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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
Storie al femminile… tra acqua, aria, fuoco e terra
di Giusy Patera
I quattro elementi in un’antologia di racconti stesi da donne, nel segno
della collana Altera diretta da Renate Siebert ed edita dalla Rubbettino
Gli elementi del mondo: acqua, aria, fuoco e terra. Partendo da questa idea, atavica come il respiro dell’uomo stesso, alcune donne, dell’intero mondo, si raccontano… ma non raccontano solo se stesse. Certamente nati come un pretesto, all’inizio di un’avventura letteraria prima ed editoriale poi, i quattro elementi – a cui Aristotele aveva aggiunto un quinto: l’etere, divenuto oggi sinonimo di comunicazione globale, che rappresenta oramai la materia predominante della cultura mondiale – si sono trasformati in voci narrate, che si rincorrono da una cultura all’altra accomunate dal sentire femminile.
Le Storie d’aria, di terra, d’acqua e di fuoco (Rubbettino, pp. 230, € 15,00), come hanno evidenziato le curatrici – Eleonora Chiavetta e Silvana Fernandez, la prima esperta di Linguistica inglese e di Letteratura delle donne, la seconda scrittrice – traggono ispirazione dagli stessi elementi, ma con interpretazioni diverse alzano le loro voci… come nella tradizione della collana di cui fa parte questo libro, Altera, diretta da Renate Siebert.
La donna come l’acqua senza una forma
La scrittura è al femminile, vergata da donne. Secondo una delle curatrici l’acqua è l’elemento preferito dalle arabe, mentre per le occidentali la fonte migliore d’ispirazione è la terra. L’aria è amata da tutte, il fuoco è il prescelto dalle italiane:
un’osservazione assai interessante che fa riflettere sulla condizione femminile in alcune parti del mondo e su come questa rispecchi le dette preferenze.
Basta citare l’autrice turca, Erendiz Atasü, che rinfaccia agli uomini di pensare che una donna sia «acqua che potete versare nel bicchiere perché prenda la forma che voi volete». È un biasimo questo che si potrebbe estendere a tutte le culture del mondo, araba, occidentale o qualsiasi altra.
Come le bambine del Nilo che, pur vivendo sul fiume, non imparano a nuotare come non imparano ad emanciparsi.
In quanti modi…
In quanti modi si può dire una cosa, in quante metafore si può rappresentare?
La “terra” può essere giardino, Eden perduto, patria amata e rifiutata, cruda terra che ricopre la bara, metafora di abbandono, morte, perdita. È polvere che torna a se stessa, è il legame del sangue, è le radici e di seguito nostalgia quando queste si seccano.
L’acqua è libertà, anzi liberazione ma anche cambiamento, come lo sciabordio dell’acqua salata pronta ad ingoiare sempre nuove porzioni di battigia. Ma, come ogni metafora richiama il suo opposto, è anche annegare. È l’acqua che spegne il fuoco, è quindi l’immobilismo.
L’aria è l’elemento che maggiormente ispira il sentimento della libertà, è immagine di spazio aperto, senza limiti, il regno degli uccelli, della luce, metafora di libero pensiero, ma soprattutto mezzo attraverso il quale passano odori e suoni, che si trasforma in vento. È però anche la sua assenza, il senso di soffocamento, la claustrofobia, pure il respiro trattenuto perché si avveri una preghiera.
Il fuoco è il racconto eroico di chi con esso lavora, vive ai margini del vulcano e quasi lo domina. Forma di purificazione, è anche fiamma di un’appassionante storia d’amore.
Parole malate
Queste storie raccontano di donne sole, abbandonate dal marito o comunque separatisi non per la fine dell’amore, come siamo abituati a vedere nelle strade che percorriamo, ma per le loro idee, per una causa che sa di rivolta e di quel coraggio che raramente nutre gli uomini che si incontrano e che sanno brillare solo di scialbore. Spesso sono anche le donne che scelgono la solitudine per ritrovare se stesse e i propri sogni, quando hanno avuto la libertà di costruirne e poi di possederne. Ad alcune è stato negato anche questo.
Nel racconto dal titolo Il giardino dei diciassette tipi di rose, la protagonista lamenta che le parole sono malate, perché non si utilizzano altro che frasi del tipo: «Verranno giustiziati. Dove erano le teste? Non si sa dove siano stati seppelliti. La polizia non ha restituito le salme!».
Ci si chiede di quanto tempo abbia bisogno una parola per tornare sana e si constata che non solo in una terra straniera si perde la propria lingua madre, ma la si può perdere anche nella propria terra.
In questi nostri giorni, perduti, non sentiamo più la delizia della conquista più grande dell’uomo: la parola scritta e parlata. Divenuta più affilata della lama di una spada, pronta a colpire i nemici e non a vincerli con la giustezza di ragionamento.
Ma se dovessimo giocare al pugno con la carta, diremmo che tutto ciò che occorre all’uomo – e alla donna – per essere felice è l’aria intorno a esso, la terra sotto la sua testa, l’acqua ai suoi piedi, il calore del fuoco sopra di lui… come quando si è in riva al mare!
Annalisa Pontieri
(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 1, settembre 2007)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi