro passo avanti nell’evoluzione del sistema mondiale». La superiorità degli Usa, finora fondata sul suo apparato militare e sulla forte economia, è dubbio che possa continuare. Segnali preoccupanti in tal senso lo rivelano. Ci si interroga, allora, se continuerà a conservare la leadership o se la cederà a qualche altro paese. Difficilmente all’Europa, anche se negli ultimi anni ha fatto molti progressi e tende ad avere una visione multilaterale degli avvenimenti in corso. Il miliardo circa degli abitanti che la popolano ha un Parlamento eletto con voto popolare, una Carta dei diritti fondamentali, un Consiglio dei Ministri con un Presidente di turno, una Commissione europea che dà le direttive, una Banca centrale, una bandiera, un inno, una festa “nazionale” (il 9 maggio). Restano però alcuni nodi da sciogliere: l’adesione della Turchia è uno di questi. È fondamentale poi stabilire i poteri del Parlamento europeo e decidere se indirizzare l’Europa verso una federazione o optare per una “cooperazione rafforzata”. Nel vuoto di ideologie che s’è creato urge ripensare a un nuovo modello politico che vinca le pericolose sfide  del nostro tempo corrente: l’Europa infatti teme di diventare una Eurabia, il mondo arabo d’essere lasciato indietro dal processo di globalizzazione, il continente asiatico d’avere un surplus di popolazione, la Russia di subire tensioni etniche che la smembrino, gli Usa, infine, d’essere attaccati sul proprio territorio.

 

Due correnti di pensiero sull’Occidente

Usa ed Europa sono le due varianti del mondo occidentale e sul loro futuro esistono due scuole di pensiero. La prima è convinta dell’uguaglianza identitaria dei due continenti, nonostante le marcate differenze; la seconda invece propende a credere che queste ultime segneranno un distacco incolmabile, specie dopo la guerra in Iraq.

I “fondamentalisti occidentali” vorrebbero conservare le cose così come sono, mentre “i relativisti” tendono a conciliare e a condividere tutte le culture che sono circolanti nei loro territori. Forse la via mediana potrebbe essere la soluzione per non perdere completamente l’identità, retaggio del passato che ha significato conservare le radici greco-romane, e per dialogare con Gerusalemme. Il nuovo, insomma, è tutto da costruire, senza sradicare completamente leggi e costumi.

 

Gaetanina Sicari Ruffo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 18, febbraio 2009)

Collaboratori di redazione:
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