Homepage - Accesskey: alt+h invio
Editore: Bottega editoriale Srl
Società di prodotti editoriali, comunicazione e giornalismo.
Iscrizione al Roc n. 21969.
Registrazione presso il Tribunale di Cosenza
n. 817 del 22/11/2007.
Issn 2035-7370.

Privacy Policy

Direttore responsabile: Fulvio Mazza
Anno I, n° 1 - Settembre 2007
Sei in: Articolo




Scienza politica (a cura di Mariangela Monaco) . Anno I, n° 1 - Settembre 2007

Zoom immagine Le varie teorie che interpretano l’Unione europea
di Mariangela Monaco
Diverse prospettive che analizzano, attraverso specifici paradigmi,
il processo d’integrazione, illustrate in un saggio edito da Giuffrè


Il veloce sviluppo conosciuto dall’Unione Europea negli ultimi anni (a partire dall’Atto unico del 1986) ha fornito nuovi spunti di teorizzazione agli studiosi di Scienza politica. Se fino a metà degli anni Ottanta erano gli esperti di Relazioni internazionali a dominare  la riflessione sull’integrazione europea, successivamente si sono affiancati anche quelli di Politica comparata. Ciò ha senza dubbio contribuito ad arricchire e a rinvigorire il dibattito.

Domande quali: cos’è l’Unione Europea?, l’Ue è un sistema politico?, se sì, di che tipo?, lo si puoi paragonare ad altri sistemi?, quali sono le sue caratteristiche fondanti?, hanno trovato nuove risposte. Con le analisi di Relazioni internazionali che partono dal presupposto che l’Ue è un fenomeno di politica internazionale, e quelle di Politica comparata che invece in essa vedono prima di tutto un nuovo modello di politica interna.

Un recente saggio di Francesca Longo, docente di Politica dell’Unione Europea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’ateneo di Catania, dal titolo Unione Europea e scienza politica. Teorie a confronto (Giuffrè editore, pp. 164, € 16,00), traccia il punto della situazione, attraverso una dettagliata e chiara descrizione delle varie teorie, rilevando come ormai non ci sia più uno scontro tra le due discipline sopracitate bensì un costruttivo confronto. Il libro si suddivide in tre parti: nella prima – sulla quale ci concentreremo in questo scritto –, l’autrice ripercorre le teorie che cercano di capire cosa è l’Ue e quali sono le caratteristiche fondamentali dell’integrazione; nella seconda, si affronta la questione della polity (ossia, se esiste una comunità politica europea) e della politics (modalità e processi per l’esercizio delle funzioni di governo); infine, nella terza si tratta della rappresentanza, sia politica che degli interessi.

 

La concezione neorealista

Come accennavamo, la prima parte si occupa delle teorie sull’integrazione europea. Inevitabilmente – perché tale corrente ha avuto la predominanza negli anni Sessanta e Settanta – ad aprire il capitolo è la concezione realista, e più specificatamente nella sua forma neorealista teorizzata da Kenneth Waltz nel 1979.

Com’è noto, questa prospettiva è statocentrica, e – a differenza del realismo – dà rilevanza anche al sistema, formato dalla rete di interazioni tra gli stati. I paradigmi e le variabili neorealiste hanno dato origine ad una serie di teorie che, dato che intendono l’Unione Europea come una struttura definita dalle relazioni di potere reciproche tra gli stati membri, sono state definite intergovernative.

Nota l’autrice che tali teorie «pur nelle differenze che le caratterizzano, hanno in comune la considerazione che le istituzioni dell’Unione non sono indipendenti, ma guidate dall’azione e dalle scelte degli stati membri e sono proprio questi ultimi che, contrattando i loro interessi, determinano l’evoluzione dell’integrazione in termini di riforme istituzionali e di contenuti delle policies».

