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Anno I, n° 1 - Settembre 2007
Poetica del forzato esilio e del sofferto esistere
di Alessandro Tacconi
Una raccolta poetica intensa e struggente di uno dei grandi poeti
viventi albanesi, Gëzim Hajdari, che racconta l’essere straniero
È proprio della poesia e delle sue “profonde” possibilità, il saper narrare l’uomo e i mutevoli turbamenti che lo animano. La raccolta Stigmate/Vragë (Besa Editrice, pp. 124, € 11,00) del poeta albanese Gëzim Hajdari narra in prima persona l’esperienza della lontananza, l’essere e il vivere la distanza dalla propria patria forzatamente con il semplice vigore della parola, che in sé raccoglie un grande dolore.
Scrivere la distanza da sé e dagli altri lasciati fatalmente a casa, quella casa abbandonata a forza. Il mondo interiore che diventa il luogo di questo canto inesausto, luogo di ricostruzione di senso, puntellamento di angoli significanti, si crea con sofferta fatica: «Ogni giorno creo una nuova patria/in cui muoio e rinasco». Si aprono all’orizzonte, allora, prospettive interpretative parziali, tenui speranze verso il futuro, verso tutto ciò che ha anima o che si può toccare con lo sguardo bramoso.
Il corpo del poeta diventa un oggetto fra gli altri, fra i molti che s’incontrano nella quotidianità: «è la mia pelle appesa al crepuscolo che ascolta/cerca la mia Voce nella nebbia/di un altro alfabeto», invisibile barriera percettiva, consistente forma, morbida macchina di muscolo senziente, vivificante il dolore come nessun’altra. La fisicità si compone di slanci, di movimenti che nell’assisa contemplazione in realtà crea urla che irrompono attraverso l’osservazione stordita e persino esausta.
Attraverso i versi di Hajdari si assiste allo sviluppo di un’esistenza che si accomoda in una condizione che sente “altra” (profondamente ingiusta?!), rispetto a ciò che avrebbe dovuto essere. La meditazione solitaria nella stanza in affitto, locale alquanto disadorno, metaforicamente relazionato con l’in & out, in cui è stato dipinto il senso di un permanere in prestito: «le mie strade non ritornano nell’acqua/la mia stanza ogni sera prende fuoco/da anni in attesa e non aspetto nessuno/che giunga nella mia dimora».
Prende forma, nel farsi poetico, la denuncia del senso di una distanza tra sé e gli altri, cercati, osservati – forse invidiosamente – per quel tempo che è loro ma che è stato a lui tolto, negato. Al poeta migrante, all’esiliato, spetta solo la magra consolazione di una lingua “bifida”, ingrata, in apparenza perfino saccente, che lui può solo apprendere.
La lingua negata allora, quella che in realtà è imposta, aspetta un cenno di saluto, un benvenuto che difficilmente arriverà spontaneamente dal profondo dell’animo. L’esiliato è, prima di tutto, “straniero”, quindi diverso, e porta con sé il segno profondo della propria differenza, dell’alterità (termine mai così mondano come negli ultimi anni!), che non lascia speranze rispetto ad approdo di significati definitivi e ulteriori: «Ogni giorno creo una nuova patria/in cui muoio e rinasco/una patria senza mappe né bandiere».
La poesia crea fiori malgrado la sofferente condizione interiore dell’esiliato che patisce la distanza dall’amata patria.
Una possibile metabolizzazione della sofferenza
Il gesto da parte degli “altri”, un abbraccio stretto nello spirito della fraternità, oltre qualsiasi tipo di dogma e credo: soltanto un solidale contatto che riconosca la presenza di questo “altro”, che ricostituisca solidità, fisicità valorosa all’essere, non solo del migrante ma dell’uomo stesso. Ecco il senso profondo della ricerca poetica di Hajdari.
Lo slancio, il dare per niente, il “generoso senza tornaconto” non sono azioni così frequenti, non fanno parte di quegli incontri così consueti, almeno in Italia. Ma ciò non significa che siano inimmaginabili o impossibili, tutt’altro! L’affezione, il sentimento per... nasce in parallelo alla pratica della nuova lingua, ai primi timidi passi nella sintassi, nei paradigmi concettuali di una grammatica esistenziale che riprende a camminare, che trova nuovi sentieri, che riprende fiducia e coraggio un giorno alla volta.
Non è così semplice, non è opera che si possa attuare velocemente, né tantomeno che si possa progettare a tavolino. L’esistenza vive di polpa, di ricordi, di amori, di legami, di pulsante sangue vivo.
La forza di volontà, la determinazione, una certa disillusione – perché negarla! – sono la materia viva che dà forma e forza al desiderio di lasciare comunque un segno. Le parole nuove sono il codice della rivincita, della riscossa, della rivendicazione di una propria ragion d’essere.
Infine, una volta ancora, e probabilmente per il resto dell’intera vita, il sentimento più profondo e struggente corre al Paese tanto amato, al canto della cicala, a ciò che è stato fatto alla terra da chi, in nome di una giustizia solo sommaria, aveva in mente tutt’altro: «come ti hanno ridotto mia patria/ossa e pelle/i tuoi tiranni moderni/in nome del popolo/come ti hanno lasciato paese dell’alba/merda e piscia/i tuoi poeti/che giurano in nome della Bandiera».
Alessandro Tacconi
( www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 1, settembre 2007)