Tra queste, ricordiamo in particolare quella di Joseph Grieco, che, conscio delle sfide lanciate al neorealismo dallo sviluppo dell’integrazione, ha rielaborato la teoria concludendo che l’Unione economica e monetaria è il prodotto di un negoziato tra stati concluso con lo scopo di ottenere benefici, con regole decise dagli stati in sede di conferenza intergovernativa al fine di consentire ad ogni governo di esercitare la propria influenza sui contenuti delle politiche (e quindi di perseguire il proprio interesse).

A Simon Bulmer, invece, si deve la domestic politics approach. Punto focale è che lo stato non è considerato un attore unitario: piuttosto si configura come un’arena nella quale agiscono forze sociali e politiche e agenzie di rappresentanza allo scopo di realizzare i propri fini influenzando il processo decisionale. Quindi, scrive la Longo, lo stato è concepito come «un aggregatore di preferenze e interessi sociali che lo legittimano nella sua azione a livello europeo». Ciò significa che la variabile fondamentale per comprendere l’azione degli stati membri nell’Ue non è il governo, ma tutta la polity nazionale, che contribuisce alla formazione delle preferenze.

Questo tipo di analisi è stata ulteriormente approfondita da Andrew Moravcsik, il cui modello dell’intergovernativismo liberale si basa su due livelli: il primo è, appunto, quello della formazione delle preferenze interne (dove l’interesse nazionale emerge dal conflitto politico interno), che viene letto mediante la teoria liberale, mentre il secondo è quello europeo delle negoziazioni strategiche interstatali (caratterizzato dalla volontarietà – grazie al fatto che le decisioni fondanti, cioè le riforme dei trattati, sono prese all’unanimità – e l’abbondanza di informazioni di cui dispone il singolo stato). Analizzando i due livelli, Moravcsik conclude che il processo di integrazione ha rafforzato lo stato, sia nei confronti del sistema internazionale sia dell’arena politica nazionale.

 

La prospettiva neofunzionalista

Un altro filone è quello che fa capo alla teoria pluralista. Tale prospettiva nasce verso la metà degli anni Sessanta, in seguito alla comparsa di due fenomeni nuovi sulla scena internazionale: la nascita di numerose organizzazioni internazionali e la crescita di rilevanza di alcuni attori non statuali nell’elaborazione delle politiche globali. Ciò dimostra la perdita da parte degli stati del monopolio delle decisioni: l’Unione Europea quindi è uno dei soggetti che partecipano all’erosione del potere e dell’autonomia decisionale degli stati.

All’interno di questo filone un posto importante occupa il neofunzionalismo, che, evidenzia l’autrice, ancora oggi è considerato l’approccio teorico che ha guidato la strategia politica dei padri fondatori.

Infatti, la Longo sottolinea che «il neofunzionalismo individua nell’integrazione un processo che ha il fine di garantire la pace grazie alla creazione di una fitta rete di interdipendenza tra gli attori interessati e deve progredire mediante una strategia che prevede la graduale integrazione di settori funzionali ma economicamente rilevanti e strategici e la creazione di istituzioni sovranazionali alle quali affidare la gestione politica e tecnica dei settori integrati». La scelta di dar vita al processo integrativo è perseguita dai governi perché alcuni gruppi sociali ed economici vincenti ritengono che l’integrazione sia il mezzo migliore per massimizzare i propri interessi.

Molto importante in questa teoria è lo spill-over (travaso), un meccanismo che si attiva quando una politica integrata si espande per raggiungere i risultati ottimali che si erano identificati come fine originario. Leon Lindberg ha definito lo spill-over come un processo ove «una data azione, relativa ad un obiettivo specifico, crea una situazione nella quale l’obiettivo originario può essere assicurato solo mediante ulteriori azioni che a loro volta creano la necessità di ulteriori azioni, e così via». Il neofunzionalismo sostiene che, affinché tale meccanismo produca integrazione, deve esserci una specifica domanda in tal senso di gruppi sociali interessati.

Anche le istituzioni sovranazionali che sono state fondate per gestire i settori integrati assumono un ruolo fondamentale in questa analisi: esse, infatti, sviluppano interessi istituzionali sulla base dei quali mirano ad espandere l’integrazione, per poter aumentare il loro potere e il loro ruolo nel contesto istituzionale.

 

La posizione istituzionalista neoliberale

Il sistema globale contemporaneo è caratterizzato da una forte interdipendenza, che erode l’autonomia degli stati, in quanto questi subiscono le conseguenze dei processi politici ed economici internazionali, e che rende inefficienti le politiche statali. Per questo motivo, gli stati danno vita a forme di cooperazione per fornire risposte collettive ai problemi che interessano tutti gli attori del sistema, e costituiscono i regimi internazionali, definiti da Stephen Krasner «insiemi di principi, norme, regole, procedure decisionali attorno ai quali convergono le aspirazioni degli attori in una data area tematica». È questo il punto centrale del pensiero degli istituzionalisti neoliberali.

Di conseguenza, anche l’Unione Europea è un regime creato dagli stati per rispondere alle sfide del sistema globale.

Il problema – nota la Longo – è che l’Ue, col passare degli anni, ha sviluppato delle caratteristiche che rendono il concetto di regime insufficiente a definirne natura e funzionamento. Più precisamente «l’alto grado di istituzionalizzazione, le competenze decisionali esclusive in numerosi settori di politiche, il potere formale delle istituzioni, la complessità del sistema decisionale e la pluralità degli attori statali e non statali coinvolti nei processi politici rendono necessario individuare i processi e le istituzioni specifiche che sono stati attivati nell’ambito dell’integrazione europea e che permettono di dimostrare che la variabile istituzionale è rilevante».

Fritz Sharpf, infatti, sostiene che i modelli e le caratteristiche delle scelte politiche compiute dagli attori che detengono il potere decisionale nell’Ue è determinato dall’assetto istituzionale in cui operano. Per dimostrare questa sua ipotesi, lo studioso effettua un’analisi comparata tra il sistema politico dell’Ue e il sistema federale tedesco, rilevando come in entrambi il particolare tipo di federalismo che li caratterizza crea una relazione tra il livello del governo centrale e quello degli stati federati basato sulla cooperazione costante. Non solo. L’assetto istituzionale è strutturato affinché possa garantire l’equilibrio dei poteri tra i due livelli, grazie a due regole basilari: la diretta dipendenza delle decisioni del livello centrale dall’accordo dei governi membri del sistema e la necessità che questo accordo sia unanime o quasi unanime.

L’autrice evidenzia subito però la debolezza attuale della tesi di Sharpf: «è stata elaborata alla fine degli anni Ottanta in un periodo in cui l’unanimità nelle votazioni del Consiglio dell’Unione era di fatto utilizzata per la maggior parte delle politiche di competenza dell’Unione». Con le successive riforme di Maastricht, Amsterdam e Nizza, la regola dell’unanimità è stata riservata ad un numero limitato di politiche, mentre quella della maggioranza qualificata è diventata la regola generale di voto.

Ma allo stesso tempo, prosegue la Longo, l’analisi dello studioso tedesco rimane importantissima per due motivi: ha introdotto nell’ambito delle teorie internazionaliste sull’Ue il metodo della comparazione, e ha evidenziato che la struttura decisionale – e particolarmente il meccanismo decisionale – ha un impatto determinante su tutto il processo di sviluppo dell’Ue e sui contenuti delle politiche.

In conclusione di questa prima parte del saggio, a cui abbiamo riservato questo nostro articolo, l’autrice si concentra anche sulla prospettiva del regionalismo internazionale e sulla questione della international actorness.

 

Luigi Grisolia

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 1, settembre 2007)
Progetto grafico a cura di: Fulvio Mazza ed Emanuela Catania. Realizzazione: FN2000 Soft per conto di DAMA IT